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Alba Donati e la sua La libreria sopra la collina

Nel dicembre 2019, Alba Donati realizza di essere stanca di Firenze e decide di cambiare vita. Come? Aprendo una libreria a Lucignana, poche case sull’Appennino lucchese. Una libreria per poche case sparse quando i franchising e le multinazionali stanno chiudendo? Esatto. Come ha fatto? Venite che vi racconto.

Trama

Una libreria microscopica in un paesino sperduto sulle colline toscane, ma portentosa come una scatola del tesoro. Dai bambini che entrano di corsa alle marmellate letterarie, da Emily Dickinson a Pia Pera, le giornate nella Libreria Sopra la Penna sono ricche di calore, di vite e storie, fili di parole che legano per sempre: una stanza piena di libri è l’infinito a portata di mano. Non è mai troppo tardi per realizzare un sogno.

Perché hai aperto una libreria in un paesino sconosciuto?

E’ una domanda che si sente ripetere spesso. E questa è la risposta che dà di solito. “Perché avevo bisogno di respirare, perché ero una bambina infelice, perché ero una bambina curiosa, per amore di mio padre, perché il mondo va a scatafascio, perché il lettore non va tradito, perché bisogna educare i più piccoli, perché a quattordici anni piangevo da sola davanti alla tv la morte di Pier Paolo Pasolini, perché ho avuto maestre e professoresse straordinarie, perché mi sono salvata”. E poi perché crede al lato bello della vita, ai sentimenti di amicizia e amore, alla possibilità di ricreare una vita lenta dal sapore passato in un mondo che va sempre più veloce, ma per andare dove? “Come mi è venuto in mente? Le cose non vengono in mente, le cose covano, lievitano, ingombrano la nostra fantasia mentre dormiamo. Le cose hanno gambe proprie, fanno un cammino parallelo in una zona di noi che noin non sappiamo nemmeno lontanamente dove sia e a un certo punto bussano: eccoci, siamo le tue idee pronte per essere ascoltate”.

Come si realizza un sogno?

E qui passiamo al lato meno romantico di questa iniziativa imprenditoriale. Come si apre una libreria? Alba Donati dice che ci vogliono soldi per partire, un locale adatto (nel suo caso ereditato dalla zia). E tante idee, sopratuttto. La libreria ha successo perché agisce in controtendenza. O forse in tendenza, perché sono tante le persone stanche di entrare in negozi dove nessuno ti guarda in faccia e stanno lì a controllare se uscirai con una refurtiva. Il potenziale cliente, per loro, è piuttosto un potenziale ladro. A chi di noi non è capitato di sentirsi osservato più del dovuto mentre pensa ai fatti suoi e decide se comprare merce di scarsa qualità o meno? Alba Donati, invece, si inventa un cottage letterario immerso nel verde, che la gente organizza gite per poter andare a vedere. Tutto bello? Ma no, quando mai.

Il diario della libreria sulla collina

Un mese dopo l’apertura, un incendio distrugge la libreria. Parte un crowfunding solidale che la rimette in piedi. Poi, parte il lockdown e sono guai, il pellegrinaggio rallenta. In questo diario, Alba Donati raccoglie sei mesi di vita della libreria. Svolazzando come una farfalla, senza affrontare nessun argomento nel profondo, la poetessa racconta di sé, della famiglia, della vita di paese, di quello che i clienti della libreria si aspettano di poter ricevere dal libro che hanno scelto. Un momento di break nella frenesia quotodiana, per la maggior parte. E sentirsi parte di una comunità, di un gruppo, quello dei lettori a ogni costo. Alba Donati ci racconta la sua vita di libraia felice e finalmente risolta, che ha trovato la sua casa dove in fondo era sempre stata. Nasconde, probabilmente, la gran parte della fatica che c’è dietro. E anche che tutto questo è possibile perché altre attività sostengono economicamente questa. Nasconde anche, probabilmente, le difficoltà che la vita in un paesino così minuscono comporta. Accenna a un 30% di persone contrarie alla libreria, ma non dice perché. Probabilmente perché attira attenzione non gradita.

La felicità è dove vogliamo che sia

A volte, leggendo, mi sono persa dietro ai nomi e a fatti piccoli, che assumono rilevanza in un microcosmo. A più riprese ho pensato che così non potrei vivere, che il mondo è troppo vasto per rinchiudersi, che gli svantaggi superano di gran lunga i vantaggi. O forse no? Quello che mi ha lasciato questo breve racconto di vita, a parte qualche titolo interessante da appuntare, è che la felicità è dove vogliamo che sia. E Alba Donati l’ha trovata qui, in questo microcosmo chiamato Lucignana,  fra le Alpi Apuane e l’Appennino toscano. 

E voi? Dove volete che sia la vostra felicità? Cìè un posto dove vorreste ricominciare da capo con un sogno da realizzare? Scrivetemi nei commenti! 

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Siete mai stati da Strand? Si trova a New York ed è una delle librerie più famose del mondo. A parte i tre piani di libri all’interno, c’è davvero da perdersi negli scaffali dell’usato all’esterno. Mentre curiosavo persa tra migliaia di titoli e di possibilità, mi capita tra le mani un libricino verde e apparentemente innocuo: Anne of Green Gables, di L. M. Montgomery. Il primo romanzo della serie Anna di Tetti Verdi, o Anna dei verdi abbaini, o più comunemente Anna dai capelli rossi è nelle mie mani, al fantascientifico prezzo di 0,48 centesimi di dollaro, circa 40 centesimi di euro. L’ho appena finito e dovete sapere perché non è innocuo come sembrava…

 

Il diario di Marco Goldin e Gli ultimi giorni di Van Gogh

Il diario di Marco Goldin sugli ultimi giorni di Van Gogh mi è capitato sottomano in biblioteca qualche giorno prima che andassi a visitare la mostra di Roma di cui vi ho già parlato. Ancora fresche le sensazioni dell’esposizione, mi sono letta con calma questo diario inventato su uno dei miei pittori preferiti. Ora vi dico cosa ne penso.

Trama

Come in un vero e proprio «diario ritrovato» Vincent van Gogh ci racconta, giorno per giorno, le ultime settimane della sua vita trascorse nel villaggio di Auvers-sur-Oise, a nord di Parigi. Un’autobiografia ideale e poetica, fatta anche di tanti ricordi, in cui Marco Goldin presta le sue parole al grande pittore olandese, con un passo narrativo coinvolgente e sempre fedele alle fonti storiche e all’epistolario. La scena si apre il 15 maggio 1890, quando Van Gogh lascia ancora fresco sul cavalletto l’ultimo quadro a Saint-Rémy, in Provenza, prima di andare a Parigi dal fratello Theo. E prima di prendere il suo ultimo treno per Auvers. Da lì in avanti il racconto si snoda avvincente, tra le strade strette di quel villaggio, la casa del dottor Gachet, le distese di erba medica su cui galleggia il rosso dei papaveri, il fiume che scorre lento, la chiesa con un cielo smaltato di azzurro come una vetrata gotica. E infine i campi di grano come un appuntamento con il destino.

L’originale è emozione allo stato puro

Il grande pregio di questo libro è che si legge in un attimo, la scrittura è fluida e le vicende narrate sono di grande interesse per tutti gli amanti di Van Gogh. Tuttavia, lo consiglio quasi esclusivamente a chi vuole farsi un’idea del pittore e leggere una storia semplice come l’azzurro in copertina. Per gli appassionati del grande artista olandese, invece, potrebbe essere quasi deludente. Non tanto per i contenuti, Marco Goldin è uno dei massimi esperti sul tema, ma per il paragone inevitabile con gli scritti lasciati da Vincent Van Gogh. Le parole originali sono così intense, profonde e commoventi, che immedesimarsi in questa “imitazione” risulta troppo complicato. Questo è quello che è successo a me. A un certo punto, la lettura ha finito per essere interessante quando ha toccato particolari di cui non ero a conoscenza, ma mi è sembrata blanda dal punto di vista emozionale. D’altra parte, Vincent Van Gogh è emozione allo stato puro, difficile anche solo accostarsi all’originale.

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A proposito di originale. Fate ancora in tempo, prenotatevi. Van Gogh in mostra a Roma: io sono ancora qui

Casa Keats-Shelley e i giorni oziosi di Roma

Laura Dean continua a lasciarmi, di Mariko Tamaki e Rosemary Valero-O’Connell

Mariko Tamaki ci fa immergere in un mondo adolescenziale dove i personaggi sono sicuri della propria sessualità e delle loro preferenze. Peccato, ahimè, che ci sia una cosa che non cambia mai, da adolescenti come da adulti. La necessità di sentirsi amati, anche da chi purtroppo non ricambia. Insistere o lasciar perdere? E’ quello che Freddy tenta di capire in questo fumetto. Ora vi racconto cosa ne penso.

Trama 

«Come faccio a rompere con qualcuno che ha già rotto con me?». Freddy ha 17 anni, frequenta il liceo a Berkeley, lavora part-time in una caffetteria ed è perdutamente innamorata della sua ragazza, Laura Dean. Ma è la terza volta consecutiva in un anno che viene mollata da lei e ha davvero bisogno di prendere una decisione definitiva: deve troncare questa relazione. Per riuscirci, affida le sue confidenze a una rubrica sentimentale. Riuscirà nel suo intento?

Ragazzi risolti

 Vi dico subito cosa mi è piaciuto di questo nuovo lavoro di Mariko Tamaki. Il fatto che questi ragazzi siano consapevoli della propria identità e la vivano tranquillamente alla luce del sole. Tranne uno screzio appena accennato, tutti sanno tutto, i genitori in primis. Mi sembra un bel passo avanti rispetto alle solite storie di disagio, menzogne e discriminazioni. Il secondo aspetto che ha reso valevole la lettura è la capacità delle illustrazioni di seguire la storia narrata, sottolineando i momenti topici con il colore rosa e richiamando nei tratti il periodo selvaggio in cui tutti stiamo più o meno vivendo. E i sentimenti assoluti, che nel periodo dell’adolescenza dominano, a qualsiasi latitudine e in qualsiasi periodo storico.

E però

Premetto che è il primo lavoro di Mariko Tamaki che leggo e che la copertina mi aveva ingannato, pensavo che Laura Dean fosse la ragazza che ci guarda (volutamente ingannevole? Mi tengo il dubbio). Quello che proprio non mi convince, in ogni caso, è la storia in sé. Di queste due ragazze, e dei loro amici, alla fine sappiamo poco, ma proprio poco. Temo che anche questo corrisponda ai tempi veloci in cui siamo immersi. Cosa sappiamo del loro rapporto? Solo quelle due cose che Freddy ci racconta. E in tutti i commenti e note pubblicitarie che ho letto online, si parla di “amore tossico”. Ma è veramente così? Laura Dean è veramente la persona frivola,  carismatica e volubile di cui Freddy ci parla? Eppure, i genitori di Freddy l’accolgono con favore in casa. Non si sono accorti dei tormenti della figlia? Che ci sia questo tira e molla che va avanti da un po’? Non sarà proprio Freddy a volere qualcosa che non era nei patti iniziali? A volte, l'”amore tossico” dipende da entrambi gli interessati, non solo dal partner. E’ solo che non è quello giusto, se non c’è abuso.

C’è abuso?

Qui c’è abuso? A tratti sembrerebbe di sì, ma ci sono pochi elementi per capire. Penso che sia dovuto anche al target di lettura, un teenager forse potrebbe trovarlo interessante, un adulto vede un qualcosa di già visto e poco approfondito. Il faro puntato su Doodle mi lascia anche più perplessa: troppi elementi sensazionali e poca veridicità. Un padre potrebbe mai comportarsi in quel modo? Spero proprio di no.

E vorrei chiudere con una frase di George Michael, dedicata all’adolescente che è in noi. E all’adolescente che dovesse trovarsi per caso a navigare in queste pagine: sii buono con te stesso, perché nessun altro ha il potere di renderti felice. Ricordiamocelo, sempre.

Voi che mi dite? Laura Dean continua a lasciarmi vi è piaciuto?

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Le malerbe di Keum Suk Gendry-Kim

Jessica Au, Tempo di neve e quel rapporto madre-figlia

Jessica Au fa il suo esordio nella narrativa con questa novella, Tempo di neve, il racconto di quel filo sottile che unisce madri e figlie. O meglio, di quei nodi che lo piegano e sfilacciano. Il risultato è una serena riflessione su ciò che siamo, su chi ci ha fatto diventare ciò che siamo e su chi saremmo potuti essere, se solo non fossimo il prodotto delle nostre esperienze e dell’ambiente in cui siamo cresciuti. Vi ho detto diverse volte che i libri spesso ti vengono a cercare. Ecco: questo è decisamente un libro che mi è venuto a cercare. Di cui avevo bisogno in questo momento, in un certo senso.

Trama 

Una figlia e sua madre, che vivono da tempo lontane, si danno appuntamento nella capitale giapponese. Non è un viaggio come gli altri: questo ha l’aspetto di un addio. Così come la giovane regola il diaframma della sua Nikon per fissare l’immagine dell’anziana donna per sempre, allo stesso modo è costretta a scegliere quali dettagli del loro rapporto mettere a fuoco e quali invece lasciar galleggiare in superficie e poi disperdere, come sull’acqua increspata dei canali della città. Le due condividono ciotole di noodles fumanti in minuscoli ristoranti, visitano mostre e fanno del loro meglio per evitare che la pioggia di ottobre rovini i loro programmi. Ma rifugiarsi nei ricordi non è sufficiente quando ci si trova in un corpo a corpo privato di ogni traccia di intimità e possibilità di avvicinamento. Qual è allora il significato di questo errare fianco a fianco?

Il viaggio comincia

Era mattina presto e la strada era piena di gente, la maggior parte lasciava la stazione anziché entrarci, come facevamo noi. Per tutto il tempo mia madre restò al mio fianco, quasi temesse che se ci fossimo separate il flusso della folla, come una corrente, ci avrebbe impedito di tornare l’una dall’altra, mandandoci sempre più alla deriva e allontanandoci ancora e ancora. 

E’ la narratrice, la figlia, a raccontarci perché madre e figlia prendono due voli diversi per ritrovarsi in Giappone. All’inizio dell’anno le avevo chiesto di venire con me in Giappone. Ormai non vivevamo più nella stessa città, e non eravamo mai state via insieme da quando ero adulta, ma iniziavo a rendermi conto che era una cosa importante, per ragioni a cui non ero ancora in grado di dare un nome. Avevo scelto il Giappone perché…forse sentivo che che ci avrebbe messo in una situazione di parità, che saremmo state entrambe straniere. 

Per ragioni a cui non si sa dare un nome

Essere figli non è facile. O meglio, non è sempre facile. C’è un passato con cui fare i conti, un passato che non è il tuo, ma che è presente anche quando non vorresti. Jessica Au spiega in questo passaggio quali sono le ragioni cui non sa dare nome. Una volta io e Laurie (il compagno) avevamo scherzato sulla mia frugalità, sul fatto che finivo sempre gli avanzi di ogni pasto, anche se non avevo più fame, perché non potevo sopportare di vedere il cibo andare sprecato. All’epoca avevo scherzato anch’io, ma non avevo replicato che era la frugalità di mia madre che imitavo, non la mia.

Tempo di neve

In questo loro pellegrinaggio per il Giappone, le due donne cercano una sintonia che probabilmente non hanno mai avuto. Figlie di epoche diverse, di tradizioni diverse, di mentalità distanti. Una donna moderna una, un’emigrata mai perfettamente integrata l’altra. Eppure, durante questo viaggio, di fronte ai quadri o davanti a un tè, senza quasi parlare, madre e figlia imparano a sintonizzarsi sull’altra. O meglio, è la figlia che forse lascia andare la figura materna. Il tutto è pervaso da un senso attutito di perdita, di ultimo incontro, di pensiero su quello che verrà dopo. Il senso attutito della neve, che è nell’aria, ma non cade. E che la madre vorrebbe tanto vedere per la prima volta, anche se sappiamo, chissà come e chissà perché, che non la vedrà mai.

Camminando nella neve

Una novella che mi ha preso, pagina dopo pagina. Che mi ha trasmesso un senso di pace, di tranquillità, come se davvero stessi camminando nella neve e, intorno, silenzio. Avrei voluto che Jessica Au continuasse. Che quella madre così silente trovasse una sua voce. Che non si sentisse troppo l’ineluttabilità della fine. Ma ho adorato il finale, anche se temo che nella traduzione italiana si sia perso il simbolismo delle scarpe (SPOILER in fondo al post). Voglio adottare il punto di vista della narratrice: Esausta e confusa, pensai che forse era giusto non capire tutto, ma limitarsi a vedere le cose e a trattenerne le impressioni. Anche perché Forse è un bene fermarsi di tanto in tanto a riflettere sulle cose che sono successe, pensare alla tristezza potrebbe anche finire per renderti felice.

***

Mentre procedevamo mi chiese del mio lavoro. All’inizio non risposi, poi le spiegai che in molti dipinti antichi si poteva scoprire quello che veniva chiamato un pentimento, uno strato precedente di qualcosa sopra cui l’artista aveva scelto di dipingere altro. Dissi che in questo senso la scrittura era molto simile alla pittura. Solo in quel modo si poteva tornare indietro e cambiare il passato, rendere le cose non com’erano, ma come avremmo voluto che fossero o, piuttosto, come le percepivamo. Aggiunsi che, per quel motivo, era meglio non si fidasse di ciò che leggeva. 

Attenzione, SPOILER: nella versione italiana, si perde il simbolismo delle scarpe. La figlia aiuta la mamma a infilarle, non ad alzarle. In Cina, infilare le scarpe significa intesa reciproca. Quello che la figlia aveva bisogno di trovare.

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Margaret Atwood e l’infelicità con l’uomo

Margaret Atwood è una delle autrici viventi più quotate e da poco è stato stampato uno dei suoi primi lavori, La vita prima dell’uomo. Io l’ho ribattezzato “L’infelicità con l’uomo”, perché la lettura di questo romanzo certo non risolleva l’animo e la fiducia nel genere umano. Adesso vi racconto.

Trama

Una coppia apparentemente moderna, libera, aperta: lei, Elizabeth, colleziona amanti senza che Nate, suo marito, ne soffra veramente; lui stesso frequenta una donna, ma questo non compromette, anzi sembra cementare, la loro unione. L’essenziale, dopotutto, è «poter contare l’uno sull’altra». Ma quando il suo ultimo amante si suicida e Nate intreccia una relazione con una giovane paleontologa, il mondo di Elizabeth sembra crollare, e la donna viene assalita da domande esistenziali alle quali non riesce a dare risposta. Nate, per parte sua, non sa scegliere tra le due donne, con l’unico risultato di rendere entrambe infelici…

Il triangolo no

Il triangolo no, non l’avevo considerato, cantava Renato Zero. Invece, Margaret Atwood lo considera e ne fa il centro di questa storia, in cui il lettore si trova a sbirciare dallo spioncino della porta la vita di una coppia sposata e degli amanti che si affaccendano intorno. In un’atmosfera apparentemente tranquilla, eppure densa di rabbia repressa, risentimento, insoddisfazione, infelicità. Un’unione apparentemente solida, che naufraga nel tran tran quotidiano e nella noia. Apparentemente i due non se ne accorgono, o fanno finta di non rendersene conto. Forse, aspirano a rimanere quello che diventano molte coppie col passare degli anni: dei conviventi che crescono insieme le figlie, mantenendo vite separate. Senonché, una tragedia interrompe questo binario verso il nulla.

Indifferenti e civili

Il suicidio di  Chris costringe Elizabeth, Liza, a mettersi di fronte a uno specchio, dove quello che vede non le piace. Come non è piaciuto a me, nonostante gli sforzi di Margaret Atwood di dare delle giustificazioni riferendosi al passato molto difficile della protagonista. Elizabeth non mi piace: la trovo fredda, egoista, cattiva. Ho fatto come Nate, “Ho rinunciato a interrogarmi sulle sue ragioni. Non capisco mai perché fa una certa cosa”. Più avanti il perché si capisce, certo, da anni ormai Elizabeth usava tutta la sua energia per salvare se stessa”. La stessa energia che deve usare il lettore per andare avanti nella lettura. Nate, Elizabeth e Lesje sono tristi, tristi dentro. Chi per un motivo, chi per l’altro, non prendono in mano la propria vita. Pensano che comportarsi in modo civile sia sufficiente per andare avanti. Il che rende assordante la mancanza di civiltà che invece regola i loro rapporti nel profondo. Sembra quasi una replica in salsa canadese de Gli indifferenti, mi perdoneranno il paragone ardito i fan di Margaret Atwood. I quali fan dicono che in questo lavoro il tratto è ancora un po’ acerbo. Mi fido, non ho ancora termini di paragone per poter dire la mia. E’ però un’avvertenza che mi sento di dare a chi deciderà di leggerlo: tenete presente che è una Margaret Atwood agli esordi. La mia speranza è che la sua fiducia nel genere umano sia cresciuta col tempo. Chi la conosce bene mi saprà dire. 

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