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Northanger Abbey, o l’anti eroina Jane Austen

Northanger Abbey non è uno dei romanzi più conosciuti di Jane Austen, ma per chi ha visitato Bath, o ancora meglio per chi vuole visitare Bath, è una lettura imprescindibile. Possiedo da tempo immemorabile la versione inglese però, chissà mai perché, non l‘avevo mai preso in mano. Era decisamente tempo di rimediare all’affronto nei confronti di zia Jane, vi pare?

La trama

Catherine Morland, una diciassettenne ingenua, ha come unica passione la lettura di romanzi gotici. La ragazza abita in un villaggio di campagna e viene invitata dai vicini di casa a trascorrere un periodo di vacanza nella cittadina di Bath: qui ha i primi approcci con una società fatta di apparenza e sentimentalismo, tra un ballo, una sera a teatro e una passeggiata nella via principale. Sempre qui incontra due famiglie agli antipodi: i Thorpe e i Tilney, i cattivi e i buoni. Il viaggio di Catherine all’Abbazia di Northanger, ospite dei Tilney, la porterà a fantasticare di vivere una situazione simile a quella dei suoi romanzi preferiti. Sino a immaginare un delitto mai compiuto e a ricercare nei cassetti documenti persi nel tempo, ottenendo sempre nella realtà grosse delusioni. Catherine adora Henry Tilney, ma all’improvviso il padre, il Generale Tilney, decide di far terminare anzitempo il soggiorno di Catherine. Ciò provoca una frattura con la famiglia della ragazza. Cos’è successo? Perché questa decisione scortese? Tra Catherine ed Henry, quindi, è tutto finito prima ancora di cominciare?

Siamo tutte anti eroine come Catherine

In apertura, un avvertimento mette in guardia il lettore. Northanger Abbey, pur essendo stato acquistato nel 1803 da un editore, è uscito solo nel 1818, quando l’autrice era ormai deceduta. E solo perché la famiglia ne ha riacquistato i diritti. Il perché ciò sia avvenuto, sempre secondo quanto scritto nell’avvertimento, non è dato sapere. Comunque, la postilla vuole solo avvisare che alcuni particolari potrebbero risultare obsoleti, visto che sono passati ben tredici anni dal momento in cui sono stati pensati. La nota mi ha fatto sorridere: perché è destino piuttosto comune oggigiorno che alcuni titoli pubblicati non siano poi dotati della giusta promozione e rimangano quindi a impolverare gli scaffali (in effetti, rileggendola, anche questa nota potrebbe costituire un dato storico per i posteri che dovessero in essa imbattersi, n.d.r.).

Di nuovo a Bath

Secondo, perché leggendo il romanzo dopo aver visitato Bath l’anno scorso, ed essendo questo il motivo principale se non esclusivo per cui l’ho scelto come lettura, devo dire che con una certa sorpresa mi sono ritrovata a passeggiare di nuovo per le strade della cittadina, proprio come ho fatto quando l’ho vista dal vivo! Questo déjà-vu si è materializzato proprio grazie alle minuziose descrizioni di Jane Austen, perché Bath sembrava esattamente quella che ho visto io! Il Crescent, Milsom street, Pulteney street, le passeggiate lungo il corso principale, oggi pieno di negozi. Senza contare l’atmosfera gotica, che la scrittrice usa per prendersi gioco delle mode dell’epoca, e che è ancora così visibile nell’architettura british. Insomma, un romanzo interessante non solo per la vicenda che racconta, ma anche per la rappresentazione di un modo di vivere che è come un’immersione viva nella storia. Addirittura a un certo punto accenna al profumo alla lavanda, che le donne usavano per coprire odori poco piacevoli. Bello, mi è piaciuto tornare ai bei giorni da poco trascorsi. E anche scoprire una Jane Austen molto meno formale di quanto pensassi: giocosa, ironica e pungente sugli aspetti più tradizionali della società neoclassica, che stava per virare verso l’epoca regency mostrandone già i segni.

Catherine incarna la nostra anti eroina Jane?

Ho un sospetto sul perché l’editore abbia deciso di non pubblicare subito Northanger Abbey. In effetti, il generale Tilney incarna perfettamente la figura di un nobile dell’epoca: falsamente complimentoso, avido e ipocrita. Può darsi che il povero editore si sia riconosciuto in questi tratti spietati, chissà. Certo è che la storia in sé, pur scorrendo leggera senza grandi colpi di scena, è molto ben scritta da una giovane ragazza di campagna, poco più che ventenne, già fortemente consapevole di una condizione femminile che obbligava le donne a cercare un buon partito e a studiare tutte le “arti” che facessero di lei una buona moglie. Guai se, come la nostra povera Catherine, una bambina nasceva con grande fantasia ma senza essere portata per nessuna di queste e senza un patrimonio adeguato! Era destinata certamente a diventare, nella migliore della ipotesi, un’anti eroina. Ed è proprio per questo che ancora oggi la troviamo così simpatica e tifiamo per lei, o no? Perché, in fondo in fondo, siamo tutte anti eroine come lei. Così come accadeva allora, quando Catherine, in fondo in fondo, incarnava proprio la nostra anti eroina Jane.

Che ne pensate di questa lettura? Siete d’accordo con me sul fatto che dietro Catherine si nasconda Jane? Soprattutto, a voi Northanger Abbey è piaciuta?

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Olive Kitteridge – Elizabeth Strout

Un romanzo per racconti, che ha fatto vincere a Elizabeth Strout il Premio Pulitzer 2009. L’ho trovato in un bar di Courmayeur che partecipa al bookcrossing e l’ho portato a casa. Prima di rilasciarlo, donandolo ad altri lettori che vogliano adottarlo per un po’, vi racconto com’è stato entrare nel mondo melanconico di Elizabeth Strout e della cinica e fragile Olive Kitteridge. Leggete il commento fino in fondo, capirete come mai ci sono due fette sovrapposte di formaggio con i buchi nella foto.

La trama

A Crosby, nel Maine, un piccolo villaggio affacciato sull’Oceano Atlantico c’è una donna che regge i fili delle storie, e delle vite, di tutti i suoi concittadini. Si chiama Olive Kitteridge, ed è un’insegnante in pensione che, con implacabile intelligenza critica, osserva i segni del tempo moltiplicarsi intorno a lei, tanto che poco o nulla le sfugge dell’animo di chi le sta accanto: il figlio Christopher, il marito Henry, i suoi vecchi alunni, i vicini di casa. Con disarmante onestà, in questo microcosmo si susseguono, incontrandosi e più spesso scontrandosi, vicende e situazioni che fanno parte della condizione umana.

Quel che conta è andare avanti, sopportando la fatica di vivere

Parto da una premessa: leggetelo in un momento della vita tranquillo e sereno. Perché malinconia e tristezza vi verranno a bussare alla porta mentre leggete e non vi abbandoneranno fino alla fine. L’argomento principale del libro, infatti, è l’autunno, se non l’inverno della vita. Una provincia americana sonnolenta, gretta e sostanzialmente sconfitta fa da sfondo alle vicende degli abitanti di Crosby, protagonisti di tredici racconti dove solo Olive è sempre presente, o come protagonista, o come comparsa, oppure come figura evocata da un altro personaggio. Olive è l’emblema della società americana: cinica, obesa, estremamente razionale e pratica. Non siamo certo di fronte alla fidanzatina d’America che ci propongono i film: è anziana, non ha peli sulla lingua e fa paura. Fa paura ai suoi alunni, che pure la ricorderanno come un’ottima insegnante, fa paura al figlio, che tra la sua famiglia e la madre metterà km e km di distanza, fa paura al vicinato, che teme il suo giudizio. Sembra forte Olive, e invece è fragile. Non permette a nessuno di scalfire la sua corazza, perché è abituata a tenere il timone e a tenerlo stretto. Ha avuto un’infanzia difficile, aspetto che spiega in parte il suo approccio duro alla vita, e accanto per una vita un uomo docile e benpensante.

E’ una donna sola, Olive, capace di crollare per il gesto gentile di un dentista

Non abbiate paura della vostra fame. Se ne avrete paura, sarete soltanto degli schiocchi qualsiasi”. E’ il monito della professoressa Kitteridge che i suoi alunni ricordano in età adulta. “Sto morendo di fame, la fame è ciò che ci accomuna”, ribadisce ormai in pensione a una ragazza sconosciuta, che di fame sta morendo davvero. Forse è proprio questa la cifra del romanzo di Elizabeth Strout: la fame, ottenere qualcosa di più e di meglio, per non sprecare la vita. E’ una fame che accomuna tutte le donne dei racconti. Specularmente, l’assenza di fame accomuna tutti gli uomini dei racconti. Uomini e donne, due universi divisi in due e praticamente inconciliabili. Due mondi che hanno voglie, paure e desideri opposti, per Elizabeth Strout. Gli uomini cercano tranquillità, routine, famiglia. Le donne cercano…cosa? Non si sa, hanno fame ma non sanno di cosa, hanno compagni che non amano, sbagliano con i figli che crescono come egoisti senza speranza. Finché, alla fin fine, non capiscono la vera essenza della vita: passano gli anni, passano le stagioni, quello che possiamo fare è andare avanti, giorno dopo giorno, sopportando la fatica di vivere e di relazionarci con gli altri, facendo i conti e accettando se possibile i nostri difetti, fino alla fine della nostra esistenza sulla terra. Sperando che qualcuno come noi, o anche uno completamente diverso da noi, che in altre circostante non ci avrebbe neanche guardato, appaia sul nostro cammino per camminare insieme come due fette di formaggio svizzero premute insieme, i buchi che ciascuno dei due aveva da dare a quell’unione, i pezzi che la vita ti levava di dosso. E la fame, finalmente placata.

p.s. il quadrotto in foto è una versione con farina di mais  delle piadine che si credevano cotolette. Basta aumentare leggermente la quantità di farina e tagliarle a fette spesse.

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Il magico potere del riordino – Marie Kondo

Mi capita tra le mani il manuale di Marie Kondo, Il magico potere del riordino. So che là fuori c’è la neve e ancora si congela, ma manca meno di un mese all’inizio della primavera e come tutti gli anni non so, mi prende quella smania di gettare via tutto e ricomprare. Vale per i vestiti, l’arredamento, gli utensili da cucina. Invariabilmente, passata la furia distruttrice, razionalizzo, razionalizzo, razionalizzo e alla fine finisco per non rinnovare mai né guardaroba né suppellettili in casa, con profondo senso di insoddisfazione per non essere riuscita per l’ennesima volta a cambiare niente nella mia vita.

Succede anche a voi?

Ecco perché, quando dallo scaffale della libreria dell’usato Marie Kondo mi ha strizzato l’occhio, non ho potuto fare a meno di portarmi Il magico potere del riordino a casa. Sperando che almeno lui la magia riuscisse a compierla, visto che io da sola non sono capace.

Come già vi ho spiegato con il metodo francese per non ingrassare, penso sia inutile leggere manuali senza mettere in pratica quello che suggeriscono, per cui anche stavolta mi sono messa all’opera e ho provato. Ora vi spiego prima come funziona il metodo e poi vi racconto com’è andata.

Le regole di Marie Kondo

Le regole sono semplici e ripetute più volte, sicuramente per fare in modo che a fine libro ti siano entrate in testa per bene.

Innanzitutto, bando ai procrastinatori. Il metodo si deve mettere in pratica in massimo tre giornate piene, senza tralasciare niente. Non vi azzardate anche solo a pensare che possiate riordinare un po’ per volta, magari una stanza alla volta.

Nein.

Tutta casa va ribaltata in un nanosecondo, andando per categorie e non per stanza. Questo perché lo stesso oggetto è riposto in più ambienti ed è inutile riordinare la libreria, faccio un esempio a caso, se i libri sono sparsi ovunque dentro casa.

Quindi, se scegli di partire dai vestiti, devi buttare tutto per terra e poi dividere quelli che vuoi tenere da quelli che preferisci buttare. Sulla base di quale criterio? L’utilità potenziale? Il “pezzo” base? La gonna che ora non ti rientra però se ti metti a dieta chissà…?

Niet.

Sulla base delle emozioni che suscitano. Quello che devi chiederti è solo: questo capo mi rende felice? Se la risposta è sì, bene, tenere. Se la risposta è no, infila nel sacco nero delle dismissioni. E se ho sbagliato e quella camicetta che ho buttato invece mi serviva proprio? Pazienza, la ricomprerai, più bella dell’altra magari.

Soprattutto la cosa fondamentale è trovare un posto per ogni oggetto, per riuscire a riporlo con facilità quando andrai a riordinare casa nel quotidiano. Memorizzando in quale punto dell’appartamento si trova un determinato prodotto, sarà anche più semplice trovarlo all’occorrenza.

E gli oggetti cui sono affettivamente legata? Le foto? I regali? Quelli posso tenerli, vero?

Ni.

Dipende. In ogni caso, Marie Kondo suggerisce di lasciarli per ultimi, proprio perché richiedono più forza di volontà per lasciarli andare.

Non vi tedierò oltre con gli altri punti del manuale, troverete mille video su youtube su come impilare vestiti, piegare magliette, riporre borse, non strapazzare collant e chi più ne ha più ne metta.

La vera domanda è un’altra e io cercherò di rispondere.

In sostanza, il metodo di Marie Kondo funziona davvero?

Sì. Funziona davvero, a patto che il cervello senta già una spinta al cambiamento. Proprio come una dieta ha più speranze di riuscire se uno sente la necessità di modificare le proprie cattive abitudini e mitigare l’auto indulgenza che ci spingerebbe ad agire giorno dopo giorno sempre con gli stessi schemi.

Yes. Funziona davvero, se sei disponibile ad accogliere il concetto di felicità applicato alla casa e agli oggetti che possiedi. Cos’è la casa, se non il nostro rifugio? Perché, allora, non consentirle di respirare e di vivere in armonia con noi? E’ un punto di vista orientale che noi occidentali fatichiamo a comprendere.

Eppure è così sempliceosservare con attenzione un oggetto e chiedersi: mi rende felice? Credetemi, sono sorpresa anch’io di quanti No abbia pronunciato silenziosamente.

Anche sui libri

Eppure non avrei mai creduto che potesse succedere. Quante volte ho sentito ripetere dalla comunità dei lettori “non mi separerei mai dai libri”? Adesso finalmente penso di aver capito. Perché non mi separerei mai? Non c’è un perché, facile. Una volta che il romanzo ha esaurito la sua funzione, cioè farmi stare bene per il tempo di lettura, è giusto che passi a qualcun altro, che possa stare bene come me, o forse meglio di me. Che senso ha conservare tutti i libri, anche quelli che so già non leggerò mai più? Nessuno. Per fortuna, c’è il mio amato blog a ricordarmi cosa ne pensavo quando l’ho chiuso. Ovviamente non sto parlando delle centinaia di libri da cui non mi staccherei mai, neanche sotto tortura. Parlo di quelli che non mi comunicano più niente, che non mi rendono felice solo a guardarli, che non mi provocano la tentazione di sfogliarli per rileggere qualche passaggio.

Altro capitolo importante, gli oggetti regalati

Sono una di quelle persone che si sente in colpa se non espone e non conserva i regali. Sbagliato, dice Konmeri. Il regalo ti rende felice? Ti è utile? Se la risposta è Sì, conservalo. Se la risposta è No, non sei un’orrenda persona. E’ solo che ha esaurito la sua funzione nel gesto stesso di essere regalato. E io ho adempiuto al mio dovere ringraziando con affetto la persona che ha perso tempo scegliendo un regalo per me. Stop. Non potete immaginare quanto sia catartico questo pensiero.

Secondo l’autrice giapponese, dopo aver fatto spazio in casa e aver ridato ossigeno agli ambienti, anche chi ci abita si sentirà diverso: più ottimista, fiducioso, pronto a fare spazio al futuro e a quello che la vita gli riserverà. Perché secondo la sua visione del mondo, l’accumulo non è altro che il desiderio inconscio di trattenere il passato e quello che eravamo e ormai non siamo più.

Ora, non so dirvi se sia proprio così, nel mio caso gioca un ruolo importante anche una certa dose di pigrizia nel fare ordine, però è indubbio che dopo diversi giorni di caos in cui mi è sembrato di impazzire, adesso far vagare lo sguardo in giro e sentire dentro e fuori una sensazione di libertà e pulizia fa bene agli occhi e al cuore. Anche se non ho ancora sciolto il nodo fondamentale.

Che fine fanno gli oggetti scartati?

Già. L’aspetto che proprio non mi piace del suo manuale è questo invito continuo a buttare, buttare, buttare. Marie, nelle scuole giapponesi non insegnano l’arte del riciclo e del riuso? Per un’ambientalista anche il solo pensiero di non recuperare è assurdo, tanto più che tu vieti assolutamente di affibbiare a parenti e amici gli oggetti scartati! Che fare, allora?

Il magico potere del riordino e del riuso

Propongo di trasformare Il magico potere del riordino di Marie Kondo ne Il magico potere del riordino e del riuso. Che non è così semplice come possa sembrare, perché indirizzare verso il canale giusto le cose scartate rischia di trasformarsi in un lavoro duro quasi quanto la selezione iniziale. Eppure sono convinta che far entrare nel vocabolario di uso comune parole come baratto, beneficenza, dono, scambio, rivendita, significhi davvero liberarsi del superfluo e abbracciare il futuro. Non solo il nostro, pensare un po’ anche agli altri farà respirare noi e la nostra casa a pieni polmoni.

E voi? L’avete letto? Siete riusciti ad applicare il suo metodo? Raccontatemi nei commenti com’è andata 🙂

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A sud del confine, a ovest del sole – Haruki Murakami

Sono ospite in una locanda letteraria in montagna. In una stanzetta arredata per la lettura, con scaffali di legno, poltroncine e un servizio da tè d’argento, l’angolo di un libro spunta sotto una colonna orizzontale di volumi appoggiati distrattamente su una mensola. E’ Haruki Murakami, uno dei miei autori contemporanei preferiti, che mi sta chiamando. Adotto il romanzo che mi ha scelto e inizio a leggerlo in camera. Accendo il bollitore e mi preparo un tè forte: ho solo due giorni per finirlo e poi lo dovrò riconsegnare agli albergatori. Leggo l’incipit. E’ una storia d’amore. Bene, iniziamo…

La trama

Hajime è nato “nella prima settimana del primo mese del primo anno della seconda metà del ventesimo secolo”. Per questo i suoi genitori gli hanno dato quel nome, che significa «inizio». Il desiderio più grande di Hajime è essere un ragazzino normale, ma a differenza dei compagni di scuola è figlio unico. Poi, un giorno, in classe arriva Shimamoto. Anche lei è figlia unica, e una leggera zoppìa sembra isolarla ulteriormente dal mondo. Shimamoto e Hajime diventano amici e trascorrono pomeriggi interi ad ascoltare dischi di jazz. Quando i genitori di Hajime si trasferiscono in un’altra città, l’amicizia tra i due s’interrompe. Hajime cresce, si laurea, trova lavoro, si sposa, fa figli. A trentasette anni si direbbe realizzato: ha moglie, due figlie, gestisce un locale jazz di successo. Finché, in una serata di pioggia, a un tavolo del suo locale si siede Shimamoto. La sua improvvisa ricomparsa manda tutto all’aria: certezze, convinzioni, l’immagine di sé che Hajime aveva faticosamente costruito, quell’impressione di normalità che aveva inseguito dall’adolescenza in poi. Improvvisamente, Hajime sente il bisogno di rimettere tutto in discussione.

Tempus fugit

Haruki Murakami ha scritto questo romanzo a 42-43 anni, più o meno. Cioè quando era leggermente più vecchio del suo protagonista e, forse, nel momento in cui si sentiva smarrito e in preda a riflessioni pesanti sulla propria vita e sulle proprie scelte. Certo, è sempre un azzardo leggere elementi autobiografici nell’opera di uno scrittore, perché se è vero che la creatività è alimentata da esperienze e fatti personali, è altrettanto verosimile che la rielaborazione del pensiero creativo porti il romanziere ad astrarsi da vicende unilaterali per porsi su un piano di riflessione collettiva e universale. Sta di fatto, tuttavia, che Hajime possiede un locale jazz notturno, come Haruki Murakami prima di diventare famoso, e che il protagonista sia uno sportivo, come il narratore. Il resto riguarda tutti noi a una certa età, chi più chi meno: un grande amore del passato che si rifà vivo, se non fisicamente almeno nella coscienza, e una pulsione al cambiamento che si fa strada quando ormai tutto sembra incanalato nei binari dell’abitudine. Confessiamocelo: chi non ha mai avuto dubbi sulle proprie scelte? Chi non si è sentito smarrito all’idea di invecchiare piano piano senza rendersene conto? Chi non ha pensato, anche solo per un attimo, di buttare tutto all’aria e ricominciare da capo? Così, solo per il gusto di sentirsi vivi.

Hajime e Shimamoto e quello che poteva essere e non è stato

Ecco perché la storia tra Hajime e Shimamoto è una metafora di quello che poteva essere e non è stato, delle scelte del passato che condizionano il presente e della nostalgia per tutto ciò che potevamo raggiungere ed essere e che è fuggito via, con il tempo. Stavolta non ci sono visioni oniriche, non c’è soprannaturale, evento raro nella produzione del giapponese. Tempus fugit, semplicemente. Gli antichi lo sapevano bene e lo sapevano dire in due parole. Noi, invece, rincorriamo la giovinezza, i divertimenti, seguiamo un modello di vita che ci impone la società, o la famiglia, a volte senza mai davvero prendere le redini della nostra esistenza. Un’esistenza che comunque vada sarà di breve durata. Solo il deserto, strano a dirsi e anche solo a pensarsi, sopravvive sempre, come diceva Walt Disney. Tutto il resto muore. Anche noi , con il nostro carico di sogni. E, forse, anche i nostri amori. Qui, però, il discorso si fa più complicato, e giustamente Haruki Murakami si ferma prima di dare una risposta definitiva. Che forse non c’è e non potrà mai esserci. Perché le ceneri degli affetti, sparse nel fiume, sfoceranno nel mare e torneranno pioggia. Mettiamo via l’ombrello e guardiamo verso l’altro la prossima volta che piove. Le gocce che ci finiscono sul viso potrebbero essere il bacio del nostro amore.

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Il seggio vacante – J. K. Rowling non è solo Harry Potter

Questo libro m’incuriosiva molto, fin dalla sua uscita, ma ho aspettato un bel po’ di tempo prima di aprilo. E’ diventato l’ultimo romanzo del mio 2017 e posso dire con sicurezza che non avrebbe potuto esserci finale migliore. D’anno, perché J. K. Rowling piazza nelle battute finali un pugno nello stomaco di quelli che fanno male.

La trama

A Pagford, un ridente villaggio inglese, accade un fatto imprevisto: l’insegnante e consigliere Barry Fairbrother si accascia a terra e muore. La sua dipartita rompe gli equilibri all’interno del Consiglio Locale, lasciando un seggio vacante che diviene la causa di molti dissapori tra l’ala conservatrice dell’amministrazione, che vorrebbe trasformare il centro comunitario cittadino in un albergo di lusso, abbandonando così a se stessi gli emarginati della società, e l’ala “progressista”, di cui Fairbrother era leader. Oltre alle dinamiche politiche, l’evento scatena una serie di reazioni a catena che scoperchiano progressivamente i conflitti sepolti sotto l’apparente tranquillità: i ricchi in lotta con i poveri, i ragazzi in lotta con i genitori, le mogli in lotta con i mariti, e gli insegnanti in lotta con gli studenti, in un crescendo di ripicche e rappresaglie che sfoceranno in tragedia.

Dietro un mondo piccolo e perfetto, si nasconde il male

Premetto che il motivo principale della mia curiosità nei confronti di questo libro era semplicemente capire se il fenomeno Rowling fosse legato esclusivamente alla saga di Harry Potter. Saga che per inciso non ho mai letto, al contrario, per pura mancanza di curiosità. D’altra parte, un successo planetario così enorme di una scrittrice non americana non poteva essere qualificato come marketing e basta.

Questo romanzo me l’ha confermato. Dopo le prime pagine, in cui ho fatto fatica a ricordare tutti i personaggi scesi in campo capitolo dopo capitolo e le connessioni tra loro e nel tessuto sociale della cittadina, finalmente la matassa si è dipanata e pagina dopo pagina ammetto che ho fatto fatica a posare il libro.

Se, al contrario di me, conoscete J. K. Rowling solo per Harry Potter, scordatevelo immediatamente e leggete questo libro. Perché dietro un mondo apparentemente piccolo e perfetto, si nasconde il male e la Rowling lo stana senza pietà. Non c’è bisogno neanche del sole, come diceva Agatha Christie. Perché invece a Pagford piove e piove spesso, il che rende l’atmosfera se possibile ancora più lugubre. Il che rende quasi impossibile pensare che gli irreprensibili cittadini abbiano scelto un villaggio così isolato e umido  per trascorrere un’esistenza tranquilla.

A Pagford c’è tutto, meno che tranquillità

La lotta intestina all’interno del Consiglio è solo uno sfogo per la rabbia repressa che domina gli abitanti, che per un motivo o per l’altro hanno bisogno di affermarsi, se a danno di altri ancora meglio. I ragazzi non sono immuni, sono cresciuti nel veleno e veleno hanno respirato. L’unica cosa che vogliono è buttarlo in faccia a qualcuno, insegnanti o genitori che siano. Chi si salva? Solo lui, il morto, il fantasma Barry, che infatti viene evocato da più parti come un giustiziere divino. Barry era diverso, Barry era un uomo che faceva la differenza. Barry avrebbe potuto salvare le anime. Perché Barry era nato povero e ce l’aveva fatta, senza passare sopra a nessuno, senza dimenticarsi da dove proveniva, spargendo entusiasmo e voglia di fare e di credere in se stessi nelle persone che avevano la fortuna di passare sotto la sua stella.

E’ proprio nella “bellezza” di un uomo comune che vedo il significato del libro: tu, uomo normale, puoi fare la differenza se lotti per il progresso e per una società migliore. A partire dalla scuola, non a caso è un professore, e dalla famiglia.

Echi autobiografici

Sembra che Pagford, villaggio inventato, somigli molto a Tutshill, il villaggio inglese nel quale J. K. Rowling trascorse l’adolescenza. Tanto che gli abitanti hanno sentito la necessità di dissociarsi dai personaggi.

Io credo, invece, che qualunque villaggio e qualunque piccola città, o quartiere di una metropoli, possa riconoscersi nelle maschere universali descritte dalla britannica. Come dice J. K. Rowling stessa: “la classe media è divertente. E’ quella che conosco meglio ed è quella in cui trovi più pretese”. Come non darle ragione? Soprattutto quando queste pretese vengono schiacciate, come sta accadendo oggi praticamente in tutto il mondo, la classe schiacciata non può che emergere in tutto il suo pagfordiano splendore. 

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