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Il magico potere del riordino – Marie Kondo

Mi capita tra le mani il manuale di Marie Kondo, Il magico potere del riordino. So che là fuori c’è la neve e ancora si congela, ma manca meno di un mese all’inizio della primavera e come tutti gli anni non so, mi prende quella smania di gettare via tutto e ricomprare. Vale per i vestiti, l’arredamento, gli utensili da cucina. Invariabilmente, passata la furia distruttrice, razionalizzo, razionalizzo, razionalizzo e alla fine finisco per non rinnovare mai né guardaroba né suppellettili in casa, con profondo senso di insoddisfazione per non essere riuscita per l’ennesima volta a cambiare niente nella mia vita.

Succede anche a voi?

Ecco perché, quando dallo scaffale della libreria dell’usato Marie Kondo mi ha strizzato l’occhio, non ho potuto fare a meno di portarmi Il magico potere del riordino a casa. Sperando che almeno lui la magia riuscisse a compierla, visto che io da sola non sono capace.

Come già vi ho spiegato con il metodo francese per non ingrassare, penso sia inutile leggere manuali senza mettere in pratica quello che suggeriscono, per cui anche stavolta mi sono messa all’opera e ho provato. Ora vi spiego prima come funziona il metodo e poi vi racconto com’è andata.

Le regole di Marie Kondo

Le regole sono semplici e ripetute più volte, sicuramente per fare in modo che a fine libro ti siano entrate in testa per bene.

Innanzitutto, bando ai procrastinatori. Il metodo si deve mettere in pratica in massimo tre giornate piene, senza tralasciare niente. Non vi azzardate anche solo a pensare che possiate riordinare un po’ per volta, magari una stanza alla volta.

Nein.

Tutta casa va ribaltata in un nanosecondo, andando per categorie e non per stanza. Questo perché lo stesso oggetto è riposto in più ambienti ed è inutile riordinare la libreria, faccio un esempio a caso, se i libri sono sparsi ovunque dentro casa.

Quindi, se scegli di partire dai vestiti, devi buttare tutto per terra e poi dividere quelli che vuoi tenere da quelli che preferisci buttare. Sulla base di quale criterio? L’utilità potenziale? Il “pezzo” base? La gonna che ora non ti rientra però se ti metti a dieta chissà…?

Niet.

Sulla base delle emozioni che suscitano. Quello che devi chiederti è solo: questo capo mi rende felice? Se la risposta è sì, bene, tenere. Se la risposta è no, infila nel sacco nero delle dismissioni. E se ho sbagliato e quella camicetta che ho buttato invece mi serviva proprio? Pazienza, la ricomprerai, più bella dell’altra magari.

Soprattutto la cosa fondamentale è trovare un posto per ogni oggetto, per riuscire a riporlo con facilità quando andrai a riordinare casa nel quotidiano. Memorizzando in quale punto dell’appartamento si trova un determinato prodotto, sarà anche più semplice trovarlo all’occorrenza.

E gli oggetti cui sono affettivamente legata? Le foto? I regali? Quelli posso tenerli, vero?

Ni.

Dipende. In ogni caso, Marie Kondo suggerisce di lasciarli per ultimi, proprio perché richiedono più forza di volontà per lasciarli andare.

Non vi tedierò oltre con gli altri punti del manuale, troverete mille video su youtube su come impilare vestiti, piegare magliette, riporre borse, non strapazzare collant e chi più ne ha più ne metta.

La vera domanda è un’altra e io cercherò di rispondere.

In sostanza, il metodo di Marie Kondo funziona davvero?

Sì. Funziona davvero, a patto che il cervello senta già una spinta al cambiamento. Proprio come una dieta ha più speranze di riuscire se uno sente la necessità di modificare le proprie cattive abitudini e mitigare l’auto indulgenza che ci spingerebbe ad agire giorno dopo giorno sempre con gli stessi schemi.

Yes. Funziona davvero, se sei disponibile ad accogliere il concetto di felicità applicato alla casa e agli oggetti che possiedi. Cos’è la casa, se non il nostro rifugio? Perché, allora, non consentirle di respirare e di vivere in armonia con noi? E’ un punto di vista orientale che noi occidentali fatichiamo a comprendere.

Eppure è così sempliceosservare con attenzione un oggetto e chiedersi: mi rende felice? Credetemi, sono sorpresa anch’io di quanti No abbia pronunciato silenziosamente.

Anche sui libri

Eppure non avrei mai creduto che potesse succedere. Quante volte ho sentito ripetere dalla comunità dei lettori “non mi separerei mai dai libri”? Adesso finalmente penso di aver capito. Perché non mi separerei mai? Non c’è un perché, facile. Una volta che il romanzo ha esaurito la sua funzione, cioè farmi stare bene per il tempo di lettura, è giusto che passi a qualcun altro, che possa stare bene come me, o forse meglio di me. Che senso ha conservare tutti i libri, anche quelli che so già non leggerò mai più? Nessuno. Per fortuna, c’è il mio amato blog a ricordarmi cosa ne pensavo quando l’ho chiuso. Ovviamente non sto parlando delle centinaia di libri da cui non mi staccherei mai, neanche sotto tortura. Parlo di quelli che non mi comunicano più niente, che non mi rendono felice solo a guardarli, che non mi provocano la tentazione di sfogliarli per rileggere qualche passaggio.

Altro capitolo importante, gli oggetti regalati

Sono una di quelle persone che si sente in colpa se non espone e non conserva i regali. Sbagliato, dice Konmeri. Il regalo ti rende felice? Ti è utile? Se la risposta è Sì, conservalo. Se la risposta è No, non sei un’orrenda persona. E’ solo che ha esaurito la sua funzione nel gesto stesso di essere regalato. E io ho adempiuto al mio dovere ringraziando con affetto la persona che ha perso tempo scegliendo un regalo per me. Stop. Non potete immaginare quanto sia catartico questo pensiero.

Secondo l’autrice giapponese, dopo aver fatto spazio in casa e aver ridato ossigeno agli ambienti, anche chi ci abita si sentirà diverso: più ottimista, fiducioso, pronto a fare spazio al futuro e a quello che la vita gli riserverà. Perché secondo la sua visione del mondo, l’accumulo non è altro che il desiderio inconscio di trattenere il passato e quello che eravamo e ormai non siamo più.

Ora, non so dirvi se sia proprio così, nel mio caso gioca un ruolo importante anche una certa dose di pigrizia nel fare ordine, però è indubbio che dopo diversi giorni di caos in cui mi è sembrato di impazzire, adesso far vagare lo sguardo in giro e sentire dentro e fuori una sensazione di libertà e pulizia fa bene agli occhi e al cuore. Anche se non ho ancora sciolto il nodo fondamentale.

Che fine fanno gli oggetti scartati?

Già. L’aspetto che proprio non mi piace del suo manuale è questo invito continuo a buttare, buttare, buttare. Marie, nelle scuole giapponesi non insegnano l’arte del riciclo e del riuso? Per un’ambientalista anche il solo pensiero di non recuperare è assurdo, tanto più che tu vieti assolutamente di affibbiare a parenti e amici gli oggetti scartati! Che fare, allora?

Il magico potere del riordino e del riuso

Propongo di trasformare Il magico potere del riordino di Marie Kondo ne Il magico potere del riordino e del riuso. Che non è così semplice come possa sembrare, perché indirizzare verso il canale giusto le cose scartate rischia di trasformarsi in un lavoro duro quasi quanto la selezione iniziale. Eppure sono convinta che far entrare nel vocabolario di uso comune parole come baratto, beneficenza, dono, scambio, rivendita, significhi davvero liberarsi del superfluo e abbracciare il futuro. Non solo il nostro, pensare un po’ anche agli altri farà respirare noi e la nostra casa a pieni polmoni.

E voi? L’avete letto? Siete riusciti ad applicare il suo metodo? Raccontatemi nei commenti com’è andata 🙂

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La mia voce arriva dalle stelle – Hugo Horiot

“A scuola dicono che sono lento di cervello. Non sanno come vanno veloci le immagini nella mia testa. Dentro di me, perché è vietato rispondere davvero ai professori, dico che io sono un aquilone, cosa aspettano a lasciarmi andare? Cerco di trascorrere il maggior tempo possibile dentro la mia testa, e questo agli altri non piace. Io sogno da addormentato e sogno da sveglio. Sono un sognatore, dicono. E il mondo non ama i sognatori.”

Trama

Sin da piccolo, Julien Hugo sa di avere qualcosa di strano. Pensa troppo, grida troppo, non cammina. Gli piacciono le ruote e tutto ciò che gira, perché il movimento circolare lo fa sentire bene. Gli piacciono i rumori che salgono dalle tubature, perché lo mettono in contatto con il cuore della Terra. Non ama il mondo esterno, infatti non parla con nessuno. È un sognatore, che trova nei sogni la libertà. È autistico, affetto da una forma grave della sindrome di Asperger. Poi un giorno, Hugo decide di farla finita con Julien, il suo vero nemico, che non gli permette di essere libero. Hugo diventa imperatore di se stesso e si guida fuori dall’isolamento. E oggi racconta cosa vuol dire dominare l’autismo.

Difficile dare una definizione

Difficile dare una definizione di questo libro, che mi aspettavo completamente diverso. Credevo desse una prospettiva “visto dall’altra parte” dell’autismo e in un certo senso è così. Solo che per il 90% il libro appare come l’auto celebrazione di un esaltato, per la serie “mi comporto così, perché voi non capite nulla”.
Sospetto che l’autore abbia sofferto di una forma lieve di autismo e che essere nato in una famiglia benestante abbia agevolato non poco la risoluzione della problematica. Ovviamente non conosco la sua storia, quindi posso solo basarmi sulle sensazioni scaturite da un romanzo che non mi ha convinto.

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Il mistero del London Eye

Brema, L’ultima bracciata – Francesco Zarzana

Un documentario su RaiStoria mi ha fatto riprendere in mano questo libro sulla tragedia di Brema.  Libro che ogni tanto riapro per guardare le loro foto. E piangere.

Brema 28/01/1966. L’Italia sta cantando le canzoni del Festival di Sanremo, quando arriva una notizia spaventosa. E’ caduto un aereo della Lufthansa a Brema. Brema? I nostri nuotatori stavano andando lì, insieme all’allenatore e a un cronista Rai. Non è il loro aereo, vero?

Nessun sopravvissuto

Un’intera generazione di giovani atleti spazzata via in un attimo.

Francesco Zarzana ne L’ultima bracciata ripercorre quei terribili momenti, ci racconta chi erano quei ragazzi, quali sogni avevano, cosa avevano già vinto e quali traguardi avrebbero potuto raggiungere se all’ultimo minuto la Federazione non avesse deciso di prendere l’aereo per farli arrivare riposati alla gara internazionale che si sarebbe tenuta a in Germania, a Brema appunto, una tappa importante della stagione.

Amedeo, Bruno, Carmen, Chiaffredo, Daniela, Luciana, Sergio, hanno i volti sorridenti e gli occhi luminosi della loro età. Li vedremo sempre così, in eterno, perché non hanno potuto diventare vecchi e guardare in tv gli atleti arrivati dopo di loro. E Nico, Paolo, il giornalista e l’allenatore che li accompagnava, gente che credeva nel nuoto e che li aveva visti crescere e diventare forti, fortissimi, tanto da poter competere coi grandi a livello europeo.

Atleti veri

Un libro e una vicenda che assumono per me un significato particolare. Noi giovani nuotatori siamo tutti cresciuti nel loro ricordo e ho avuto la fortuna di conoscere personalmente la mamma di uno di loro, Bruno Bianchi. Un’anziana signora, o almeno a me così sembrava all’epoca, che partecipava alle nostre gare di bambini e che ci incitava a fare del nostro meglio. Perché il nuoto, e lo sport in generale, è proprio questo: una disciplina che insegna a sacrificarsi, a lottare ad armi pari, facendo del proprio meglio per mettere la mano davanti, e a stringere la mano di quello che l’ha messa davanti in caso di sconfitta. Come aveva fatto il figlio Bruno, che lavorava come operaio alla Fiat e che oltre agli allenamenti trovava anche il tempo per frequentare l’università. Uno scenario un po’ di diverso da quello delle stelle dello spettacolo che vediamo oggi in tv, no?

Una lettura triste, commovente e intensa allo stesso tempo, da affrontare col fazzoletto in mano. Il sottotitolo recita: “Brema, 1966: la tragedia dimenticata della Nazionale di nuoto”.

Io cambierei il sottotitolo in “La tragedia Indimenticata (e indimenticabile)“.

***

Dal libro “L’ultima bracciata”

Dino Buzzati “I puri”

“…quando a Superga si fracassò l’aereo che portava la squadra del Torino, l’impressione fu enorme. Erano i più forti calciatori d’Italia.
Questi qui di Brema fanno più pena e più pietà.
De Gregorio, Bianchi, Rora, Chimisso, la Massenzi, la Longo e la Samuele non erano famosi, anche se erano i più bravi. Chi in Italia si interessa di nuoto? Abbiamo il mare da tutte le parti, ma semplicemente tenersi a galla è una specie di rarità. Non erano famosi e neanche ricchi. Anche se avessero vinto tutte le gare non avrebbero guadagnato un soldo. Erano i puri, gli asceti dello sport, i candidi e generosi, con la faccia ancora da bambini. Niente divertimenti e baldorie come tutti gli altri ragazzi. Ma disciplina, dieta, esercizi, fatica. Con in fondo il miraggio di una gloria minuscola che sarebbe durata ventiquattrore nella migliore delle ipotesi…”

Francesco Zarzana – L’ultima bracciata

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Il nuoto per master e amatori, di Fabio Bettazzoni

Noi, i ragazzi dello Zoo di Berlino – Christiane F.

Il libro autobiografico intitolato Wir Kinder vom Bahnhof Zoo (titolo italiano Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino) descrive la discesa all’inferno di Christiane F., dal trasloco a sei anni dalla campagna di Amburgo al quartiere-dormitorio berlinese di Gropiusstadt, l’infanzia difficile, la tossicodipendenza e la prostituzione iniziate fin dalla preadolescenza. Questo drammatico saggio-denuncia destò molto scalpore in tutto il mondo e fu tradotto in diverse lingue, diventando un controverso simbolo per la generazione che più di tutte subì le conseguenze dell’abuso di stupefacenti. Al libro è seguito nel 1981 il film.

Ritratto impietoso

Ne esce un ritratto della società berlinese degli anni ’70 impietoso. Famiglie assenti, o talmente deboli da risultare impotenti, scuola indifferente, polizia tollerante ma esclusivamente punitiva nei confronti di ragazzini forse ancora recuperabili, centri giovanili religiosi inconsapevolmente (?) ricettacolo di pusher, medici e psicologi che curano i sintomi, ma non le cause. In mezzo, Christiane in cerca di un’identità che erroneamente trova nell’uniformarsi a un gruppo, per sembrare “paracula”, “tosta”, “giusta”. Senza chiedersi perché, senza domandarsi per chi, senza trovare la forza di chiedere aiuto. O, piuttosto, cercandolo nella madre, che non capisce, non vuole vedere, non riconosce nel suo angelo quel demonio che la spinge sempre più in basso, fino a una morte certa. Quella morte che coglie senza sorpresa Axel, Stella, Babsi, e tanti ragazzi senza volto come loro, che una mattina diventano un trafiletto del giornale. Quella morte in solitudine che li aspetta alla fermata della stazione del giardino zoologico, la Banhof zoo.

Soli

Soli, come i tossicodipendenti non possono che essere, perché i loro rapporti sociali si basano esclusivamente sull’egoismo e la necessità di rimediare la dose quotidiana. Stop. Non c’è spazio per altro. Forse è proprio questo l’aspetto più sconvolgente del saggio di Christiane F., i giorni che si susseguono uguali, uno dopo l’altro, in un meccanismo che sembra poter essere interrotto solo dal viaggio finale, nella sua attesa. Quando, per salvarla, la madre la mette su un aereo, lei prova orrore nei confronti dei parenti che si divertono al centro commerciale, tutti uguali, tutti senza valori veri. Christiane rifiuta l’omologazione, eppure vuole omologarsi a centinaia di altri tossici senza nome. E’ in questo eterno conflitto con se stessa che vedo il nodo del libro. Christiane non si accetta, non ha abbastanza personalità per farlo, e trasforma la sua debolezza in un’arma. “Guardatemi, sono un’adolescente perduta. Sono il risultato vivente dei vostri errori”.

Da leggere

Terribile, sconvolgente, eppure da leggere, assolutamente. L’avevo già affrontato da adolescente e mi aveva scosso profondamente. L’ho riletto oggi, da adulta, e finalmente vedo Christiane F., e gli altri personaggi, per quello che realmente sono, niente di più. Non è un caso, forse, che oggi l’unico a essersi veramente tirato fuori dai guai è il dolce Detlef. Christiane Vera Felscherinow, invece, è rimasta fedele a se stessa, dalla Banhof zoo, in fondo, non è mai veramente uscita. Ma di questo parlerò nella recensione al libro che ha pubblicato due anni fa, “La mia seconda vita”.

Noi ci immaginiamo di comprarci la cava di calce quando non verrà più sfruttata. E lì sotto ci vogliamo costruire delle case di legno con un enorme giardino pieno di animali e con tutto quello di cui uno ha bisogno per vivere. L’unica strada che c’è per arrivare alla cava la vogliamo chiudere. Non avremmo comunque più alcuna voglia di ritornare su.”

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Segnalo questo interessante documentario di quasi un’ora sulla storia di Christiane F., con interviste, spezzoni dell’epoca e molti temi su cui riflettere.

Ich bin Berliner: il mio viaggio a Berlino