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Charlotte Brontë e il luddismo di Shirley

Charlotte Brontë ha scritto in tutto quattro romanzi completi e uno completato da altri. Shirley è il secondo, pubblicato due anni dopo Jane Eyre. Sapete che Jane Eyre è il suo grande successo e anche il mio romanzo preferito. Shirley, invece? Con questa seconda prova, Charlotte Brontë si avventura nel romanzo sociale, abbandonando le atmosfere gotiche del primo libro. Anche qui, dimostrando tutta la sua maturità come donna e come scrittrice. Venite con me, vi racconto tutto. 

Trama

Yorkshire, inizio Ottocento. Shirley, giovane donna ricca e caparbia, si trasferisce nel villaggio in cui ha ereditato un vasto terreno, una casa e la comproprietà di una fabbrica. Presto fa amicizia con Caroline, orfana e nullatenente, praticamente il suo opposto. Caroline è innamorata di Robert Moore, imprenditore sommerso dai debiti, spietato con i dipendenti e determinato a ristabilire l’onore e la ricchezza della sua famiglia, minati da anni di cattiva gestione. Mentre da una parte Caroline cerca di reprimere i suoi sentimenti per Robert – convinta che non sarà mai ricambiata -, dall’altra Shirley e il suo terreno allettano tutti gli scapoli della zona…

Romanzo sociale 

Così possiamo definire questo secondo romanzo di  Charlotte Brontë. Mentre Jane Eyre era prevalentemente incentrato sulle vicende di Jane e sulla sua ricerca di un posto nel mondo, qui le nostre eroine sono immerse nella dura realtà della vita. Non che Jane non lo fosse, anzi, ma poco sappiamo del contesto sociale in cui si muovono i personaggi. Invece, in Shirley il momento storico fa da motore delle vicende e dei sentimenti umani che Charlotte Brontë ci narra. Il progresso industriale sta portando con sé un’instabilità sociale fortissima. Le macchine si stanno sostituendo agli uomini, famiglie intere rischiano di morire di fame e di non riuscire a ricollocarsi. D’altra parte, gli industriali vogliono produrre di più e a costi inferiori, non sono disposti ad ascoltare le istanze di chi chiede di rallentare. Ancora una volta, la sensibilità e la bravura di questa scrittrice emergono prepotenti. Seguiamo, certo, le vicende di Caroline, Shirley e Robert, ma fraternizziamo anche con gli operai disperati e, un po’ meno ma sì, anche con loro, i proprietari di fabbrica, che si sono accollati un debito enorme per comprare macchinari distrutti dalla furia dei rivoltosi, fenomeno che nei libri di storia è conosciuto come luddismo. 

Shirley e Caroline 

In Shirley, Charlotte Brontë abbandona le atmosfere gotiche di Jane Eyre e abbraccia nuovamente l’idea di donna forte, indipendente e originale che è il suo marchio di fabbrica. Shirley è una giovane donna ricca, che sa il fatto suo. Si interessa delle vicende sociali ed economiche che la circondano, prende parola e dà direttive, è padrona dei suoi averi e del suo tempo. E nei confronti di Caroline si pone come una sorella maggiore. Caroline è un’orfana, accolta in casa da uno zio che non le fa mancare nulla, ma che non le dà amore. Lei sta cercando il suo posto nel mondo e vorrebbe inziare a lavorare come istitutrice, per rendersi indipendente da quello zio così freddo. Solo, non è facile convincere gli altri che una donna può lavorare e mantenersi invece di aspirare al matrimonio. Matrimonio che non prende neanche in considerazione perché disperatamente innamorata di Robert. Non, però, così innamorata da non rendersi conto che la società impone a Robert una scelta basata sulla convenienza economica, che la esclude automaticamente. Shirley, invece, sì che sarebbe un’ottima compagna per lui e lei è disposta a farsi da parte. Ma cosa ne pensano gli interessati?

Forse, con un titolo diverso…

Charlotte Brontë è bravissima a coinvolgere i suoi lettori e anche stavolta il romanzo scorre via in pochissimo tempo. Cosa ne sarà di questo trio? Non posso dirvi troppo per non rovinarvi la lettura, dico solo che se Jane Eyre è il suo romanzo più famoso, e anche il mio preferito, Shirley non è meno interessante. Forse, con un titolo diverso, ma ahimè i nomi femminili all’epoca andavano di moda, avrebbe avuto più successo. In ogni caso, è sicuramente una lettura che vi consiglio.

Magari, se siete anche voi delle accanite (ri)lettrici di Jane Eyre, scrivetemi nei commenti quale dei due preferite e perché! 

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Il caso Jane Eyre – Jason Fforde

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Il delitto perfetto di Heather Graham Pozzessere

Heather Graham Pozzessere è l’ultima chicca che ho pescato dall’edicolante che vende romanzi vintage a un euro e che fa parte della collana I bestsellers Mondadori. Finora non ho sbagliato un colpo, anche questo titolo si è rivelato un suspense romance avvincente. Anche se forse l’autrice…ora vi racconto.

Trama

Cassandra Stuart è morta tra le braccia di Poseidone, il corpo trapassato dal tridente della fontana. Il caso è stato archiviato dalla polizia come un tragico incidente, ma suo marito, il noto giallista Jon Stuart, è stato oggetto di pubblica curiosità e sospetto. E ora, tre anni dopo, orchestrando un piano complesso e azzardato, ha riunito i principali indiziati sulla scena del delitto. Più Sabrina, che quel giorno non c’era, ma che Jon vuole assolutamente rivedere. Passato e presente si intrecciano, vecchie fiamme si riaccendono e un assassino trama nell’ombra…

Seminando falsi indizi

L’intreccio non è originalissimo, ma funziona sempre. Un castello scozzese del mistero, un po’ lugubre, una morte che pesa sugli invitati, personalità complesse ed enigmatiche e un assassino da far uscire allo scoperto. Ma c’è davvero un assassino? O la morte di Cassandra è stata solo un tragico incidente? E’ su questo equivoco che si gioca gran parte del libro. Heather Graham Pozzessere si diverte a prenderci in giro, a seminare falsi indizi, a terminare il capitolo con un colpo di scena e a fare marcia indietro all’inizio del successivo. Per poi riservare alle ultime pagine la soluzione del mistero.

Al lupo, al lupo!

Forse è proprio questo il difetto principale del romanzo. Il lettore di gialli è molto esigente, non ci può essere un Al lupo, al lupo! in ogni capitolo e poi un nulla di fatto. Nulla di fatto relativo, intendiamoci, perché qualcosa in effetti succede. Per quanto mi riguarda, non mi sono fatta fuorviare: ho puntato il mio cavallo all’inizio e ho vinto. Tutto sommato direi una lettura gradevole per qualche serata senza pensieri. Forse, la parte romantica tra Jon e Sabrina avrebbe potuto essere più sviluppata, come anche i complessi rapporti tra scrittori megalomani. Ma è comunque una storia che ho seguito con piacere.

Curiosità

Nel romanzo, Jon Stuart organizza il ritrovo annuale degli scrittori di thriller e mistery, durante il quale giocano a “trova l’assassino”. Nella realtà, Heather Graham Pozzessere è una delle fondatrici del Florida chapter of the Romance Writers of America e dal 1999 ospita l’annuale Romantic Times Vampire Ball per beneficenza. Nel 2006, ha ospitato il primo Writers for New Orleans in occasione del Labor Day, che è poi diventato un evento annuale. 

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Il saper vivere di Donna Letizia: consigli utili per Natale

Donna Letizia. Come comportarsi a Natale e nelle altre occasioni di festeggiamento? Scopriamolo insieme, con un pizzico di ironia. Chi segue Csaba Dalla Zorza in televisione sicuramente l’ha sentita nominare, in ogni puntata c’è un “Donna Letizia direbbe…Donna Letizia suggerirebbe…”. Ma chi è Donna Letizia? Ho scelto di parlarvi di lei per l’Avventolibroso21, una bella iniziativa cui sto partecipando, organizzata da Readbookswith Mar, che ringrazio. Perché l’ho scelta? Perché penso che alcuni consigli siano utili anche per noi, visto che tra qualche giorno ospiteremo qualcuno o saremo ospiti per Natale. Seguitemi nella lettura e quest’anno saremo impeccabili: parola di Colette Rosselli.

Il saper vivere

In questo momento, il vintage mi sta appassionando particolarmente. Come sapete, nel BookClubPeC stiamo leggendo Liala, mentre oggi vi parlo di Colette Cacciapuoti Rosselli. Quest’ultima è stata una scrittrice, illustratrice e pittrice italiana e, come Liala, teneva una  rubrica seguitissima di bon ton, Il saper vivere, prima su Grazia e poi su Gente. Per Liala, invece, fu addirittura creata una rivista, Le Confidenze di Liala, oggi solo Confidenze, dove lei stessa dava consigli alle lettrici. 

Il galateo di Donna Letizia

Donna Letizia era la potenza suprema del galateo. A lei si affidavano milioni di lettrici italiane per non sbagliare un colpo in ogni aspetto della vita sociale. Il saper vivere è un compendio che viene pubblicato ancora oggi da Mondadori ed è considerato una sorta di bibbia, perché al netto di alcune accortezze oggi ormai superate, rimane una buona guida da seguire nei momenti di incertezza. Donna Letizia spazia veramente in tutti i campi della vita privata, dal battesimo al lutto, passando per fidanzamento, matrimonio, inviti, viaggi, corrispondenza e chi più ne ha più ne metta. Curiosamente, manca del tutto la parte relativa al bon ton da tenere sul posto di lavoro. Ma forse, non era la donna lavoratrice il suo target. Oggi mi limito a darvi qualche indicazione sugli aspetti delle festività natalizie che ci preoccupano terribilmente. Sì, confessiamolo, anche chi vive nella modernità più spinta, di fronte alla tovaglia e ai regali, un attimo di tentennamento ce l’ha. Siete d’accordo? E allora proprio di questo vorrei parlarvi: la tavola e i regali. Come comportarsi a Natale e nelle altre occasioni di festeggiamento? Scopriamolo insieme.

Partiamo dalla tavola

Ma ancora prima, partiamo dall’invito. Se ci hanno invitato a pranzo o cena, dobbiamo presentarci all’ora esatta indicata, è consentito solo un ritardo di qualche minuto. “La padrona di casa sarà già in salotto quando arriverà il primo ospite”.

La tavola

Se avete organizzato un pranzo, la tavola deve essere guarnita di fiori. “Centri da tavola, candelabri, zuppiere antiche sono più indicate la sera”. Il formaggio non va mai servito la sera, mentre il caffè si serve in salotto. A mano a mano che gli ospiti arrivano, la padrona di casa serve gli aperitivi. Che devono essere moderati, “dovrebbero, in teoria, stuzzicare l’aperitivo, ma in realtà lo addormentano, a detrimento del pasto che segue”. Quando gli ospiti saranno tutti arrivati, ci si può accomodare a tavola. Già, ma come? 

Segnaposti e posti a tavola

Se gli ospiti sono più di sei, è meglio posizionare dei cartellini segnaposti con i nomi degli invitati. I padroni di casa siedono uno di fronte all’altra, la padrona di casa avrà l’invitato più anziano e più importante alla sua destra, alla sua sinistra quello che lo segue immediatamente in anzianità e importanza. Stessa cosa, il padrone di casa, con l’invitata più importante e quella che la segue immediatamente, nella stessa disposizione. “I celibi e le persone di famiglia vanno messi nei posti più lontani dai padroni di casa. Ma è ovvio che non si metterà in fondo alla tavola la suocera o qualche parente anziana”. Ai pranzi di famiglia i ragazzi siedono in fondo alla tavola. Se sono presenti quattro suoceri, il padrone di casa avrà alla destra la suocera e alla sinistra la madre, stessa cosa la moglie. Se chi invita è celibe, il posto della padrona di casa, di fronte a sé, sarà preso dalla signora che intende onorare.

L’apparecchiatura

Le posate vanno sempre messe ai lati dei piatti, secondo l’ordine in cui verranno usate. Le più lontane dal piatto sono quelle da usare per prime. Coltello, con la lama rivolta verso il piatto, e cucchiaio alla destra, alla sinistra le forchette. Le posate da dessert vengono poste orizzontalmente, davanti al piatto: forchettina con i rebbi a destra, coltello o cucchiaino con lama a sinistra. I bicchieri saranno due, da acqua il più grande e da vino, alla destra del piatto in quest’ordine. Se ci sono due vini, uno rosso e uno bianco, per il rosso si userà un bicchiere medio e per il vino bianco uno più piccolo e verranno posizionati in questo ordine. Per ultimo, l’eventuale bicchiere per il vino da dessert, o la coppa, se viene servito spumante o champagne.

I vini

I vini ordinari possono essere serviti nella caraffa. I vini pregiati, invece, devono essere lasciati nelle loro bottiglie, come l’acqua minerale. Lo champagne deve essere ghiacciato e aperto solo al momento di servirlo. Il vino bianco verrà servito fresco se dolce e ghiacciato se secco, i vini rossi alla stessa temperatura della casa. Senza complicarci la vita inutilmente con i vari abbinamenti vini-pietanze, ricordiamo solo la regola aurea: bianco con il pesce, rosso con la carne.

I dilemmi

Anche se abbiamo fatto tutto bene, al momento X, cioè quello di sedersi a tavola, ecco che i dubbi cominciano ad attanagliarci e quella maglia sul collo ci sembra più stretta di quanto non fosse fino a un momento prima. Ma non preoccupatevi, c’è Donna Letizia a salvarci dall’imbarazzo! Ecco qualche pillola di saggezza, che verrà in soccorso anche dei più distratti.

I gomiti e le mani

“I gomiti devono sempre essere accostati al corpo e le mani, nei momenti in cui non maneggiano posate, non vanno mai abbandonate in grembo. Non agitatele sotto al naso del vicino di tavola, nel corso di una discussione, e non invadete la sua zona con gesti bruschi e sgraziati che possano disturbarlo mentre mangia”.

Il coltello

“Il coltello deve essere tenuto nella destra senza che l’indice oltrepassi il manico e tocchi la lama. Tenere il coltello come una penna stilografica è maleducazione. Il coltello non deve mai essere portato alla bocca (ma occorre dirlo?), né adoperato per tagliare uova, verdure, patate e, soprattutto, il pesce per il quale esistono apposite posate”.

Il cucchiaio e la minestra

La minestra è una di quelle portate che personalmente eviterei, ma Donna Letizia ha suggerimenti anche per chi è così temerario da servirla: “il cucchiaio viene introdotto di punta in bocca. Ma ciò non vuol dire, beninteso, che lo si debba inghiottire fino al manico. E’ tollerato che arrivati agli ultimi cucchiai di minestra, si sollevi appena il piatto, inclinandolo verso il centro della tavola. Assolutamente proibito, invece, soffiare sulla minestra per raffreddarla.”

La forchetta

“La forchetta si tiene con le punte in su quando è nella destra. Quando è nella sinistra, con il coltello nella destra, la forchetta ha le punte in giù”. Il passaggio che segue è fondamentale, perché lo sbagliano praticamente tutti. “Quando si interrompe il pasto per conversare, si incrociano le posate, col manico sul bordo: non devono mai toccare la tovaglia. Alla fine, vanno appoggiate sul piatto perpendicolarmente all’orlo della tavola, con i manici verso il commensale”.

Il bicchiere

“Si beve a piccoli sorsi. Le signore badano a non lasciare sbavature di rossetto sui bordi, e soprattutto non arricciano il mignolo a coda di volpino. Posato il bicchiere ci si asciuga leggermente la bocca. Anche in questa circostanza, le signore fanno in modo di non stampare le labbra sul tovagliolo. Non si alza mai il bicchiere verso chi ci sta versando da bere. Non lo si copre con la mano per rifiutare: basterà un lieve cenno negativo.”

Il tovagliolo

“Lo si spiega parzialmente, ottenendo una striscia lunga che viene distesa sulle ginocchia. Non lo si ripiega mai a fine pasto, ma lo si posa alla sinistra del piatto al momento di alzarsi.”

Il pane e i grissini

Non si taglia mai il pane col coltello. Si spezza,  mano a mano, ogni boccone, possibilmente con la sola sinistra.  Questo vale anche per i grissini. Non si sbriciola il pane sulla tovaglia, non si gioca con la mollica, non si riduce il proprio posto come il piancito di un pollaio. Se, per qualche ragione, non si desidera mangiare la mollica, la si toglie pulitamente mettendola da parte. Mai nel piatto in cui si mangia.”

La salsa nel piatto 

La famosa scarpetta, si fa o non si fa?  Di regola, no. “Solo in famiglia è ammesso raccoglierla con dei pezzetti di pane, purché ci si serva della forchetta e non delle dita, e purché, procedendo a questa operazione, non ci si comporti come se si passasse lo spazzolone della cera su un pavimento.”

Il formaggio

Pentitevi voi che avete sempre usato la forchetta. “Normalmente lo si mangia col solo coltello. Se ne taglia un pezzetto, lo si appoggia con il coltello su un bocconcino di pane e si porta tutto alla bocca”. C’è speranza solo se mangiate certi formaggi “come la ricotta, il mascarpone, e alcune specialità francesi, più somiglianti a dessert che a formaggio”.

Il dolce

“Il dolce si mangia con la forchetta se è solido, con il cucchiaio se è liquido. Nell’incertezza, meglio preferire la forchetta. In caso di necessità, ci si può servire di tutt’e due le posate, per spingere con la forchetta i pezzetti di dolce nel cucchiaio”.

La frutta

La frutta è complicatissima, io proporrei di saltarla a piè pari. Sentite questa: “non si sceglie, si prende quella pera o il grappolo d’uva più a portata di mano. Pere, mele e pesche devono essere tagliate in due o quattro sezioni: ognuna di queste viene infilata nella forchetta e sbucciata col coltello. i semi d’arancia, i noccioli di ciliegia, di prugna, ecc. devono essere sputati nella mano chiusa a cartoccio e deposti nel piatto. I noccioli della frutta cotta, invece, vengono sputati nel cucchiaio o forchetta, appoggiata contro le labbra, e deposti sul bordo del piatto. Le banane devono essere sbucciate con le dita e il coltello. Si mangiano con la forchetta. L’uva viene presentata a piccoli grappoli, in modo da evitare a chi si serve la difficile operazione di dividere in due un grappolo troppo grosso”. L’arancia è un altro dramma. “Si sbuccia col coltello, tenendo il frutto nella mano sinistra. Se l’arancia si presenta ‘facile’ gli spicchi vengono portati alla bocca con le dita. Se l’arancia è molto sugosa e matura la si mangia con la forchetta e il coltello”.

Lo stuzzicadenti

“L’uso degli stuzzicadenti è proibito alle signore, e sconsigliabile agli uomini. Se non sono in tavola non si devono mai richiedere. Se ci sono, si adoperano solo in caso di assoluta necessità: in ogni modo, se ne fa uso con discrezione, cercando di evitare smorfie, ma anche senza coprirsi con ostentazione la bocca.”

I regali

Sui regali, bisogna spendere qualche parola. Per quanto mi riguarda, provo costantemente la tentazione di rinunciare, soprattutto quando, e succede quasi sempre, mi riduco all’ultimo minuto. Cosa scegliere? E piacerà? E quelli che fanno a me? Riuscirò a trattenere una smorfia di delusione? Anche qui, Donna Letizia ci viene in soccorso.

Se devi scegliere un regalo

“Deve tener conto delle preferenze di chi lo riceve. Se il donatore manca di competenza farà bene a non avventurarsi da solo nei negozi: preghi piuttosto un’amica di gusto sicuro di accompagnarlo e di aiutarlo con i suoi consigli”. Donna Letizia poi prosegue: scegliete i regali con tatto, niente di costoso a un amico ricco e niente cianfrusaglie a un’amica modesta, entrambi reagirebbero con imbarazzo. I regali non devono dare “messaggi” che mettano chi li riceve in una brutta posizione. Mai fare regali a un superiore sul posto di lavoro (brutta abitudine che oggi, invece, abbiamo) e mai ringraziare con un regalo la persona che ci ha fatto un favore. E ai ragazzi? “Nulla deprime di più i ragazzi che i regali utili: calzini, fazzoletti, guanti, vengono accettati con disappunto. Le bambine, invece, gradiscono tutto ciò che fa parte dell’abbigliamento”.

Se ricevi un regalo

Come si comporta la persona che riceve un dono? “Svolge subito il pacco e ringrazia calorosamente. Se invece del costoso profumo che si aspettava, la signora si ritrova con una scatola di marron glacés saprà dominarsi ed esclamare: ‘ma come ha fatto a indovinare che sono così golosa?’ Attenzione, però: non sempre il pacco deve essere aperto subito. Quando non tutti gli invitati si sono presentati con un regalo, per esempio, “ci si dovrà limitare a ringraziare in sordina il donatore, aggiungendo che si aprirà il pacco non appena possibile”, altrimenti profondersi in esclamazioni di gioia suonerebbe come un rimprovero a chi si è presentato a mani vuote. E poi, ricordatevi quello che dice Marie Kondo: il regalo esaurisce la sua funzione nel momento in cui ringraziate per averlo ricevuto, siamo tutti autorizzati a farne quello che vogliamo.

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Vera, di Elizabeth von Armin, tra modernità e ironia la condizione della donna

Vera è il primo romanzo di Elizabeth von Armin che leggo, a detta della stessa autrice quello che meglio la rappresenta. Perché in questa storia di rapporto coniugale c’è molto della sua vita “vera”, anche se la sua scrittura brillante fa emergere fin dall’inizio l’archetipo dell’amore malato. Mi piacerebbe aggiungere “che affliggeva le donne nel passato”, ma in realtà è una condizione ancora ben presente nella società attuale. Di Vera, e delle donne come lei, possiamo leggere tutti i giorni sul quotidiano, il più delle volte per commentare con un rip, aspettando la prossima.

Trama

Lucy Entwhistle, ventiduenne ancora un po’ bambina, e Everard Wemyss, bell’uomo maturo, sono entrambi in lutto quando si incontrano per la prima volta: lei ha appena perso l’adorato padre, lui la moglie Vera. Consolandosi a vicenda, finiscono per innamorarsi e si sposano in fretta. Dopo le nozze vanno a vivere nella casa di lui, un luogo intriso di rituali dove aleggia lo spettro della prima moglie Vera, scomparsa in circostanze misteriose. Ed è fra queste mura che Lucy comincia a chiedersi: cos’è successo davvero a Vera?

Un uomo semplice 

La morte di Vera è stata accidentale, questo Everard racconta a Lucy. E perché lei non dovrebbe crederci? E’ sempre vissuta protetta dal padre, il suo scudo, il suo filtro per capire il mondo. Certo, il padre e i suoi amici facevano discorsi che Lucy non riusciva a comprendere del tutto, se non dopo le spiegazioni dell’adorato papà. Invece, Everard è un uomo semplice, che parla in modo semplice, che è deciso a vivere la vita secondo le sue granitiche convinzioni. Everard è un’ottima spalla cui appoggiarsi, ora che suo padre non c’è più. Perché, però, l’adorata zia, la sorella del padre, arguta come lui, non lo considera un buon partito per la sua preziosa nipote? Anche la zia non saprebbe dire perché, ma c’è qualcosa in quell’uomo che lei proprio non riesce a digerire.

 Semplice e indigeribile

Segnatevi queste parole, se deciderete di leggere il romanzo: semplice e digerire, perché solo la chiave per interpretare lo svolgimento dei fatti. Everard è un uomo tutt’altro che semplice; piuttosto, è “uno scolaro bisbetico, che si comportava da maleducato; ma sfortunatamente, uno scolaro dotato di potere“. E anche se “Lucy scoprì che il matrimonio era diverso da come l’aveva immaginato. Anche Everard era diverso. Tutto era diverso”, c’è ben poco che il/la partner con la posizione più debole possa fare. Soprattutto una ragazza immatura come Lucy, abituata alla gentilezza e alla protezione del suo piccolo mondo familiare. Per una ragazza come Lucy, è facile convincersi di essere nel torto: “Lizzie era via da neanche cinque minuti che Lucy era già passata dall’infelicità e dallo smarrimento al giustificare il comportamento di Everard; nel giro di dieci minuti ebbe ben chiare le buone ragioni per cui si era comportato in quel modo; in capo a un quarto d’ora si era addossata tutta la colpa per gran parte di ciò che era successo.”

I salici (piangenti)

Ora, saremmo tutti portati a dire che la soluzione sia in fondo semplice. Il marito si rivela per quello che è, manipolare, egocentrico, uno che fonda i suoi rapporti sul terrore e la sottomissione, mascherando la dittatura con un linguaggio lezioso e improponibile passati i quindici anni di età (e forse anche prima), esprimendosi a più riprese con cuoricino, gattina, sciocca scemottina, e amenità di questo genere. La residenza di campagna in cui Lucy si ritrova, The willows, I salici piangenti non a caso, è a sua immagine e somiglianza, ci sono delle belle pagine in cui Elizabeth von Armin induce nel parallelismo tra casa e padrone. Padrone, sì, perché ovviamente il proprietario incontrastato è solo lui. Anche i domestici, sono testimoni silenziosi, molto silenziosi, dei suoi atteggiamenti. Perché lui ha il potere, il potere di pagare profumatamente il loro silenzio. Tanto che l’unica alleata per Lucy diventa proprio…Vera, la prima moglie di Everard, che pervade tutta la casa con il suo spirito. Però siamo sinceri, quante donne ancora oggi sopportano in silenzio senza reagire? Oppure reagiscono, e finiscono per essere maltrattare proprio da chi dovrebbe proteggerle? E cosa dovremmo aspettarci da una fanciulla di inizio novecento? Che coraggiosamente divorzi?

Modernità e ironia

Come finirà? Non ve lo dico, gustatevi la lettura. Dico solo che forse il finale non è poi così importante. O forse sì, dipende dai punti di vista. Quello che conta, a mio avviso, è la modernità con cui Elizabeth von Armin affronta un tema da lei probabilmente vissuto in prima persona. Con il coraggio e la forza di uscirne, vivendo una vita piena e indipendente dopo due matrimoni disastrosi. E l’ironia con cui lo affronta, spezzando i toni cupi della tortuosa vicenda matrimoniale. Tipicamente inglese è il suo gusto per i particolari, apparentemente insignificanti, che tratteggiano un’epoca. In alcuni punti, quando a parlare sono i domestici, ho sentito l’eco di Quel che resta del giorno, di Kazuo Hishiguro, scritto decenni dopo. Nell’atmosfera generale, nell’ambientazione e nella figura femminile che dà il nome al romanzo, indubbiamente Rebecca, di Daphne Du Maurier. La quale certamente conosceva questo romanzo, sono sicura, giungendo a conclusioni diametralmente opposte, però. Come sapete, Daphne Du Maurier è stata accusata a più riprese di plagio per Rebecca, ma da Elizabeth von Armin posso dire che ha preso solo spunto, nient’altro. Mentre Elizabeth von Armin conosceva e apprezzava Cime tempestose di Emily Brontë, che fa comparire in braccio a Lucy nel momento più opportuno. Ed era la cugina di Katherine Mansfield: poco ma sicuro che le due cugine sugli uomini la pensassero nello stesso modo!

***
Intanto, chiedo a voi: avete letto qualcosa di Elizabeth von Armin? Quale titolo vi è piaciuto di più?

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Romancè, puntata 5: Il caffè della Peppina

Romancè, il 14 luglio 2021: il caffè della Peppina

La perpetua, una canonica, un prete ammazzato. Gli elementi per il giallo classico all’inglese. c’erano proprio tutti. Se non fosse stato per quel caldo bestia insopportabile, che era incompatibile con un’ambientazione anglosassone.

“Sarà come dice Agatha Christie, che il male si nasconde sotto il sole, ma almeno lì possono investigare senza ascelle pezzate”. Solo la belloccia era sempre profumosa, con qualsiasi temperatura. Come diavolo facesse, per lui era un mistero.

“Ecco qui, un bel caffè caldo caldo per i nostri ispettori”, cinguettò la perpetua, poggiando sul tavolino basso davanti a loro un vassoio. Sembrava essersi ripresa in un nanosecondo dallo choc. E siccome la perpetua è il maggiordomo dei parroci, questo la faceva entrare dritta dritta nell’elenco dei sospettati. Che per ora comprendeva solo lei. Ma era un dettaglio. Se non altro, aveva abbandonato l’idea del tè fumante.

“Zucchero?”. La belloccia si limitò a fermarla con la mano, lo zucchero era bandito dalla sua dieta. E dalla sua vita, ci avrebbe scommesso.

“Sì, grazie, un cucchiaino”. Si sforzò di sorriderle mentre gli porgeva la tazzina, indeciso tra un frollino e un canestrello. Frollino, decise alla fine, fa più colazione.

“Dicevamo, ieri sera ha sentito il parroco che si muoveva per la canonica intorno alle 23. Non l’ha visto, ma l’ha riconosciuto da una camminata particolare, è corretto?” Belloccia era partita a razzo, dopo aver trangugiato il liquido, sicuramente senza neanche sentire il sapore.

“Sì”, annuì la perpetua con convinzione. Era anziana, ma sembrava sicura del fatto suo. Più o meno come lui col frollino, ben attento a non inzupparlo nel caffè per evitare che si sbriciolasse sulla camicia.

“Come fa a essere sicura dell’orario?”

“Ho una radiosveglia accanto al letto. Stavo leggendo per farmi venire sonno, quando ho sentito il don che camminava nel corridoio e la porta che si chiudeva. Lei è ancora giovane, ma sa, a una certa età farsi venire sonno è sempre più difficile. Comunque, stavo quasi per appisolarmi, quando il rumore dei passi mi ha ridestato”. Belloccia annuì, comprensiva. Incredibile, lui dubitava che dormisse, le funzioni primarie a lei non servivano.

“Ha sentito la porta che si chiudeva? E’ sicura? Non è possibile che si aprisse?”

“Assolutamente. Si chiudeva. Ho sentito distintamente i passi avvicinarsi, poi allontanarsi e la porta che si richiudeva”.

“Com’è precisa”, commentò Belloccia, parlando sempre col taccuino. “Bene, testimoni come lei sono sempre preziosi”, aggiunse regalando uno dei suoi rari sorrisi. Quando Belloccia rideva, il mondo s’illuminava. E il testimone si rilassava immediatamente. L’aveva vista usare quella tecnica mille volte. Che iena, poveraccio il fidanzato, se ne aveva uno. La vita privata di belloccia era top secret.

La perpetua non fece eccezione, come ampiamente previsto.

“Sa”, si era avvicinata leggermente col busto con fare cospiratorio, “sono un’amante della serie di Padre Brown, la conosce? Oh, quanto mi piace, guardo anche i film alla tv.” Perfetto, l’amante di Padre Brown, cento euro che si sarebbe messa a indagare per conto suo.

“Speriamo che Padre Brown non faccia una brutta fine, hahaha!”, se ne uscì alla cazzum, tanto per far notare la sua presenza. Belloccia e la perpetua non la presero benissimo.

“Non ha sentito la porta che si apriva?”

“Come dice, mi scusi?”. La perpetua sembrava disorientata dal modo in cui Belloccia pungolava. Pensava che tra detective ci fosse più complicità.

“Come mai non ha sentito la porta che si apriva? Sarebbe potuta uscire e chiedere subito al don se gli servisse qualcosa. Perché non l’ha fatto? Eppure, dice di aver sentito distintamente i passi in corridoio e la porta che si richiudeva”.

“Oh, be’, non era certo la prima volta che il don usciva dalla sua stanza senza avvisarmi. In fondo, anch’io ho un orario di lavoro e lui l’ha sempre rispettato, per mia fortuna. Non tutti sono così, c’è chi pretende che siamo sempre a disposizione, notte e giorno. Senza sottintesi, è chiaro. L’altra sera non so, ho sentito il bisogno di chiedergli se avesse bisogno di qualcosa. Povera me, ora che mi ci fa pensare, forse ho avuto un presentimento…”. La puerpera si nascose dietro un fazzoletto per lacrimare. O per nascondere il tremito delle mani.

“Dopo tanti anni di servizio, si diventa ipersensibili”. La Belloccia si riferiva al finto presagio o alle finte lacrime?

“Comunque, per ora abbiamo finito. Si tenga a disposizione. E grazie per il caffè”.

“Certo, certo, vi accompagno”. La perpetua sembrava fin troppo contenta di accompagnarli all’uscita.

Fuori dalla chiesa, si era radunata una piccola folla. Lui aggrottò la fronte in un disperato tentativo di sembrare cattivo a vantaggio dei fotografi. Belloccia, fotogenica di suo, si guardò intorno con apparente disinteresse, dietro gli occhiali da sole non si capiva esattamente se volesse mostrare profilo destro e sinistro per gli scatti o se semplicemente non sapesse da che parte guardare.

“La perpetua ha mentito”, fece lui, tanto per darsi un tono.

“Ma certo. Non era nella sua stanza quando il prete è uscito. Le va un caffè come si deve? Offro io”.

In momenti come quello, Belloccia era quasi una buona compagnia. Soprattutto perché, dietro gli oblò neri che li nascondevano, due occhi freddi avevano registrato i presenti. E notato, lì in mezzo, qualcosa che ancora doveva depositarsi nella mente. Sapeva che, a tempo debito, quel particolare sarebbe riemerso da chissà dove…

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Romancè, puntata 1: In religioso silenzio

Romancè, puntata 2: La verità non ti piace abbastanza

Romancè, puntata 3: Sangue in canonica

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