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A sud del confine, a ovest del sole – Haruki Murakami

Sono ospite in una locanda letteraria in montagna. In una stanzetta arredata per la lettura, con scaffali di legno, poltroncine e un servizio da tè d’argento, l’angolo di un libro spunta sotto una colonna orizzontale di volumi appoggiati distrattamente su una mensola. E’ Haruki Murakami, uno dei miei autori contemporanei preferiti, che mi sta chiamando. Adotto il romanzo che mi ha scelto e inizio a leggerlo in camera. Accendo il bollitore e mi preparo un tè forte: ho solo due giorni per finirlo e poi lo dovrò riconsegnare agli albergatori. Leggo l’incipit. E’ una storia d’amore. Bene, iniziamo…

La trama

Hajime è nato “nella prima settimana del primo mese del primo anno della seconda metà del ventesimo secolo”. Per questo i suoi genitori gli hanno dato quel nome, che significa «inizio». Il desiderio più grande di Hajime è essere un ragazzino normale, ma a differenza dei compagni di scuola è figlio unico. Poi, un giorno, in classe arriva Shimamoto. Anche lei è figlia unica, e una leggera zoppìa sembra isolarla ulteriormente dal mondo. Shimamoto e Hajime diventano amici e trascorrono pomeriggi interi ad ascoltare dischi di jazz. Quando i genitori di Hajime si trasferiscono in un’altra città, l’amicizia tra i due s’interrompe. Hajime cresce, si laurea, trova lavoro, si sposa, fa figli. A trentasette anni si direbbe realizzato: ha moglie, due figlie, gestisce un locale jazz di successo. Finché, in una serata di pioggia, a un tavolo del suo locale si siede Shimamoto. La sua improvvisa ricomparsa manda tutto all’aria: certezze, convinzioni, l’immagine di sé che Hajime aveva faticosamente costruito, quell’impressione di normalità che aveva inseguito dall’adolescenza in poi. Improvvisamente, Hajime sente il bisogno di rimettere tutto in discussione.

Tempus fugit

Haruki Murakami ha scritto questo romanzo a 42-43 anni, più o meno. Cioè quando era leggermente più vecchio del suo protagonista e, forse, nel momento in cui si sentiva smarrito e in preda a riflessioni pesanti sulla propria vita e sulle proprie scelte. Certo, è sempre un azzardo leggere elementi autobiografici nell’opera di uno scrittore, perché se è vero che la creatività è alimentata da esperienze e fatti personali, è altrettanto verosimile che la rielaborazione del pensiero creativo porti il romanziere ad astrarsi da vicende unilaterali per porsi su un piano di riflessione collettiva e universale. Sta di fatto, tuttavia, che Hajime possiede un locale jazz notturno, come Haruki Murakami prima di diventare famoso, e che il protagonista sia uno sportivo, come il narratore. Il resto riguarda tutti noi a una certa età, chi più chi meno: un grande amore del passato che si rifà vivo, se non fisicamente almeno nella coscienza, e una pulsione al cambiamento che si fa strada quando ormai tutto sembra incanalato nei binari dell’abitudine. Confessiamocelo: chi non ha mai avuto dubbi sulle proprie scelte? Chi non si è sentito smarrito all’idea di invecchiare piano piano senza rendersene conto? Chi non ha pensato, anche solo per un attimo, di buttare tutto all’aria e ricominciare da capo? Così, solo per il gusto di sentirsi vivi.

Hajime e Shimamoto e quello che poteva essere e non è stato

Ecco perché la storia tra Hajime e Shimamoto è una metafora di quello che poteva essere e non è stato, delle scelte del passato che condizionano il presente e della nostalgia per tutto ciò che potevamo raggiungere ed essere e che è fuggito via, con il tempo. Stavolta non ci sono visioni oniriche, non c’è soprannaturale, evento raro nella produzione del giapponese. Tempus fugit, semplicemente. Gli antichi lo sapevano bene e lo sapevano dire in due parole. Noi, invece, rincorriamo la giovinezza, i divertimenti, seguiamo un modello di vita che ci impone la società, o la famiglia, a volte senza mai davvero prendere le redini della nostra esistenza. Un’esistenza che comunque vada sarà di breve durata. Solo il deserto, strano a dirsi e anche solo a pensarsi, sopravvive sempre, come diceva Walt Disney. Tutto il resto muore. Anche noi , con il nostro carico di sogni. E, forse, anche i nostri amori. Qui, però, il discorso si fa più complicato, e giustamente Haruki Murakami si ferma prima di dare una risposta definitiva. Che forse non c’è e non potrà mai esserci. Perché le ceneri degli affetti, sparse nel fiume, sfoceranno nel mare e torneranno pioggia. Mettiamo via l’ombrello e guardiamo verso l’altro la prossima volta che piove. Le gocce che ci finiscono sul viso potrebbero essere il bacio del nostro amore.

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Il seggio vacante – J. K. Rowling non è solo Harry Potter

Questo libro m’incuriosiva molto, fin dalla sua uscita, ma ho aspettato un bel po’ di tempo prima di aprilo. E’ diventato l’ultimo romanzo del mio 2017 e posso dire con sicurezza che non avrebbe potuto esserci finale migliore. D’anno, perché J. K. Rowling piazza nelle battute finali un pugno nello stomaco di quelli che fanno male.

La trama

A Pagford, un ridente villaggio inglese, accade un fatto imprevisto: l’insegnante e consigliere Barry Fairbrother si accascia a terra e muore. La sua dipartita rompe gli equilibri all’interno del Consiglio Locale, lasciando un seggio vacante che diviene la causa di molti dissapori tra l’ala conservatrice dell’amministrazione, che vorrebbe trasformare il centro comunitario cittadino in un albergo di lusso, abbandonando così a se stessi gli emarginati della società, e l’ala “progressista”, di cui Fairbrother era leader. Oltre alle dinamiche politiche, l’evento scatena una serie di reazioni a catena che scoperchiano progressivamente i conflitti sepolti sotto l’apparente tranquillità: i ricchi in lotta con i poveri, i ragazzi in lotta con i genitori, le mogli in lotta con i mariti, e gli insegnanti in lotta con gli studenti, in un crescendo di ripicche e rappresaglie che sfoceranno in tragedia.

Dietro un mondo piccolo e perfetto, si nasconde il male

Premetto che il motivo principale della mia curiosità nei confronti di questo libro era semplicemente capire se il fenomeno Rowling fosse legato esclusivamente alla saga di Harry Potter. Saga che per inciso non ho mai letto, al contrario, per pura mancanza di curiosità. D’altra parte, un successo planetario così enorme di una scrittrice non americana non poteva essere qualificato come marketing e basta.

Questo romanzo me l’ha confermato. Dopo le prime pagine, in cui ho fatto fatica a ricordare tutti i personaggi scesi in campo capitolo dopo capitolo e le connessioni tra loro e nel tessuto sociale della cittadina, finalmente la matassa si è dipanata e pagina dopo pagina ammetto che ho fatto fatica a posare il libro.

Se, al contrario di me, conoscete J. K. Rowling solo per Harry Potter, scordatevelo immediatamente e leggete questo libro. Perché dietro un mondo apparentemente piccolo e perfetto, si nasconde il male e la Rowling lo stana senza pietà. Non c’è bisogno neanche del sole, come diceva Agatha Christie. Perché invece a Pagford piove e piove spesso, il che rende l’atmosfera se possibile ancora più lugubre. Il che rende quasi impossibile pensare che gli irreprensibili cittadini abbiano scelto un villaggio così isolato e umido  per trascorrere un’esistenza tranquilla.

A Pagford c’è tutto, meno che tranquillità

La lotta intestina all’interno del Consiglio è solo uno sfogo per la rabbia repressa che domina gli abitanti, che per un motivo o per l’altro hanno bisogno di affermarsi, se a danno di altri ancora meglio. I ragazzi non sono immuni, sono cresciuti nel veleno e veleno hanno respirato. L’unica cosa che vogliono è buttarlo in faccia a qualcuno, insegnanti o genitori che siano. Chi si salva? Solo lui, il morto, il fantasma Barry, che infatti viene evocato da più parti come un giustiziere divino. Barry era diverso, Barry era un uomo che faceva la differenza. Barry avrebbe potuto salvare le anime. Perché Barry era nato povero e ce l’aveva fatta, senza passare sopra a nessuno, senza dimenticarsi da dove proveniva, spargendo entusiasmo e voglia di fare e di credere in se stessi nelle persone che avevano la fortuna di passare sotto la sua stella.

E’ proprio nella “bellezza” di un uomo comune che vedo il significato del libro: tu, uomo normale, puoi fare la differenza se lotti per il progresso e per una società migliore. A partire dalla scuola, non a caso è un professore, e dalla famiglia.

Echi autobiografici

Sembra che Pagford, villaggio inventato, somigli molto a Tutshill, il villaggio inglese nel quale J. K. Rowling trascorse l’adolescenza. Tanto che gli abitanti hanno sentito la necessità di dissociarsi dai personaggi.

Io credo, invece, che qualunque villaggio e qualunque piccola città, o quartiere di una metropoli, possa riconoscersi nelle maschere universali descritte dalla britannica. Come dice J. K. Rowling stessa: “la classe media è divertente. E’ quella che conosco meglio ed è quella in cui trovi più pretese”. Come non darle ragione? Soprattutto quando queste pretese vengono schiacciate, come sta accadendo oggi praticamente in tutto il mondo, la classe schiacciata non può che emergere in tutto il suo pagfordiano splendore. 

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Perché non l’hanno chiesto a Evans? – Agatha Christie

Sono pazzamente innamorata di Agatha Christie, ma al mio palmarès mancava Perché non l’hanno chiesto a Evans?, uno dei suoi lavori meno conosciuti anche se uscito nel 1934. Cioè lo stesso anno di Assassinio sull’Orient Express, tornato sulla cresta dell’onda grazie al Poirot di Kennet Branagh uscito da poco al cinema. Io l’ho scelto semplicemente perché inizia sulle mie amate scogliere, purtroppo del Galles e non della Cornovaglia, ma mi accontento.

La trama

Bobby Jones, quarto figlio del vicario di Marchbolt, in Galles, mentre gioca a golf nel suo villaggio, s’imbatte in un uomo in fin di vita, caduto da un vicino strapiombo: mentre Bobby lo tiene d’occhio, il suo compagno di gioco va a cercare soccorso. Bobby raccoglie le ultime parole dell’infortunato (“Perché non l’hanno chiesto a Evans?”). e trova accidentalmente nella tasca dell’uomo una foto che rappresenta una donna. Poiché ha fretta, affida la custodia del cadavere a un uomo di passaggio, tale Roger Bassington-ffrench. Dalla foto che la polizia trova nella tasca dell’uomo, si risale alla sua identità: è Alexander Pritchard, e ciò è confermato dalla donna ritratta nella suddetta foto, la sorella Amelia Cayman. Dopo l’inchiesta, una pura formalità, Bobby si ricorda delle ultime parole dell’uomo e informa i Cayman. Pochi giorni dopo, finisce in ospedale per aver bevuto una birra avvelenata. Mentre si trova ricoverato, scopre che la foto trovata dalla polizia nella tasca di Pritchard non è quella che lui aveva trovato e viene convinto a investigare dalla sua amica Lady Frances Derwent, “Frankie”, convinta che il tentato omicidio sia legato alla morte dell’uomo. L’uomo morto è davvero Alexander Pritchard? E chi è la donna nella foto? Ma soprattutto, chi ha tentato di uccidere Bobby e perché?

Una coppia buffa e simpatica spariglia le carte all’assassino!

Se avete voglia di leggere un giallo classico, prendete uno qualunque degli innumerevoli romanzi scritti da Agatha Christie e non rimarrete delusi. La scrittrice inglese è una maestra insuperata, e secondo me insuperabile, nel pennellare situazioni, personaggi e fatti in maniera incisiva e asciutta, per poi portare a spasso noi poveri lettori in un vortice di sospetti, indizi veri e falsi e colpi di scena che ci terranno incollati alle pagine fino alla fine. Per poi spesso dover ricominciare a leggere, dall’inizio o solo le parti cruciali, perché la perfida penna della Christie ingarbuglia talmente tanto la trama che sicuramente qualche passaggio fondamentale andrà rivisto.

Il gioco dei nomi

In Perché non l’hanno chiesto a Evans? il gioco di nomi, finti nomi e mascheramenti dei personaggi è marcato e dapprima mi ha lasciato perplessa, anche se alla fine, ricomposti tutti i tasselli, ho capito tutto. Geniale Dame Christie, anche se stavolta posso dire soddisfatta che avevo capito chi fosse l’assassino! L’unico problema è la traduzione italiana, anzi, più che altro la mancata corrispondenza tra i pronomi inglesi e quelli italiani, che rende meno comprensibile ai secondi il gioco sottile che c’è dietro lo spunto iniziale. Ma non posso dire di più per non rovinare la suspense a chi deve ancora leggerlo. Però se dopo vorrete commentare scrivetemi e ne parliamo. Aggiungo solo che la coppia di protagonisti di Perché non l’hanno chiesto a Evans? è buffa e simpatica ed è un peccato che le loro avventure non siano proseguite. In definitiva, un romanzo da leggere in un fine settimana di relax assoluto, sdraiati sul divano in compagnia di una bibita. Mi raccomando, che non sia una birra!

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Tutto ciò che vi devo – Virginia Woolf

Virginia Woolf. Ci sono scrittori senza amici, chiusi nell’ossessione e nella solitudine della propria arte; ci sono autori con un unico, insostituibile sodale, uno sposo, una sorella, un complice, un compagno, a volte magari un po’ ottuso, benevolo, innocuo. E poi ci sono persone per le quali gli amici sono consustanziali al proprio animo e la vita è degna di essere scritta e vissuta proprio in virtù di coloro con cui la si condivide. A questo ultimo gruppo appartiene di certo Virginia Woof.

Le lettere

Virginia scrive alla sorella Vanessa e alle sue amiche Vita Sackville-West, Ethel Smyth, Katherine Arnold-Forster, Violet Dickinson, Madge Vaughan (la Sally di Mrs Dalloway) e Nelly Cecil. In questo minuscolo libro l’editore ha scelto alcune missive significative all’interno di un ricco epistolario che la scrittrice ha alimentato dal 1903 al 1941 con le figure a lei vicine che più l’hanno coinvolta emotivamente, ondeggiando continuamente tra amicizia, amore e sorellanza.

Solo le donne stimolano la mia immaginazione

L’incipit dell’introduzione di Eusebio Trabucchi inquadra fin dall’inizio le pagine che stiamo per leggere e la persona che si svelerà sotto i nostri occhi. In un pomeriggio tranquillo e lento ho passato qualche ora in compagnia di un buon tè, un libro che ha il solo difetto di essere troppo breve e una scrittrice che fino a quel momento avevo trovato ostica, difficile. D’altra parte, in una lettera alla sorella descrive il suo rapporto tumultuoso con la scrittura così: “cerco sempre di andare dietro alle parole; e poi all’improvviso mi piombano addosso“. Leggendo questa corrispondenza, invece, e sentendomi rassicurata dall’esplicita accettazione di Virginia allo sguardo di estranei “decideranno i posteri se conservarle e cosa farne”, ho scoperto un mondo che va oltre la sua figura di scrittrice anticonformista e poliedrica. Un mondo, privato e tenero, in cui la scrittrice mette da parte la corazza che la contraddistingue e si apre a sentimenti che in fondo l’accomunano a tutti noi: l’accettazione del lutto quando scrive che il fratello è morto confessando di aver mentito nelle lettere precedenti per non turbare l’amica in convalescenza, il pettegolezzo spiccio e ironico sui rapporti amorosi di comuni conoscenti, l’incertezza sulle doti d’intelletto e artistiche, la rivalità  con altre autrici contemporanee sui dati di vendita (mi ricorda qualcosa!), l’insicurezza e la voglia di essere amata e capita, l’allegria e l’occhio acuto con cui racconta una giornata con la nipote e una sua amichetta che finisce con tè e pane caldo, la confusa e divertente oscillazione tra il desiderio di accettare una pelliccia ricevuta in dono e il ribrezzo per l’oggetto ricevuto, il ricordo felice delle estati passate in Cornovaglia con la famiglia da bambina.

Umana, troppo umana

Come direbbe Nietzsche, una Virginia Woolf umana, troppo umana. O, piuttosto, una ragazza prima e una donna poi dotata di grande sensibilità , che nelle lettere si esprime con tutta la libertà concessa da un mezzo di comunicazione privato, senza gli obblighi imposti dall’editoria, e in cui comunque il suo genio è manifesto. Il perché è presto detto, come scrive a Nelly Cecil “penso davvero che dovresti mettere mano a un romanzo: sai scrivere lettere, che è molto più difficile“. Di chi scrive romanzi, invece, non pensa un granché bene: “Il peggio è che in pochi hanno l’intelligenza per scrivere romanzi veramente brutti; mentre chiunque è in grado di tirarne fuori uno decente, e insulso. Quest’affermazione perentoria mi ha fatto sorridere: chissà cosa penserebbe Virginia di noi scribacchini moderni, attaccati come cozze alle stelline amazon!

Penso che Virginia ci prenderebbe ironicamente in giro perché lei sapeva bene cosa conta davvero nella vita: l’amore, gli affetti, le persone. Per questo la sua penna mordace rivela senza remore a Ethel Smyth a cosa lei è determinata ad attaccarsi come una cozza:

“Toglietemi gli affetti e sarò un’alga fuori dal mare, la carcassa di un granchio, un guscio vuoto. Le interiora, il midollo, il succo, la polpa, la stessa mia luce, non ne resterebbe più nulla. Sarei spazzata via, finirei in una pozzanghera e annegherei. Toglietemi l’amore per gli amici e il sentimento bruciante e continuo dell’importanza, dell’insondabilità  e del fascino della vita umana e non sarei altro che una membrana, una fibra, senza colore e senza vita, buona solo per essere buttata via come una deiezione“.

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Voci d’estate – Rosamunde Pilcher

Quando ho voglia di una lettura riposante e rassicurante, so sempre cosa scegliere. Rosamunde e la sua Cornovaglia sono degli amici fedeli. Fin dalle prime pagine, so già che mi condurranno in verdi vallate e amori grandi e limpidi. E cosa c’è di meglio che tuffarsi in allegre Voci d’estate mentre fuori piove?

Trama

A causa di un piccolo intervento, Laura Haverstock non può accompagnare il marito Alec in Scozia. Accetta così la proposta di trascorrere il periodo di convalescenza in Cornovaglia, a casa dello zio di lui Gerald e di sua moglie Eve. Contagiata dagli slanci di affetto di Eve, dalla serenità di Gerald e dall’entusiasmo di Ivan, il figlio di Eve, Laura ritrova pian piano fiducia in se stessa. Quando improvvisamente Gabriel, la figlia che Alec ha avuto dalla prima moglie, fa ritorno in Inghilterra, lo sconvolgente imprevisto rischia di rimescolare nuovamente le carte dell’amore.

Un cottage prende vita

La cara, rassicurante, emozionante penna di Rosamunde Pilcher anche stavolta non tradisce. Rispetto ad altri romanzi più famosi, manca la saga familiare, i mille personaggi che costituiscono un universo fatto di piccoli e grandi drammi, storie d’amore che sopravvivono al tempo e allo spazio, i panorami grandiosi che fanno desiderare di mettere due vestiti in valigia e partire. In Voci d’estate, Rosamunde si concentra sulle vicende di una piccola famiglia e su un cottage in Cornovaglia. Una casa che poco a poco prende vita, vede aumentare i suoi abitanti e osserva i mutamenti profondi che avverranno nelle loro esistenze nello spazio di un’estate.

Sentimenti veri e profondi

Alla scrittrice inglese a volte rimproverano di essere prevedibile e, in fondo, sempre uguale a se stessa. Invece, personalmente è proprio l’aspetto che preferisco. Quando ho voglia di una lettura riposante, so che potrò bearmi di paesaggi verdi e incontaminati e di sentimenti veri e profondi. Aver passeggiato su e giù per la Cornovaglia ha aggiunto ancora più colore alla lettura. Mi sembrava di essere davvero lì con Laura, Gabriel e tutti gli altri. Solo, se potessi, chiederei alla Pilcher come fanno i personaggi ad “arrostirsi al sole”, oppure a “morire dal caldo”. Sarò stata sfortunata io, ma in piena estate la temperatura cornica non ha mai superato i 22 gradi!