Georges Simenon, Tre camere a Manhattan. Per un attimo, l’autore belga lascia da parte il commissario di polizia Maigret e si mette febbrilmente a scrivere una storia che consegna all’editore dopo soli sei giorni. Una storia d’amore, di solitudine e, forse, di nuovi inizi.
Trama
New York, notte. Un uomo e una donna camminano lungo la Quinta Strada. Entrano in un bar. Ne escono. Un altro bar. E riprendono a camminare, instancabili, come se non potessero fare altro che camminare: «come se avessero sempre camminato così, per le strade di New York, alle cinque del mattino». Come se la notte non dovesse mai finire. Lui non sa niente di lei, lei non sa niente di lui. Lei traballa un po’ sui tacchi troppo alti, e ha una voce roca, una voce che fa pensare a una pena oscura; su una delle sue calze chiare spicca una smagliatura sottile – come una cicatrice. Non è né giovanissima né prepotentemente bella; sul suo viso, i segni di una stanchezza, di una ferita remota: ma è proprio questo a renderla seducente. Si sono incontrati solo poche ore prima, in una caffetteria nei pressi di Washington Square, come due naufraghi, e ora «sono così tenacemente avvinti l’uno all’altro che la sola idea della separazione risulta loro intollerabile».
Due solitudini che s’incontrano
“Chissà, magari di lì a un’ora, o a mezz’ora, sarebbero ridiventati due estranei…Non era per questo che continuavano a prendere tempo, che da quando si conoscevano non avevano fatto che prendere tempo, perché niente lasciava loro intravedere un possibile futuro?“
Pare quasi di vederli, quei due, tra le strade brumose di Manhattan, mentre camminano incessantemente per non doversi fermare e riflettere, guardarsi in faccia, chiarire la natura del loro rapporto. La frase che ho citato, secondo me, dà senso all’intero romanzo. Un romanzo chiaramente autobiografico, che Georges Simenon scrisse addirittura in sei giorni, tanta era l’urgenza di mettere su carta il fuoco che gli ardeva dentro. “L’ho scritto a caldo e questo mi ha fatto paura”, così commentava il processo di scrittura.
Il simbolo del 3
Sì, il fuoco, di un uomo che lascia il mondo così come l’aveva conosciuto fino a quel momento, la vecchia Europa, e si imbarca su una nave danese per raggiungere New York. Un mondo diverso, dove lui non è nessuno, mentre in Europa era già un romanziere affermato. Un uomo che in quel momento sta mettendo in discussione la sua vita, il suo lavoro e il suo matrimonio. Il romanzo, infatti, è stato scritto nel periodo in cui l’autore aveva già iniziato a frequentare la donna che anni dopo diventerà la sua seconda moglie, Denyse Ouimet. Al contrario del personaggio di Tre camere a Manhattan, Georges Simenon lascerà la moglie solo quando Denyse gli comunicherà di aspettare un figlio da lui. Dubbi e lacerazioni dell’uomo Simenon che ricorrono nella simbologia del tre, che pervade le pagine: tre camere, relazione a tre tra i protagonisti e i rispettivi ex, relazione a tre anche tra la coinquilina di Kay e i suoi amori. nell’ultima camera, è una porta a fare da spartiacque: rimarrà chiusa o aperta?
Lo smarrimento
Nel romanzo, predomina il senso di solitudine, lo smarrimento dei protagonisti è percepibile. Lui, François Combe, è un attore francese tradito dalla moglie, che pubblicamente lo ha sostituito con un attore molto più giovane e che, baciato dal successo in patria, ora fatica a trovare anche piccoli ruoli.
Lei, Kay Miller, è una donna che ha abbandonato marito facoltoso e figlia per ricostruirsi faticosamente una vita, di cui porta i segni in faccia. Il romanzo di Georges Simenon va letto con gli occhi dell’epoca. Oggi, una trentacinquenne e un quarantottenne potrebbero benissimo iniziare una nuova vita, senza grandi traumi. Lo scrittore, invece, parla di una donna ormai sfiorita, che i suoi amici gli invitano a lasciar perdere perché sicuramente in cerca di un uomo che la salvi dalla perdizione.
Guardarsi allo specchio
Ecco, questo aspetto mi ha un po’ infastidito. François Combe mostra a tratti una personalità violenta, che mette in discussione i comportamenti di Kay senza guardarsi mai allo specchio. Lei, al contrario, sembra più fragile di quanto non sia. In realtà, nella vita ha saputo compiere scelte dure e assumersene la responsabilità. Sì, è vero, naviga nell’oblio e frequenta bar equivoci a notte fonda, ma l’immagine che siamo portati a farci nelle prime pagine viene smentita via via che il romanzo va avanti. Sicuramente più risolta lei, certamente una donna che sa comprendere lo sconvolgimento che gli alberga dentro, perché ha vissuto anche lei quella fase. Lui, invece, cerca giustificazioni per le sue azioni, addossando sempre la colpa a qualcuno. Alle donne, essenzialmente: prima la moglie, poi la sua natura di uomo, poi Kay. Come lo chiameremmo oggi?
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