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Hwang Sŏk-yŏng e L’infinito mare dei vent’anni

Hwang Sŏk-yŏng spara a zero sulla scuola, autoritaria e repressiva, dove lo studente non può formare una sua personalità. Chissà che oggi qualche studente l’avrà pensato, mentre era impegnato nella prima prova degli esami di maturità. Eppure, anche i tempi di scuola diventano un dolce ricordo, quando l’alternativa è essere spediti al fronte e ritrovarsi in un bagno di sangue. Questa è la prima lettura veramente convincente del 2023. Venite che vi racconto.

Trama

Nella Corea del Sud degli anni Sessanta, Chun, in procinto di partire per il Vietnam a combattere una guerra che non lo riguarda, ripensa alla giovinezza a cui sta per dire addio. Attraverso una serie di flashback incrociati, dove la voce di Chun si alterna a quella dei suoi amici più stretti, ripercorriamo il suo abbandono della scuola, il viaggio iniziatico per il Paese in compagnia di Inho, le aspirazioni letterarie, le prime esperienze amorose, l’arresto in seguito a una protesta studentesca e l’incontro con il “Capitano” che gli farà da guida nel mondo del proletariato. Attingendo a piene mani dalla propria esperienza autobiografica, Hwang Sŏk-yŏng esprime il disagio e l’insofferenza di una generazione inquieta e smarrita. 

La dolcezza del ricordo

Fin dal titolo, è chiara l’atmosfera in cui Hwang Sŏk-yŏng immerge il lettore: la nostalgia, il ricordo, la tenerezza per quella stagione tormentata, eppure felice, che è la giovinezza. Il romanzo è fortemente autobiografico, questo si percepisce immediatamente. Direi che lo scrittore potrebbe essere Chun, o anche essere sparso in mezzo a questa sorta di setta dei poeti estinti coreana. In realtà, sono tutti diversi, scrivono, disegnano, tirano linee. Qualcuno vuole studiare, qualcuno dichiara guerra all’istituzione scolastica. Ma tutti vivono la letteratura, quella poca che riescono a racimolare tra libri proibiti ed edizioni economiche con traduzioni alla buona, come un mezzo per distinguersi dalla massa, per capire il mondo, per trovare altre anime tormentate con cui trovare delle affinità elettive. C’è un passaggio che ho trovato molto significativo, quando i ragazzi si confrontano con la dolce vita italiana e le sue canzoni. “Sono figlie dell’espresso e della siesta, che ne sanno loro della nostra disperazione?

La nostra disperazione

E come potrebbero non essere disperati? Stretti tra una guerra mondiale, manifestazioni violente in cui vedono morire un amico, il ribaltamento dei ruoli sociali, che ha lasciato alcune delle loro famiglie senza niente, l’assenza di prospettive se non ti conformi a un percorso già delineato da qualcun altro. Con grande lucidità, questo gruppetto si confronta, si rafforza, si aiuta a crescere, si sforza di trovare una propria voce. E alla fine qualcuno ce la farà, qualcuno no, come sempre succede.  “Io non so chi sono”. E’ Hwang Sŏk-yŏng/Chun il più follemente lucido, quello che trascina gli amici in montagna, per ritrovarsi. Ma che poi iniziano a fare su e giù, perché sì è vero, Seoul li opprime, ma li attira anche con la forza dell’appartenenza. Ed ecco che allora deve iniziare un viaggio, un viaggio vero.

Il viaggio

E’ la parte che mi è piaciuta di più. Non tanto e non solo per gli appunti che ho preso sui posti che voglio vedere quando tornerò in Corea, ma per la metafora della scoperta di se stessi che questo viaggio regalerà loro. Accompagnati dagli adulti. Chi più chi meno, gli adulti hanno contribuito alla loro formazione, pure quando vanno in giro con un bastone con inciso “amore materno”. Non c’è odio, non c’è rabbia nelle parole di Hwang Sŏk-yŏng. C’è la consapevolezza che ognuno di loro ha fatto parte del suo percorso di vita. Che gli insegnanti possono essere come Cicogna, o possono essere carogne, ma che anche le carogne possono comportarsi seriamente, per una volta. Nel viaggio, ci sono anche dei momenti umoristici, una masturbazione epica, tutti i trucchetti per non pagare i mezzi di trasporto, un contadino furbo. Genitori che li lasciano fare. La libertà, vera, sia per i ragazzi sia per le ragazze. Molto più liberi di come sono adesso i loro coetanei, anche se sembra il contrario. Il ritratto di un’epoca, una parvenza di serenità prima che si abbatta la tragedia sulle loro teste.

Il Vietnam

La guerra, i disordini e i colpi di Stato rimangono sullo sfondo. Loro cambiano, ma il gruppetto si riunisce quando conta. “Non far fuori troppi nemici”. E’ una frase meravigliosa, in questi tempi di guerre sante e giuste, questi ragazzi ci ricordano che chi va al fronte non sa perché e non vorrebbe andarci. La guerra è un treno che entra in una galleria buia. E poi arrivò l’inverno, e fu allora che venne deliberata la mia partenza per il Vietnam. Deliberata. Fin dall’incipit, sappiamo che Chun prende le distanze da decisioni che accetta senza capirle. E che non si aspetta di tornare.

L’amore

E poi l’amore, la scoperta dei propri desideri e di quelli dell’altro. L’incertezza, l’imbarazzo. Non crederci abbastanza, o crederci troppo. Ma qui non ci sono grandi amori, passioni esasperate. C’è grande concretezza, la necessità di sopravvivere, a qualunque costo. “Forse non ci credevamo abbastanza“. Non è sempre così che si perde l’amore? 내게 사춘기가 그런것 같았어.감기약 먹고 자다 깨다 그런 나날 Mi è sembrata, la pubertà, uno di quei giorni in cui ti svegli dopo aver preso medicine per il raffreddore.

Potrei parlarvi per ore di questo libro, si è capito? Ma mi fermo qui, posso solo consigliarvi di leggerlo. E che il Literature Translation Institute of Korea (LTI Korea) contribuisca alla traduzione di altri testi come questo.

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Quando le montagne cantano, di Nguyễn Phan Quế Mai

Quando le montagne cantano, di Nguyễn Phan Quế Mai è uno dei romanzi più acclamati degli ultimi tempi. Mi sono, quindi, lanciata con fiducia, ma non è andata esattamente secondo le aspettative. Ora vi racconto.

Trama

Un paese in guerra. Una famiglia divisa. Dal loro rifugio sulle montagne, la piccola Huong e sua nonna Dieu Lan sentono il rombo dei bombardieri americani e scorgono il bagliore degli incendi che stanno devastando Hanoi. Fino a quel momento, per Huong la guerra è stata l’ombra che ha risucchiato i suoi genitori, e adesso quell’ombra sta avvolgendo anche lei e la nonna. Tornate in città, scoprono che la loro casa è completamente distrutta, eppure non si scoraggiano e decidono di ricostruirla, mattone dopo mattone. E, per infondere fiducia nella nipote, Dieu Lan inizia a raccontarle la storia della sua vita: degli anni nella tenuta di famiglia sotto l’occupazione francese e durante le invasioni giapponesi; di come tutto fosse cambiato con l’avvento dei comunisti; della sua fuga disperata verso Hanoi senza cibo né denaro e della scelta di abbandonare i suoi cinque figli lungo il cammino, nella speranza che, prima o poi, si sarebbero ritrovati. Quando la nuova casa è pronta, la guerra è ormai conclusa. La saga di una famiglia che si dipana lungo tutto il Novecento, in un Paese diviso e segnato da carestie, guerre e rivoluzioni. 

Interessante, sulla carta

Sulla carta, la trama era interessante. Tre generazioni di donne, un Paese, il Vietnam,  devastato e diviso dalla guerra, la lotta per la sopravvivenza e un’allodola che, nonostante tutto, quando canta sembra che cantino anche le montagne. Poetico, ispiratore. Peccato che nel romanzo non vi sia traccia di tutto questo. O meglio, c’è una sorta di reportage storico, didascalico, dove succede questo, e poi quest’altro, e poi oh! che fortuna, e poi oh! perché proprio a noi. E via così, in una sorta di telenovela che va avanti pagina dopo pagina senza cambiare tono o prospettiva. Scorrevole, questo sì. E’ un romanzo che si finisce in qualche giorno senza grande difficoltà. Ma cosa resta?

Il timore di affondare il coltello

Per quanto mi riguarda, resta la perplessità sul perché sia stato tanto acclamato. Per le disgrazie che si susseguono? Ma quelle già Vivere! ce le aveva raccontate con ben altro spessore. Per l’ambientazione “esotica”? Forse, questo è già più convincente. Per una bella copertina, dico io. Quella sì, l’ho apprezzata. Per il resto, la storia raccontata mi ha lasciato poco. E’ stata, come posso dire, la mancanza di tono adeguato a suscitare perplessità. La scrittrice appare lontana anni luce da quello che racconta, sembra quasi che abbia avuto timore di affondare il coltello nella carne. Ma questa è una vicenda umana dove il coltello è stato affondato e rigirato nella piaga più e più volte. Com’è possibile non sentirlo? Eppure, non l’ho sentito, non mi è arrivato quel dramma che ci sarebbe dovuto essere. Va bene la pacificazione, va bene porgere l’altra guancia, va bene l’amore, va tutto bene…ma fino a un certo punto. La guerra lascia morte, distruzione, povertà, famiglie decimate e separate. E questo orrore, se, come dice nelle interviste, era il suo obiettivo, va raccontato affondando le mani nella terra. “Oh, Guava, un tempo pensavo che il nostro destino fosse nelle nostre mani, ma ho imparato che, quando c’è una guerra, le persone sono solo foglie che cadono a migliaia, a milioni, a causa dell’imperversare della tempesta”.

Le nostre storie sopravvivono

Spero che non mi troviate troppo tranchant nel giudizio. Questo è il primo libro di Nguyễn Phan Quế Mai, che non vive in Vietnam. Penso e spero che i prossimi lavori saranno più emozionanti, anche sulla scia del successo che le è piovuto dal cielo. Resta in me, almeno per ora, solo un’infarinatura di una storia che conoscevo già in parte e che vorrei approfondire. Se avete suggerimenti, sappiate che sono ben accetti.  “Comprendi perché ho deciso di raccontarti della nostra famiglia? Se le nostre storie sopravvivono, noi non moriremo, neanche quando i nostri corpi non saranno più su questa Terra”.

Voi che mi dite? Quando le montagne cantano vi è piaciuto? 

p.s. secondo me nel finale c’è una svista, o un errore di traduzione, non so. Non ne posso parlare per non fare spoiler, ma sono passati troppi anni perché Guava possa parlare in quel modo. Quando lo leggerete, fateci caso. E ditemi che ne pensate.

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