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Tintagel e Boscastle, atmosfera mistica e magia

Di mattina presto, lasciamo Mullion con grande rimpianto e ci dirigiamo verso il nord della Cornovaglia. In due ore siamo arrivati a Tintagel, dove secondo la leggenda vedremo i resti del castello di Re Artù.

Il villaggio

Il villaggio è pittoresco, come tutti quelli visitati fin qui. Stavolta, abbiamo lasciato la macchina in un parcheggio a prezzo fisso, 2 sterline per l’intera giornata, evitando quelli comunali a tariffa più alta. Sulla strada per il castello abbiamo visto il King Arthur’s Great Halls e l’Old Post Office. La prima è una mostra permanente su Re Artù, ospitata dal 1933 in un edificio di granito rosa e ardesia. I visitatori possono vedere la riproduzione del trono e della tavola rotonda, nonché ben 72 vetrate su cui viene riprodotta per intero la leggenda arturiana. Il vecchio ufficio postale, invece, non è altro che un edificio del 14° secolo  che nel 19° assunse transitoriamente la funzione di centro di smistamento della posta in arrivo e in uscita da Tintagel. L’edificio è stato acquistato dal National Trust nel 1903 che ne ha fatto un museo aperto al pubblico.

Il castello di Re Artù

Entrambi sono frequentatissimi dai turisti di tutto il mondo, ma io ho preferito concentrare le mie energie sul castello e non me ne sono affatto pentita, anche perché c’è talmente tanto da vedere e da fare che volendo ci si potrebbe passare l’intera giornata. Ai resti siamo arrivati percorrendo un sentiero in discesa abbastanza lungo; A pagamento avremmo potuto evitarlo salendo su jeep messe a disposizione  dalla struttura. Noi abbiamo optato per la camminata che, se non avete problemi di deambulazione, vi consiglio fortemente.

Come salire

Dopo aver fatto il biglietto, si può salire in due modi: scalando la roccia a sinistra, oppure attraversando il ponticello a destra per poi affrontare la ripida scalinata che porta sull’isola di roccia. La seconda opzione mi è sembrata, e forse lo era, più facile, ma vi assicuro che quando il vento tira così forte come quel IMG_6418 (2)giorno e tra te e lo strapiombo c’è soltanto un esile corrimano d’acciaio, salire quei gradini è una prova di coraggio. Soprattutto per quelli come me che soffrono di vertigini. Comunque, in qualche modo sono riuscita a varcare il portone di legno d’entrata e a mettermi relativamente al sicuro.

Un luogo di meditazione

Prima di andare, qualcuno mi aveva detto che Tintagel è un luogo di meditazione. Appena arrivata in cima, mi sono accorta che è vero. Un po’ lo è tutta la Cornovaglia, perché panorami così mozzafiato non possono non costringerti a riflettere sulla presenza dell’uomo nel mondo, e anche sulla tua misera vita, più banalmente. Su queste alture, viene spontaneo sedersi su uno dei resti e riflettere, volgendo lo sguardo all’immensità dell’orizzonte. Il panorama è unico e girando per le “stanze”, in realtà ora solo dei resti ricostruiti su mappa, viene voglia di girare ogni angolazione e fermarsi stupiti a rimirare colori che non hanno bisogno di ritocchi da photoshop, mentre il vento soffia così prepotentemente che ti entra dappertutto e ti rende instabile anche mentre cammini al sicuro. L’aria di mito e leggenda si respira su ogni masso, è 20170818_140331incredibile.

La statua di Re Artù

All’improvviso, quando eravamo in alto, abbiamo fatto la conoscenza di Re Artù in persona. Sì, proprio lui! Secondo la leggenda, infatti, Re Artù nacque a Tingagel e Merlino lo nascose nel castello per allevarlo in gran segreto. Se c’è bassa marea, si può scendere sulla costa per arrivare alla grotta di Merlino, oppure, come ho preferito fare io che sono arrivata durante l’alta marea, lasciare il castello alla propria destra e incamminarsi sulla scogliera di Gleve per raggiungere, lentamente e godendosi il panorama a ogni passo, la chiesa di S. Materiana.

La chiesa di S. Materiana

Improvvisamente, ho pensato di essere finita nel bel mezzo di un film sul medioevo. La chiesa, infatti, è risalente all’11° o 12° secolo e non ha subito cambiamenti di rilievo da allora, se si escludono il rifacimento del tetto e delle finestre. E’ di fattura normanna, piccolina, e ispira un grande senso di pace e di quiete. Forse perché circondata di tombe antiche nel minuscolo cimitero annesso. In questo luogo dedicato all’eterno riposo, ho portato un saluto e un pensiero sulla tomba di Domenico Catanese, un quattordicenne napoletano che nel 1893 perì nel naufragio della sua nave sulle scogliere. Una croce di legno e un salvagente lo ricordano ai passanti. Dalla chiesa, una strada collinare, purtroppo asfaltata, senza marciapiede e molto stretta, porta in discesa verso il villaggio, al punto di partenza. Quell’unica stradina per arrivare alla chiesa, è anche la via con cui le persone non autosufficienti possono godere di un parcheggio riservato e di una bella vista sul castello, pur non potendo accedere a quest’ultimo perché oggettivamente proibitivo per chi non goda di buona salute.

Boscastle

Ammaliati da questo tripudio di bellezza in ogni senso e in ogni angolo, ci siamo spostati IMG_6426verso Boscastle, un villaggio a circa dieci minuti di macchina, che volendo si può raggiungere anche a piedi attraverso il coastal path. Qui hanno girato diverse scene del film L’erba di Grace. Tenete sempre presente, però, che nei villaggi cornici dopo le 5 del pomeriggio troverete tutto chiuso, anche in piena estate, e che il tempo cambia radicalmente, virando spesso a pioggia o a vento impetuoso.

Il villaggio di Boscastle

A Boscastle, infatti, siamo arrivati sul filo di lana, appena prima che l’intero villaggio si preparasse per la cena. Noi volevamo solo scaldarci con un cornish tea e abbiamo trovato una sola locanda disposta a prepararcelo. Rinfrancati, abbiamo passeggiato per questa bella cittadina, fiabesca nella sua atmosfera quasi notturna, arrivando fino al porto, dove nel frattempo il vento era diventato così potente da spostarci leggermente mentre camminavamo.

Libri a offerta libera

A Boscastle ho visto un’iniziativa molto carina dell’ufficio turistico: un capannone-biblioteca, con libri usati che si possono lasciare come una sorta di offerta libera e comprare con prezzo stabilito dai gestori. Solo che per pagare bisogna trasferirsi nell’edificio principale dell’ufficio turistico, quello dove si comprano mappe e souvenir. Insomma, tutto è lasciato all’onestà dei lettori, che in autonomia prendono e lasciano libri pagando il dovuto. Cosa che anch’io ho puntualmente fatto: ti pare che non possa trovare un libro interessante in un angolo sperduto della Cornovaglia?

La fattoria

Salutata Boscastle, è il momento di andare nella nostra nuova “casa”. Una fattoria, esperienza sensazionale assolutamente da provare almeno una volta. Dopo avere in qualche modo affrontato con successo una stradina minuscola che sfida qualsiasi legge di circolazione a un senso e che loro considerano a due sensi, non capirò mai come facciano, siamo arrivati in cima a una collina e siamo stati accolti dalla fattora e dalle sue mucche con grande ospitalità. Non oso 20170818_205552_LLSimmaginare che capigliatura alla medusa dovessi avere, perché lei molto carinamente ha deciso che “con tutto quel vento” avessi diritto a un bel…cornish tea! Grandissima, ovviamente non abbiamo confessato di averne appena preso uno a Boscastle e abbiamo fatto bene, perché poco dopo lei si è ripresentata con scones, clotted cream e marmellata fatta in casa. Una goduria divina. Senza contare il panorama dalla finestra della camera, che vi faccio vedere in questa foto naturale, senza l’utilizzo di filtri. Non sembrano anche a voi colori pazzeschi?

Arrivederci

Un’altra giornata fitta fitta di emozioni sta finendo. Domani lascerò definitivamente la Cornovaglia e al solo pensiero mi si spezza il cuore. Ho ancora un’ultima scrittrice che mi aspetta, al Jamaica Inn. Poi, dovrò mormorare un arrivederci a questa terra meravigliosa. (continua)

Leggi anche:

Cornovaglia, dopo oltre 500 anni un nuovo ponte per raggiungere il castello di re Artù (link esterno)

A Mullion, nel covo dei pirati

Ieri eravamo nel punto più occidentale dell’Inghilterra. Oggi, per par condicio, mi trovo invece nel IMG_6330punto più meridionale, a Lizard Point, o Capo Lizard, che è anche ovviamente il punto più a sud della penisola Lizard. Insieme a Cape Cornwall, e a un’altra oasi naturale che incontrerò più in là, credo che sia l’ambiente paesaggisticamente più selvaggio che abbia incontrato durante il viaggio. Proprio per questo, vi consiglio caldamente di passarci, perché tutto è speciale: dopo aver lasciato la macchina nella vicina St Just, o direttamente nel parcheggio dedicato, attraversando il sentiero potrete percorrere miglia e  miglia di spiagge quasi inaccessibili, scogliere a picco sull’oceano, circondati dal verde delle brughiere, da innumerevoli specie di piante rare che qui trovano terreno fertile e da foche, delfini e, se siete fortunati, squali blu che vi spiano dalle acque gelide. Una meraviglia, per gli occhi e il cuore. A Kynance Cove, invece, siamo arrivati riprendendo la macchina e parcheggiando lì nei pressi, anche se con più tempo avrei preferito arrivarci a piedi. Solo che non essendoci autobus diretti per tornare indietro, abbiamo preferito optare per la soluzione più comoda. A Kynance Cove, una bella baia incastrata fra le rocce, ho capito che non c’è un solo modo di vivere una spiaggia, con ombrellone, IMG_6347asciugamano, bagni in acqua e magari un libro. No, qui la spiaggia si vive in modo concettualmente diverso. C’è chi fa il bagno sfidando le onde alte e la temperatura polare, c’è chi organizza il picnic sulla scogliera sovrastante, chi ricama, chi rimane vestito e passeggia per la spiaggia, chi si riposa dopo una lunga camminata e volge lo sguardo all’orizzonte prima di ripartire. Tutti, però, hanno una cosa in comune: il massimo rispetto per l’ambiente e le sue regole. Fantastico, davvero. Verso le 3 la fame ha iniziato a farsi sentire ed è scattato il toto pranzo. Nessuno dei locali di Lizard Point mi ha convinto, a Kynance beach c’è solo un bar e allora abbiamo deciso di rientrare un po’ prima del previsto a Mullion per fare un giro del porto e lì trovare qualcosa da mangiare. Una scelta che alla fine si è rivelata azzeccata: siamo entrati in minuscolo bar nei pressi del porto, Porthmellin cafè, il cui ambiente semplice e frugale ci ha subito attirato. IMG_6396Ci hanno portato dei sandwich con tonno e granchio deliziosi e abbiamo suscitato l’ilarità degli altri avventori perché invece di accompagnarli con caffè, cappuccino (aarrrghhh) o, peggio, un frullato, abbiamo chiesto birra (non servono alcolici) o coca cola. Rinfrancati, e divertiti a nostra volta, siamo ripartiti per una passeggiata tranquilla sul molo, che a dispetto delle apparenze è attivo, e per la baia di Mullion, che è sensazionale. Probabilmente sconosciuta ai più, è un posto senza tempo, scommetto che sarà esattamente così anche tra duecento anni. Forse sono di parte, dovete capire che di Mullion e della sua atmosfera piratesca sono innamorata persa. Sembra, infatti, che fosse un covo di contrabbandieri e che IMG_6371dal porto partisse un tunnel sotterraneo che portava le merci dalle navi fino a una fattoria nell’entroterra, mentre il covo dei contrabbandieri era situato all’interno del pub principale del villaggio, ancora oggi perfettamente funzionante. Il bello della Cornovaglia è che il tempo sembra essersi fermato, tutto è immutato e le poche infrastrutture realizzate sono armoniosamente inserite in un contesto naturale intatto. Com’è possibile non innamorarsi follemente di tutto questo? Vi assicuro, se avessi visto un pirata balzare a terra da una delle barche ormeggiate, non l’avrei trovato per niente strano! Per il resto, da segnalare c’è solo una fabbrica di cioccolato e che se arrivate qui in macchina troverete un primo parcheggio a pagamento e un secondo, proprio a ridosso del porto, a donazione libera.

Sento il ticchettio dell’orologio che scorre inesorabilmente, forse perché ahimè non sono cornica. I miei giorni in Cornovaglia stanno per finire. Da domani, inizia la risalita verso la costa settentrionale. Se avrete la pazienza di seguirmi, domani vi racconterò di un posto da leggenda, Tintagel, del suo magico vicino Boscastle, e della mia esperienza di soggiorno in una vera tre-farm.

Bath Oliver biscuits con pasta madre

Dopo il cornish cream tea, eccomi alle prese con un’altra ricetta in tema con il viaggio letterario Sulle tracce delle grandi scrittrici che mi ha elettrizzato quest’estate e che continua a regalarmi soddisfazioni, anche in ambito culinario. Durante la visita al Jane Austen Centre di Bath, ho assaggiato i famosi, ma questo l’ho scoperto dopo, Bath Oliver biscuits. Mi sono piaciuti, si chiamano biscotti ma sono crackers salati e croccanti, che ho deciso di rifare una volta tornata a casa. Ovviamente, come tutte le ricette tradizionali che si rispettino, la ricetta originale è segreta, ma non mi sono scoraggiata e ho provato lo stesso a farli, usando la pasta madre invece del lievito di birra.

La storia della loro origine è curiosa e misteriosa

In linea con la tradizione britannica sulle leggende. Sembra che l’inventore dei Bath Oliver biscuits sia un medico che esercitò a Bath di nome William Oliver. Li utilizzò per la prima volta intorno al 1750 e alla sua morte lasciò la ricetta al suo cocchiere, il signor Atkins, insieme a 100 sterline e dieci sacchi di ottima farina. Atkins si rivelò un uomo d’affari con il fiuto, perché senza perdere tempo si arricchì commercializzando il prodotto per poi rivendere al miglior offerente. Oggi i Bath Oliver vengono prodotti da una multinazionale e molti inglesi sono convinti che il vero biscotto si sia snaturato, diventando di fatto un cracker a basso costo. In realtà nacquero perché Oliver curava i suoi pazienti affetti da reumatismi con i Bath buns, sempre di sua invenzione (saranno state le sue origini corniche a dargli tutta questa inventiva?). Col tempo, però, si accorse che i pazienti guarivano dai reumatismi, ma tendevano a ingrassare perché i buns erano molto calorici! Quindi decise di sostituire i buns con i biscuits, più leggeri in tutti i sensi.

A cosa si abbinano

Sia come sia, ho provato a farli e sono venuti proprio bene, oltre le mie aspettative, considerando che online non ho trovato nessuna ricetta certa e, soprattutto, neanche una che prevedesse pasta madre come lievito. Quindi posso affermare con orgoglio di essere una pioniera :). Ve li consiglio perché sono molto versatili. Infatti sono buoni da bath oliversoli, come crackers, ma anche in abbinamento a formaggi, pesce, salumi o creme per un antipasto diverso dal solito. La ricetta originale prevede il lievito di birra secco, che io però ho sostituito con la mia mother, variando di conseguenza le proporzioni di farina, latte, burro e pasta madre non seguendo alla lettera la conversione, ma adattandoli al risultato che speravo di ottenere. Se preferite, ahimè, il lievito di birra, basterà riconvertire il tutto e vedrete che riuscirà bene lo stesso.
Provateli e poi fatemi sapere se vi piacciono!

Ingredienti per 25 biscuits + ritagli:

Lievito naturale (anche esubero), 48 gr.
Farina 00, 308 gr. (io Molino Gatti)
acqua, 30 gr.
burro, 50 gr.
latte, 134 gr.
sale, 5 gr. (facoltativo)

Procedimento:

Sciogliete il burro nel latte a fuoco minimo, spegnendo appena il burro inizia a sciogliersi. Fatelo subito, senza aspettare che il burro si sciolga tutto. Continuerà a sciogliersi da solo e così accorcerete i tempi per intiepidirlo prima di unirlo al resto.
Nel frattempo, mescolate acqua e pasta madre, finché quest’ultima non si sia sciolta completamente. Aggiungete quindi metà farina e mescolate bene, coprite e lasciate riposare per 15 minuti.
Successivamente, unite gradualmente il mix di latte e burro, il resto della farina e il sale e formate una palla. Impastate finché l’impasto non sia liscio, non ci vorrà più di qualche minuto. Dopodiché, mettetelo in una ciotola pulita e coprite bene, lasciandolo riposare per circa 30 minuti. Intanto, preriscaldate il forno a 160 gradi.
Rovesciate l’impasto sulla spianatoia infarinata e con il mattarello formate un rettangolo di circa 2 cm di spessore. Fate pieghe a tre per 8 volte, lasciando riposare la pasta ogni 2-3 pieghe o quando noterete che oppone resistenza all’appiattimento.
Alla fine, assottigliate l’impasto il più possibile, più o meno a 5 mm di spessore, quindi con una formina o con una tazza grande, formate tanti cerchi grandi. Invece di impastare di nuovo i ritagli, potete tagliarli a quadretti o dargli le forme che preferite e cuocerli così come sono, usandoli come spezzafame.
Disponete i Bath Oliver biscuits sulla teglia, bucateli bene con una forchetta altrimenti in cottura gonfieranno, spennellateli leggermente d’acqua e spargete sopra un po’ di sale a fiocchi se ne avete, o sale fino in sostituzione.
Cuocete per circa 30 minuti, o anche qualche minuto in più, finché non appaiano dorati e croccanti. Una volta sfornati, lasciateli raffreddare su una gratella e conservateli in un contenitore ermetico. Quanto durano? Non lo so, da me sono durati lo spazio di una serata.
Ah! Avercene di medici così oggi, che capiscono quanto sia importante la cura della psiche per la guarigione! 🙂
Nota sul sale: ho dimenticato di inserirlo nell’impasto e l’ho messo solo sopra. I Bath Oliver biscuits sono ottimi anche così e quindi vi suggerirei di inserirne giusto un pizzico e lasciare il resto per la spolverata finale. La prossima volta proverò senza sale, secondo me è meglio lasciarli neutri quando si usano come base per una farcitura.
bath oliver biscuits

Curiosità:

I Bath Oliver biscuits sono anche in Bridgerton, la prima serie, su Netflix. Appaiono proprio nella prima puntata, quando Lord Berbrooke va a fare visita ai Bridgerton per fidanzarsi con Daphne. Lui entra in stanza e Lady Bridgerton gli chiede di servirsi liberamente dei “biscotti appena sfornati). Lui ne prende uno in mano e, se guardate attentamente, vedrete che è proprio un biscotto di Bath, località dove è ambientata la serie.

Leggi anche: 

I biscotti di Lady Whistledown

Sulle tracce delle grandi scrittrici: a Bath da Jane Austen

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Risotto all’Amarone della Valpolicella e radicchio

Da oggi questa ricetta entra a pieno titolo tra quelle che rendono speciale il pranzo, soprattutto se ci sono ospiti.  Dopo averlo assaggiato a Verona, non potevo non provare a replicarne il gusto strepitoso a casa. Devo ammettere, però, che ero un po’ titubante all’idea di utilizzare un bicchiere del costoso Amarone per cuocere il riso, ma vi assicuro che quando i vostri commensali chiederanno il tris, saprete anche voi che ne vale la pena. Il riso d’ordinanza dovrebbe essere il vialone nano, ma non me ne vorranno gli amici veronesi se ho optato per quello che avevo a disposizione, un carnaroli semi integrale che aspettava solo una ricetta grandiosa per scendere in campo.

Ingredienti per 4 persone:

  1. riso Carnaroli Superfino, 500 gr.
  2. radicchio, 1 cespo
  3. cipolla, 1, sedano, 1, carote, 2
  4. vino Amarone della Valpolicella, 1 bicchiere
  5. burro, una noce
  6. parmigiano, q.b.
  7. olio evo e sale, q.b.

Procedimento: 

Tagliate a dadini sedano, carota e mezza cipolla e preparate il brodo mettendoli in una pentola piena d’acqua. Salate (passaggio non necessario se volete evitare il sale, come faccio io) e portate a ebollizione.

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A parte, tritate finemente la restante metà della cipolla, mettetela in casseruola con un filo di olio e fatela rosolare. Aggiungete poi il riso e fatelo tostare qualche minuto. Quando inizierà a sprigionare il suo caratteristico profumo, versate il bicchiere di Amarone della Valpolicella e fatelo sfumare. Poi, aggiungete un mestolo di brodo e continuate ad aggiungerne regolarmente appena si asciuga.

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Mentre il riso cuoce, tagliate a pezzi il radicchio e cuocetelo in un pentolino a parte, con un filo d’olio, per pochissimi minuti, finché sarà morbido ma ancora croccante.

Quando sentirete che il riso sta per giungere a cottura, dopo circa 15 minuti, versate il radicchio nel wok e mescolate rapidamente. Regolate di sale se necessario. Poi spegnete il fuoco, e aggiungete una noce di burro, il parmigiano, regolandovi secondo il vostro gusto, e mantecate. Solo un suggerimento, fermatevi prima che il formaggio copra il sapore del riso.
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Eccolo qui, Risotto all’Amarone della Valpolicella e radicchio, un piatto unico spet-ta-co-la-re. Rigorosamente da servire con un buon bicchiere di Amarone della Valpolicella. What else?

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Il Capodanno cinese è come il nostro, inizia a tavola

Sapevate che la cena di capodanno cinese è fortemente intrisa di simboli? L’ho scoperto curiosando qui e là sul capodanno 2017. Per me, appassionata di simbologia, è stato come un invito a nozze. La tovaglia rossa c’è, il tavolo non quadrato pure…perfetto, si può fare.

Quest’anno entriamo nell’anno del Drago di fuoco e i festeggiamenti iniziano il 28 gennaio per concludersi il 2 febbraio. Il Drago simboleggia la vita e la crescita e porta armonia, virtù, ricchezza, soddisfazione e longevità. Come non rendergli omaggio?

Chiaramente il mio capodanno cinese si è tradotto in una libera interpretazione del menù tradizionale. Sono convinta che comprendere una cultura straniera non significhi replicare esattamente i suoi usi e costumi. Piuttosto, è vitale coglierne il senso.

Preparare la tavola 

Innanzitutto il tavolo, che deve essere tondo, e il colore, il rosso deve dominare su tutto. Il tavolo è ovale, ma credo che vada bene lo stesso, e ho una tovaglia rossa a ricami d’oro acquistata sicuramente in un momento d’emergenza e mai utilizzata. Ho trovato delle bacchette deliziose per posate e ho riutilizzato i tovaglioli avanzati dal Natale per gli auguri di buon anno (basta piegare in tre e il gioco è fatto). Il centrotavola è composto di mandarini e arance, perché esporre e mangiare questi frutti si dice porti ricchezza e fortuna. Questa credenza deriva dall’assonanza delle parole “oro” e “arancia” e “mandarino” e “fortuna”. Le foglie dei frutti simboleggiano la longevità. Ne ho raggruppati 8, simbolo di fortuna, 5 mandarini e tre arance. E’ importante evitare il 4, associato alla morte.

Quali portate servire

Come il nostro capodanno, anche il capodanno cinese prevede numerose portate, perché il nuovo anno inizi nel segno dell’abbondanza. Ognuna si tramuta in un augurio di prosperità, salute e successo.

Il menù che ho scelto è semplice: nuvole di gamberi, involtini primavera, riso alla cantonese, pollo al limone, pesce, innaffiati da birra cinese. Piatti che conosco e che si avvicinano ai gusti miei e degli altri commensali. Gli involtini hanno la forma di un lingotto e rappresentano il denaro. Il riso è segno di abbondanza in ogni cultura. Il pollo richiama il gallo simbolo del 2017. Il pesce non può mancare: “yu” accompagnato dal detto “Nian Nian si yu”, che significa “ci sia ogni anno sempre più abbondanza”. In cinese la parola sovrabbondanza e pesce hanno lo stesso suono. Il pesce deve essere presentato intero, perché rappresenta il “salto” nel nuovo anno, che deve avvenire completamente, senza che nulla rimanga nell’anno passato. Per questo ho scelto lo sgombro con topinambour. Sgombriamo il campo dall’anno vecchio…eheh. E’ anche fondamentale lasciare gli avanzi per il giorno successivo, perché questo significa che l’abbondanza traboccherà.

Altrettanto immancabile è un bel piatto di frutta a fine pasto. Per questo, come dolce ho scelto una versione light della frutta caramellata, spiedini di frutta spolverati di caramello. Ovviamente ogni spiedino è composto di 8 pezzi di frutta e il piatto è completato da 8 datteri, 3 da una parte e 5 dall’altra, sempre per evitare il raggruppamento a 4. Abbondanza sì, ma con un occhio alla linea.

Dopo aver sparecchiato, il festeggiamento si è concluso con un bel bicchierino di…grappa cinese!

Che ne dite? Vi piace il risultato? A casa LMJ è stato apprezzato e penso proprio che verrà replicato nell’anno del cane (:o) e in quelli a venire.

祝你 新年快乐 (Ti auguro un felice anno nuovo!)

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