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Jessica Au, Tempo di neve e quel rapporto madre-figlia

Jessica Au fa il suo esordio nella narrativa con questa novella, Tempo di neve, il racconto di quel filo sottile che unisce madri e figlie. O meglio, di quei nodi che lo piegano e sfilacciano. Il risultato è una serena riflessione su ciò che siamo, su chi ci ha fatto diventare ciò che siamo e su chi saremmo potuti essere, se solo non fossimo il prodotto delle nostre esperienze e dell’ambiente in cui siamo cresciuti. Vi ho detto diverse volte che i libri spesso ti vengono a cercare. Ecco: questo è decisamente un libro che mi è venuto a cercare. Di cui avevo bisogno in questo momento, in un certo senso.

Trama 

Una figlia e sua madre, che vivono da tempo lontane, si danno appuntamento nella capitale giapponese. Non è un viaggio come gli altri: questo ha l’aspetto di un addio. Così come la giovane regola il diaframma della sua Nikon per fissare l’immagine dell’anziana donna per sempre, allo stesso modo è costretta a scegliere quali dettagli del loro rapporto mettere a fuoco e quali invece lasciar galleggiare in superficie e poi disperdere, come sull’acqua increspata dei canali della città. Le due condividono ciotole di noodles fumanti in minuscoli ristoranti, visitano mostre e fanno del loro meglio per evitare che la pioggia di ottobre rovini i loro programmi. Ma rifugiarsi nei ricordi non è sufficiente quando ci si trova in un corpo a corpo privato di ogni traccia di intimità e possibilità di avvicinamento. Qual è allora il significato di questo errare fianco a fianco?

Il viaggio comincia

Era mattina presto e la strada era piena di gente, la maggior parte lasciava la stazione anziché entrarci, come facevamo noi. Per tutto il tempo mia madre restò al mio fianco, quasi temesse che se ci fossimo separate il flusso della folla, come una corrente, ci avrebbe impedito di tornare l’una dall’altra, mandandoci sempre più alla deriva e allontanandoci ancora e ancora. 

E’ la narratrice, la figlia, a raccontarci perché madre e figlia prendono due voli diversi per ritrovarsi in Giappone. All’inizio dell’anno le avevo chiesto di venire con me in Giappone. Ormai non vivevamo più nella stessa città, e non eravamo mai state via insieme da quando ero adulta, ma iniziavo a rendermi conto che era una cosa importante, per ragioni a cui non ero ancora in grado di dare un nome. Avevo scelto il Giappone perché…forse sentivo che che ci avrebbe messo in una situazione di parità, che saremmo state entrambe straniere. 

Per ragioni a cui non si sa dare un nome

Essere figli non è facile. O meglio, non è sempre facile. C’è un passato con cui fare i conti, un passato che non è il tuo, ma che è presente anche quando non vorresti. Jessica Au spiega in questo passaggio quali sono le ragioni cui non sa dare nome. Una volta io e Laurie (il compagno) avevamo scherzato sulla mia frugalità, sul fatto che finivo sempre gli avanzi di ogni pasto, anche se non avevo più fame, perché non potevo sopportare di vedere il cibo andare sprecato. All’epoca avevo scherzato anch’io, ma non avevo replicato che era la frugalità di mia madre che imitavo, non la mia.

Tempo di neve

In questo loro pellegrinaggio per il Giappone, le due donne cercano una sintonia che probabilmente non hanno mai avuto. Figlie di epoche diverse, di tradizioni diverse, di mentalità distanti. Una donna moderna una, un’emigrata mai perfettamente integrata l’altra. Eppure, durante questo viaggio, di fronte ai quadri o davanti a un tè, senza quasi parlare, madre e figlia imparano a sintonizzarsi sull’altra. O meglio, è la figlia che forse lascia andare la figura materna. Il tutto è pervaso da un senso attutito di perdita, di ultimo incontro, di pensiero su quello che verrà dopo. Il senso attutito della neve, che è nell’aria, ma non cade. E che la madre vorrebbe tanto vedere per la prima volta, anche se sappiamo, chissà come e chissà perché, che non la vedrà mai.

Camminando nella neve

Una novella che mi ha preso, pagina dopo pagina. Che mi ha trasmesso un senso di pace, di tranquillità, come se davvero stessi camminando nella neve e, intorno, silenzio. Avrei voluto che Jessica Au continuasse. Che quella madre così silente trovasse una sua voce. Che non si sentisse troppo l’ineluttabilità della fine. Ma ho adorato il finale, anche se temo che nella traduzione italiana si sia perso il simbolismo delle scarpe (SPOILER in fondo al post). Voglio adottare il punto di vista della narratrice: Esausta e confusa, pensai che forse era giusto non capire tutto, ma limitarsi a vedere le cose e a trattenerne le impressioni. Anche perché Forse è un bene fermarsi di tanto in tanto a riflettere sulle cose che sono successe, pensare alla tristezza potrebbe anche finire per renderti felice.

***

Mentre procedevamo mi chiese del mio lavoro. All’inizio non risposi, poi le spiegai che in molti dipinti antichi si poteva scoprire quello che veniva chiamato un pentimento, uno strato precedente di qualcosa sopra cui l’artista aveva scelto di dipingere altro. Dissi che in questo senso la scrittura era molto simile alla pittura. Solo in quel modo si poteva tornare indietro e cambiare il passato, rendere le cose non com’erano, ma come avremmo voluto che fossero o, piuttosto, come le percepivamo. Aggiunsi che, per quel motivo, era meglio non si fidasse di ciò che leggeva. 

Attenzione, SPOILER: nella versione italiana, si perde il simbolismo delle scarpe. La figlia aiuta la mamma a infilarle, non ad alzarle. In Cina, infilare le scarpe significa intesa reciproca. Quello che la figlia aveva bisogno di trovare.

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Doireann Ní Ghríofa e Un fantasma in gola

Prenditi cura di mamma, di Shin Kyung-Sook

Margaret Atwood e l’infelicità con l’uomo

Margaret Atwood è una delle autrici viventi più quotate e da poco è stato stampato uno dei suoi primi lavori, La vita prima dell’uomo. Io l’ho ribattezzato “L’infelicità con l’uomo”, perché la lettura di questo romanzo certo non risolleva l’animo e la fiducia nel genere umano. Adesso vi racconto.

Trama

Una coppia apparentemente moderna, libera, aperta: lei, Elizabeth, colleziona amanti senza che Nate, suo marito, ne soffra veramente; lui stesso frequenta una donna, ma questo non compromette, anzi sembra cementare, la loro unione. L’essenziale, dopotutto, è «poter contare l’uno sull’altra». Ma quando il suo ultimo amante si suicida e Nate intreccia una relazione con una giovane paleontologa, il mondo di Elizabeth sembra crollare, e la donna viene assalita da domande esistenziali alle quali non riesce a dare risposta. Nate, per parte sua, non sa scegliere tra le due donne, con l’unico risultato di rendere entrambe infelici…

Il triangolo no

Il triangolo no, non l’avevo considerato, cantava Renato Zero. Invece, Margaret Atwood lo considera e ne fa il centro di questa storia, in cui il lettore si trova a sbirciare dallo spioncino della porta la vita di una coppia sposata e degli amanti che si affaccendano intorno. In un’atmosfera apparentemente tranquilla, eppure densa di rabbia repressa, risentimento, insoddisfazione, infelicità. Un’unione apparentemente solida, che naufraga nel tran tran quotidiano e nella noia. Apparentemente i due non se ne accorgono, o fanno finta di non rendersene conto. Forse, aspirano a rimanere quello che diventano molte coppie col passare degli anni: dei conviventi che crescono insieme le figlie, mantenendo vite separate. Senonché, una tragedia interrompe questo binario verso il nulla.

Indifferenti e civili

Il suicidio di  Chris costringe Elizabeth, Liza, a mettersi di fronte a uno specchio, dove quello che vede non le piace. Come non è piaciuto a me, nonostante gli sforzi di Margaret Atwood di dare delle giustificazioni riferendosi al passato molto difficile della protagonista. Elizabeth non mi piace: la trovo fredda, egoista, cattiva. Ho fatto come Nate, “Ho rinunciato a interrogarmi sulle sue ragioni. Non capisco mai perché fa una certa cosa”. Più avanti il perché si capisce, certo, da anni ormai Elizabeth usava tutta la sua energia per salvare se stessa”. La stessa energia che deve usare il lettore per andare avanti nella lettura. Nate, Elizabeth e Lesje sono tristi, tristi dentro. Chi per un motivo, chi per l’altro, non prendono in mano la propria vita. Pensano che comportarsi in modo civile sia sufficiente per andare avanti. Il che rende assordante la mancanza di civiltà che invece regola i loro rapporti nel profondo. Sembra quasi una replica in salsa canadese de Gli indifferenti, mi perdoneranno il paragone ardito i fan di Margaret Atwood. I quali fan dicono che in questo lavoro il tratto è ancora un po’ acerbo. Mi fido, non ho ancora termini di paragone per poter dire la mia. E’ però un’avvertenza che mi sento di dare a chi deciderà di leggerlo: tenete presente che è una Margaret Atwood agli esordi. La mia speranza è che la sua fiducia nel genere umano sia cresciuta col tempo. Chi la conosce bene mi saprà dire. 

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Nell’intimità di Hanif Kureishi: andare o restare?

Nell’intimità di Hanif Kureishi: andare o restare?

Hanif Kureishi era appena arrivato a Roma per trascorrere il capodanno con la sua compagna, quando ha avuto un malore. Ora è ricoverato in una clinica della capitale, nella speranza che riesca a riprendersi completamente. Nel frattempo, allieta le nostre giornate a colpi di tweet, facendo partecipi i lettori non solo del dramma che sta vivendo, ma anche dei suoi pensieri e delle sue riflessioni sulla vita in generale. Un po’ come fa Jay, il protagonista di questo breve romanzo. Jay deve e vuole prendere un’importante decisione: andare o restare? Ha una lunga notte davanti a sé per decidere.

Trama

È una notte lunga per Jay: ha deciso di lasciare la compagna e i suoi due figli, dopo anni trascorsi tra litigi e riappacificazioni. Mentre si prepara ad abbandonare la sua casa, non può fare a meno di ripensare alla sua vita, di rivivere le trasgressioni dell’adolescenza, i sogni mai realizzati e la paura delle responsabilità. Gli amori passati, gli amici, scorrono davanti ai suoi occhi come in un film, mettendo a nudo tutte le sue debolezze. È davvero deciso ad abbandonare la noiosa tranquillità quotidiana, rischiando l’affetto dei figli? Riuscirà a chiudersi dietro le spalle quella porta e diventare un altro uomo? L’alba è vicina, non c’è più tempo per continuare a guardare dentro se stesso e scegliere se non voltarsi più indietro.

Come un detective

Avrò bisogno di penne e carta nel mio viaggio. Non voglio privarmi di qualche importante emozione. Inseguirò i miei sentimenti come un detective, cercando gli indizi del delitto, scrivendo mentre mi leggo dentro. Esigo un’onestà assoluta, il che non significa semplicemente dire a me stesso quanto io sia orribile. E così inizia il percorso del lettore dentro la testa di un uomo che deve decidere, nello spazio di una notte, cosa fare della sua vita e della sua famiglia. Con un precedente pericoloso nella famiglia d’origine: Mia madre voleva andarsene. Invece restava; doveva sempre restare. Ma dentro di lei era in fuga: da me, da tutti noi. “I bambini ti impediscono di vivere”:ecco cosa ci diceva la sua infelicità. “O loro, o tu”. Forse, è proprio questa lacerazione materna che ha fatto di lui l’adulto cinico e razionale che è oggi: “Il sogno, o l’incubo, della famiglia felice ci perseguita; è una delle poche idee utopistiche di questi tempi”. 

Alla ricerca della felicità

Nel cinismo, fa breccia quel sentimento che accomuna gli esseri umani più di quanto pensino, la ricerca della felicità. Lo stallo emotivo che lo attanaglia si trasforma in una depressione strisciante.   “Comunque io ho perso il gusto per la vita. Sono apatico, e per la maggior parte del tempo non voglio nulla, tranne capire perché qui dentro sia scomparsa la felicità. È così per tutti? È tutto ciò che si riesce a ottenere? È il massimo che si può avere?”. Neanche il pensiero dei figli gli è di aiuto, infatti non li chiama mai per nome, come se si preparasse mentalmente al distacco, nonostante affermi di aver bisogno del contatto con i figli. “Abbiamo bisogno l’uno dell’altro, il tipaccio e il bambino. Se sto fuori per qualche giorno, in viaggio o a fare niente da qualche parte, e vedo bambini dell’età dei miei figli per strada o in un ristorante, avverto il panico della separazione, e non riesco a capire perché non sto con i miei figli. Al ritorno mi accorgo di quanto siano cambiati. Non voglio perdermi un momento di loro. Non solo per il bene del loro futuro, ma per il presente: per questo momento, che è tutto quello che c’è. E’ sempre a loro che penso prima di addormentarmi. E sto per andarmene”. Anche su questo tema così sensibile, però, non può evitare una deriva egoistica: “Poi traffico e premo per mettere il pannolino nella giusta posizione…alla fine gli rimetto a posto i pantaloni del pigiama. Spero che farà lo stesso per me, un giorno”. 

Va o rimane?

Il lettore va avanti con lui per più di cento pagine, a seguire i pensieri contorti e ingarbugliati di quest’uomo che sembra più in preda a una crisi di mezza età che a un dilemma esistenziale. Il finale, non fa che confermare l’impressione. Mi è piaciuto? Direi di no, confesso che sono andata avanti solo per scoprire se poi queste benedette valigie si deciderà a portarle giù o no. Una cosa, soprattutto, mi lascia perplessa. Susan, la moglie. Susan rimane evanescente, sullo sfondo. E’ una cattivona, Susan. Fa questo, fa quello, pretende questo e quello. Sì, d’accordo: ma chi porta avanti la baracca? Io scommetto che sia proprio Susan. Hanif Kureishi dipinge la tipica situazione in cui il problema vero, grande, è uno solo: le famiglie dopo i figli cambiano e, a volte, non per il meglio. Credo che a questo lavoro di Hanif Kureishi manchi proprio questo: l’altra campana. Avrei voluto sentire i rintocchi, anche solo per avere un’idea meno vaga di questa donna. Merita il disprezzo che sta ricevendo? O il nostro protagonista è un gran bambinone, che fa tanta, tanta fatica a crescere?

Voi che ne dite? Quali libri di Hanif Kureishi avete letto e mi consigliate? 

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Amore e ritorno 

La Befana vien di notte e porta libri!

C’è la befana, una vecchina che sta scaldando i motori per premiare i bimbi che sono stati buoni nell’anno appena trascorso. Se vi piace l’idea di far trovare libri anche dentro la calza della befana, ecco qualche consiglio per bambini e ragazzi che vogliono esplorare il fantastico mondo della fantasia, sgranocchiando i dolciumi che la vecchietta più in gamba dell’universo avrà lasciato a mezzanotte. Li ho suddivisi per comodità in classici e moderni e piano piano aggiungerò tutti i libri che secondo me sono adatti come regalo in base alle fasce di età. 

Classici

Il giardino segreto

Un giardino segreto fa scoprire a una bambina capricciosa e al suo cuginetto malato quant’è bello essere indipendenti. E’ un libro meraviglioso, zeppo di temi importanti per la crescita. Adatto a tutte le età

La piccola principessa

Chi dice che i bambini di oggi non apprezzino i classici di una volta, non ha mai letto Frances Hodgson Burnett, è evidente. “La storia di Sara Crewe” dal lontano 1905 spero vada a trovare qualche bimbo fortunato il 6 gennaio. Dai 6 ai 12 anni

Piccole donne 

E’ una pietra miliare nella letteratura per ragazzi, ed è giusto così. A parte le aspirazioni economiche e familiari della protagonista, che non sono neanche uguali per tutte e quattro, ci sono elementi che ne fanno un libro assolutamente da leggere anche oggi. Se piace, ci sono anche Piccole donne crescono e gli altri libri della serie. Dagli 8 anni. 

Una ragazza fuori moda

Sempre della stessa scrittrice. Pur non avendo la stessa forza espressiva di Piccole donne, questo romanzo era uno dei miei preferiti da piccola e lo rimane anche oggi. Dai 6 anni. 

Anna di Tetti Verdi

Il primo romanzo della serie Anna di Tetti Verdi, o Anna dei verdi abbaini, o più comunemente Anna dai capelli rossi. piccolo capolavoro. E’ riduttivo chiamarlo romanzo per ragazzi. E’ un libro per tutti e anche se avete ottanta anni, il mio suggerimento è di leggerlo insieme ai vostri nipoti. O figli, o gatti, se ne avete. Perché è talmente delicato e coinvolgente che finirete per piangere tutti insieme. Dai 10 anni

Cuore di tenebra

Il racconto è appassionante e vivido. A un certo punto mi è sembrato di essere lì con Marlowe e di attraversare questa foresta buia e pericolosa, di sfidare l’ignoto, di poter morire di febbre come gli avventurieri. Dai 12 anni

Moderni

Giorno di neve

Komako Sakai e l’arte di  avvicinare i cuccioli alla poesia con le immagini, prima ancora che con le parole. Un libricino tenero e delicato, come i fiocchi di neve che scendono e accendono la fantasia. Per la fascia 0-5 anni

La penna

L’albo è pensato per bambini dai 6 ai 10 anni, ma secondo me va bene anche per bambini più piccoli, ed è un’opera a metà tra un’enciclopedia e un libro d’arte su uccelli e penne. E’ un libro adatto a bimbi curiosi, che vogliono esplorare il mondo naturale partendo dall’osservazione di piccoli elementi. Attenzione, però: i piccoli esploratori potrebbero sempre chiedervi: come fa la Befana a volare senza penne? Preparate una risposta convincente! 🙂

Il club delle baby sitter 

La serie, lunghissima, racconta la storia di cinque ragazze delle scuole medie, che decidono di avviare un’attività come baby-sitter nella loro cittadina del Connecticut. L’idea è molto buona e sviluppata altrettanto bene. Dagli 8 anni. 

Me, mum & mistery, detective per caso

Un’autrice italiana, Lucia Vaccarino, e una serie mistery rosa che piacerà ai piccoli detective in erba, Me, mum & mistery, detective per caso. A Sherrington Lodge, austera dimora alle porte del paese, avvengono sinistri episodi. Il proprietario, il maggiore Trevor Sherrington, ha il terrore che la casa sia infestata dagli spiriti. Emily e Linda dapprima rifiutano l’incarico, ma il destino sembra avere in serbo per loro un disegno diverso…Con questo libro andrete a colpo sicuro nella fascia 9-11 anni, quella dei primi misteri da risolvere e anche delle prime cotte amorose.

Il sogno di Ellie. Royal Ballet School

Il racconto giusto per i bambini che amano la danza e, più in generale, i diari. Il romanzo, infatti, è narrato in prima persona da una bambina di dieci anni che vola in Gran Bretagna per partecipare alle selezioni della Royal Ballet School di Londra. Ne succederanno tante…Anche questo libro è adatto alla fascia 9-11 anni, quella delle prime passioni sportive e non. 

Il mistero del London Eye 

Tutti possono dare il loro contributo nel mondo, basta saper ascoltare e aprirsi agli altri, anche a quelli che sono lontani anni luce da noi. In fondo, la radice del bullismo e della delinquenza non è la paura del diverso? Non si alimenta con la forza del gregge? Un romanzo che consiglio soprattutto ai ragazzi sopra i 12 anni, e anche agli adulti, perché non è mai troppo tardi per imparare a variare angolazione, nella vita. 

La più bella nuotata? Dislessia e matematica in love

Libro d’esordio di Anne Becker, che ha studiato Pedagogia Speciale all’università di Heidelberg e si occupa di didattica per allievi con bisogni speciali e difficoltà di apprendimento. E proprio di questo ci racconta nel suo primo romanzo: un dislessico e una nerd rischiano di trovarsi isolati e infelici. A meno che non uniscano le forze e trovino qualcuno in grado di capirli e sostenerli. 

Vi piace questa selezione? Avete trovato qualcosa di utile? O avete altri titoli da suggerirmi? Scrivetemi nei commenti! E buona Befana! 

Pelè non c’è più. Pelè: Io, l’unico Re

Pelè non c’è più, oggi il mondo gli darà l’estremo saluto. Il Brasile è una terra di storie e non vale la pena raccontare una storia se non ha tante versioni diverse. Pelè ne racconta tante e spesso si assicura di mantenere sempre un’aura di mistero e di leggenda intorno a ognuna di esse. E’ la sensazione che trasmette “Pelè – Io, l’unico Re”, l’autobiografia di O’Rey scritta con i giornalisti Orlando Duarte e Alex Bellos, pubblicata nel 2006.

I tre cuori

Si comincia proprio con una leggenda. Quella dei tre cuori, che riguarda la località in cui è nato Pelè. Tres Coracoes, a nord di Rio de Janeiro. Un omaggio alla cappella “Sacri cuori di Gesù, Maria e Giuseppe”, voluta dall’esploratore portoghese che per primo vi arrivò, alla delusione amorosa di tre cowboy che non riuscirono a sposare tre ragazze del luogo, o a un’ansa del Rio Verde che ha la forma di tre cuori? La soluzione l’ha trovata la mamma, Dona Celeste (ancora viva), e così Pelè ha tre cuori: uno per la famiglia, uno per gli amici, uno per i nemici.

Pelè, Bilè

Pur tenendo vive le tre versioni sull’origine del suo soprannome, quella è l’unica leggenda sulla quale tiene a specificare la verità. Ha accettato quel soprannome, storpiatura di “Bilè”, che era un portiere al quale veniva paragonato quando si metteva in porta, ma non gli è mai piaciuto. Era orgoglioso di essere stato chiamato Edson in onore di Edison, l’inventore della lampadina. E spesso nelle cartoline si firma “Pelè” da una parte e “Edson Arantes do Nascimiento” dall’altra. Due facciate, oltre ai tre cuori, che usa anche come scusa quando George Best lo invita a bere alcolici: “Non posso, ho tre cuori, mi sentirei male il triplo”. Si è dedicato molto a campagne contro alcol e droga, ma poi ha dovuto affrontare la condanna per traffico di droga capitata al figlio Edinho (che oggi l’ha scontata e fa l’allenatore). Non nasconde i suoi dolori né i suoi errori nel racconto della sua vita scritto a sessantasei anni e “con ancora tante cose da fare”. Ha continuato a farne, ma in questo libro c’è già tantissimo.

Sorriso da copertina

Le parti più importanti della carriera vengono ricostruite minuziosamente, la passione per il calcio è il grande filo conduttore, anche se l’entusiasmo che si percepisce nel racconto della sua infanzia fatalmente scema un po’ con lo scorrere delle pagine. C’è più entusiasmo nel parlare degli amici d’infanzia piuttosto che degli incontri con John Lennon e Bill Clinton. Il tutto sempre con quel sorriso che si vede in copertina e che ha accompagnato praticamente ogni sua apparizione pubblica. Pelè vuole porsi come una figura positiva, è grato a ciò che la famiglia ha fatto per lui e a Dio per avergli salvato la vita tre volte.

tre coppe

Gli avversari? Compagni di viaggio

Rende merito agli altri grandi campioni che ha incontrato nel suo percorso, vede gli avversari non come tali ma come compagni di viaggio, non sembra portare rancore a chi gli ha fatto del male. Al massimo si concede un: “Ci rimasi molto male”. Sicuramente dice qualche bugia, come ad esempio quando racconta di ritenersi “amico” di Maradona. Poche righe dopo, però, spiega perfettamente perché le discussioni sul “più grande di sempre” non hanno senso. Così la sensazione è che quel sorriso diventi un filtro che ti impedisce di conoscerlo fino in fondo. E’ anche un suo motivo di orgoglio, come racconta lui stesso parlando del medico della Nazionale brasiliana. Era un dentista, ma non l’ha mai frequentato per i denti, perché non ne ha avuto bisogno. Ne ha avuto bisogno ai Mondiali del 1962, uno dei tre che ha vinto (ancora oggi nessuno nella storia del calcio ha fatto altrettanto), ma non da protagonista, perché un infortunio gli impedì di vivere le fasi decisive. Lì va un po’ oltre il “ci rimasi molto male”. Voleva scappare, lo convinsero a rimanere, applaudì Garrincha. Ogni volta che i due hanno giocato insieme, il Brasile non ha mai perso.

Il Brasile del ’58

Già, il Brasile. Il più forte per la somma di individualità, secondo Pelè, era quello del 1958. Quello più “squadra” era quello del 1970. O’Rey dissemina le sue idee sul calcio qua e là e stupisce quando racconta quella che lui ritiene la sua dote migliore. Non il dribbling, non il fisico, non la potenza, ma una dote che emerse fin da giovanissimo: la capacità di prevedere i passaggi dei compagni di squadra. Così riusciva a giocare tanti palloni e a non farsi anticipare, perché si faceva sempre trovare. Era il più cercato, essendo il più bravo, ed ecco che tutto il resto viene abbastanza facile.

Pelè e Papa Ratzinger 

Facile è anche la scrittura, e di conseguenza la lettura, di un libro che fatalmente regala più di una suggestione a poche ore dalla sua scomparsa. La morte torna spesso, nel racconto. Vi sfuggì da piccolo, la vide nel volto di un pilota morto dopo la caduta di un aereo (e così smise di sognare di voler fare, appunto, il pilota), racconta di aver sentito morire una parte di sé dopo aver smesso di giocare (e per questo di aver ricominciato, con i Cosmos New York). Sarà sepolto esattamente dove aveva indicato in questo libro, nelle cui ultime pagine racconta anche del suo incontro con Papa Benedetto VI. Ovunque siano ora, magari si sono appena incontrati di nuovo.

pele ratzinger incontro

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“C’era stata una ragazza, tra le prime, di cui ero veramente cotto, ma suo padre mise subito fine alla storia. Un giorno venne all’uscita della scuola e le fece una predica perché stava con me. “Cosa fai con questo negrinho?” urlò. Credo sia stata la prima volta in cui ho sperimentato direttamente il razzismo, e fu davvero scioccante. La mia ragazza era bianca, ma non mi era mai venuto in mente che qualcuno potesse avere un problema per questo, tanto meno nei miei riguardi.”

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