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Daniela Amenta e La ladra di piante di Monteverde vecchio

Daniela Amenta è una giornalista romana di lungo corso, esperta di musica rock e politica, due mondi che sembrano lontani anni luce, ma che in comune hanno la passione. La stessa passione che muove i protagonisti: per le piante lei, per la musica lui. In mezzo, un delitto, un’inchiesta, un informatore e una Roma immersa in una cappa d’afa. E non solo.

Trama

Quell’estate a Roma faceva molto caldo. E quando Roma si arroventa perde la sua grande bellezza e si trasforma in una città dura, arrogante, coperta da un vapore insopportabile, segnata da odori di sangue e mentuccia. Qui c’è chi sopravvive rubando piante dagli androni dei portoni, chi cura gatti randagi e chi ascolta jazz e rock’n’roll. Una giovane donna dai capelli rossi, un cronista esausto a caccia di tenerezze e un vecchio giornalista che sta perdendo la memoria si incrociano ai margini della scena di un crimine. Dove sfilano badanti, redattori di giornali che inseguono scoop, giardinieri che conoscono la vita segreta delle orchidee, Bill Evans, i Clash e Pasolini. È la Roma del quadrante sud, quella che guarda il mare attraverso il percorso del Tevere. Un pezzo di metropoli trasformato in una mappa di luoghi e sentimenti dove, nonostante l’afa, crescono ancora le Aspidistre. E piccoli sogni di resurrezione e d’amore.

Amo et odio

Daniela Amenta ama e odia Roma. Si vede, si sente, si respira in ogni pagina di questo romanzo. Daniela Amenta, evidentemente, è una romana d.o.c., perché è così che si sente un romano. Ostaggio di una città e della sua bellezza. Una bellezza di cui si riempie la bocca “solo chi vive in certi quartieri e la vede da certe terrazze”. Tutti gli altri, devono trovare un modo per sopravvivere ai suoi tentacoli. E ad affitti in nero in case microscopiche. Ecco che, allora, un terrazzo può diventare un giardino botanico di piante dal salvare, un vinile l’unica ancora di salvezza nella vita, i gatti, un motivo per uscire di casa e riscoprire una coscienza civile.

Sopravvivere alla città

C’è Anna dai capelli rossi, ma chissà se le piacerebbe essere chiamata così, dato che anche il personaggio più famoso di lei lo odiava. Anna vive una vita sospesa, come tanti trentenni di oggi. Anna ha un mezzo contratto, a pochi soldi, e deve farselo piacere in qualche modo. Per sopravvivere, ruba piante. Sì, è lei la ladra di piante, preferibilmente quelle mezze smorte abbandonate negli androni dei condomini, che lei tenta disperatamente di salvare. C’è Riccardo, giornalista esperto. Lui si che ha un bel lavoro, ma non lo fa più con passione. E’ stanco delle notizie copia-incolla, stanco di direttori che non capiscono niente e seguono logiche di mercato che poco hanno a che fare con la qualità dell’informazione. C’è Lanfranco, un vecchio informatore, che vecchio lo sta diventando sul serio e sente che la memoria inizia a vacillare.

Sono entrata in questo orto, nel mio Getsemani pensile, all’ottavo piano di un palazzo perbene. C’è di tutto, qui. Piante sbilenche, rigogliose, piante con le flebo, piante mezze morte, malconce, c’è un tappeto di Aspidistre, ci sono quelle stronze di acidofile, le camelie e un rododendro che mi fa impazzire, ci sono le gardenie amatissime e piante di cui non so il nome. 

Certe atmosfere

Daniela Amenta conosce bene Roma, i personaggi che la popolano, è stata cronista di nera, e certe atmosfere che l’avvolgono in estate. E’ forse questa la parte più godibile del racconto, quella che mi ha conquistato. Se volete leggere di una Roma non da copertina, ma neanche criminale, che oggi le polarizzazioni vanno tanto di moda, questo romanzo vi offrirà una prospettiva diversa e affascinante, suo malgrado. Se amate le piante, non potrete non riconoscervi nell’opera pia che mette in piedi Anna, ma quale ladra? E, soprattutto, come sto facendo io in questo momento, nel cercare di capire quale parte del seme di avocado vada in acqua. Se vi piace la musica rock, quella senza autotune, troverete spunti interessanti. La storia di Daniela Amenta scorre via con facilità e si legge con piacere. A patto di sorvolare su qualche stereotipo di troppo, il vivaista contadino che assume solo stranieri “perché lavorano di più”, per esempio, la violenza di genere che viene infilata un po’ a forza, e francamente non necessaria e neanche approfondita a dovere, e su un giallo che parte troppo tardi e si risolve troppo presto.

“E secondo te, Valdesi, ci avrebbe fatto schifo qualche altro giorno di suspense…? Ecco, anche io sono d’accordo con il direttore, per una volta: qualche altra pagina di suspense non ci avrebbe fatto schifo.

Un’altra polarizzazione

Rimangono le descrizioni vivide di una città che non è come la squadra, che si ama e basta. Roma, se la ami, la ami e la odi, non c’è spazio per le vie di mezzo. Un’altra polarizzazione, a ben pensarci.

La casa era un ex lavatoio, ma in compenso aveva uno spazio esterno «sublime», come aveva detto la signorina Natalia facendogli firmare una stipula di comodato d’uso gratuito per 18 mesi. Per gratuito s’intendevano 800 iuros in nero, cash. Però il panorama valeva la pena e, in qualche modo, anche la truffa. Da lì prendeva forma la periferia dissennata di Roma che iniziava da Trastevere: una fila di parabole e cemento, treni e mattoni si allungava verso viale Marconi. Oltre s’ergeva, sferica e di salnitro, la torre del Gazometro. Si vedevano le pendici di Garbatella che, a un tratto, perdeva i toni pastello dei tetti per diventare di acciaio all’Eur. Si vedeva la cappa d’afa su Portuense e il verde spento dei platani ad accompagnare il viaggio del Tevere. E in certi giorni speciali la facciata d’oro di San Paolo brillava come una medaglia sul petto di questa città sfacciata. 

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Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio – Amara Lakhous

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Il Cristo ricaricabile – Guglielmo Pispisa

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Un giorno a Roma per innamorarsi – Mark Lamprell

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Romancè, puntata 1: In religioso silenzio

Romancè, il 14 luglio 2021

“Avete saputo che è successo? Hanno ammazzato il prete”.

Boom!

“Noooo!”

“Ma davvero?”

“Era ora”.

“Come ti permetti? Miscredente!”

“Ave Maria, Madre di Dio…”

“E’ sicuro?”

Stock!

Tutti a fissare la mannaia di Gino che cala. In religioso silenzio, è il caso di dire.

Polli, maiali, vitelli, vitelloni, manzi, anatre, tutti c’erano passati sotto quella forca. Era naturale, persino gustoso. Ma stamattina, quella folla abituale che s’accalcava davanti al bancone del sor Gino, che aspettare il proprio numeretto non si può, devo pur vedere se le salsicce col finocchietto sono belle prima che me la rubi quella furba della portiera del 13, quella strana rappresentanza dei clienti della macelleria DaManlio, che poi aveva ceduto a Gino, seguiva i movimenti del macellaio e intanto pensava al prete.

Chi può uccidere un religioso il 14 luglio?

Stamattina, c’è qualcosa di più gustoso delle fettine panate di Gino.

“Scusa Gi’, mi sono ricordato che oggi esce quel giornale nuovo…come si chiama…coso…Vabbè, ripasso dopo”.

“Oddio, pure io, ho dimenticato l’appuntamento da Fiorella. Che quella è capace di lasciarmi con la ricrescita fino al mese prossimo. Ritorno domani, lasciami qualche hamburger eh?”

“Uh! Ciai ragione, ora che mi ci fai pensare devo fare la manicure. Guarda che unghie. Scappo, ciao a tutti”.

“Hiiii! Ma non è che ho lasciato la macchinetta del caffè sul fuoco? Vado a controllar…”

Piano piano, a gambero e con le scuse via via più fantasiose, che se quelle classiche te le hanno fregate qualcosa devi pur inventarti, Gino, la cassiera e il garzone rimangono soli.

Il macellaio continua a disossare, tagliare, dividere, appendere, macinare, ché tanto dopo trent’anni lo sa cosa ordineranno, pagheranno, cuoceranno.

Solo che a un certo punto rimane con la mannaia a mezz’aria. La cassiera e il garzone aspettano trepidanti che professi parola.

“Il popolo sa”, professa a occhi chiusi, “chi non chiede come è morto il morto è l’assassino”.

Stock!

Posa la mannaia sul bancone, perfettamente inclinata a 45°, come fa sempre.

“Vado al bar”.

In fondo, anche Gino al pettegolezzo resisteva solo finché il quarto di bue non diventava un quarto di vinello.

“Ma Gino”, lo ferma la cassiera sulla porta, “nessuno di loro ha chiesto com’è morto”.

“Appunto”.

***

Solo una persona, tra gli abitanti del quartiere, quella mattina rimane in religioso silenzio. E’ troppo indaffarata, quella persona. Quella persona sa che, dopo ogni utilizzo, i coltelli vanno lavati subito con un detergente neutro e asciugati con un panno morbido. Di solito li sciacqua subito, per togliere residui ad alto tenore di acidità o salinità. Li lava e li asciuga dal dorso al filo, per non farsi tagli alle mani. Sa che non sono adatti per tagliare ossa, cartilagini o alimenti surgelati, a meno che non siano per uso specifico. Quando li ripone, fa attenzione che le lame non vadano a contatto con altri oggetti metallici. Ogni tanto, li affila con l’acciaino, così: regge l’acciaino con la mano sinistra e il coltello con la destra, poi inclina il coltello in modo da formare un angolo di 15 – 20° tra la lama e l’acciaino. Fa passare la lama sopra l’acciaino con movimenti a mezzaluna, sfruttando tutta la lunghezza dell’acciaino: la parte terminale della lama scivola in basso fino alla punta, esercitando una lieve pressione sulla lama. Passa la lama allo stesso modo sull’acciaino tornando in alto. Su e giù, su e giù più volte, per ogni lato. Alla fine, pulisce il coltello con un panno spugna umido e lo asciuga, prima di riporlo nel ceppo. Quella persona stamattina li ha puliti, asciugati, affilati, puliti di nuovo e asciugati. Potrebbe specchiarcisi, dentro quelle lame. Li ha coccolati uno a uno, con calma, c’è tutto il tempo del mondo.

Alla fine, quella persona può dirsi soddisfatta. Li ha riposti tutti nel ceppo.

Tutti, tranne uno.

***

Fine prima puntata Romancè

Se la prima puntata vi è piaciuta, o anche se non vi è piaciuta, lasciate un commento, così saprò che siete passati di qui. Grazie e alla prossima puntata di Romancè!

Bruce Chatwin, Utz e il baluardo di un’epoca

Le coincidenze sono solo coincidenze? Me lo domando spesso e ancora non ho trovato una risposta rassicurante. Anche con Utz di Bruce Chatwin è andata così: ho scelto a caso l’audiolibro tra i tanti che propone il programma Ad alta voce di Rai Radio 3 e mi ritrovo il documentario Nomad, sulle tracce di Bruce Chatwin al cinema, mentre decido con quale film tornare in sala nel post Covid. Coincidenze? Chissà. Intanto, vi racconto com’è andata con l’ascolto.

Trama

Kaspar Utz, ricco praghese di famiglia tedesca, coltiva una sua esclusiva passione per le famose porcellane di Meissen, che acquista ovunque e conserva tutte nella sua casa. Costretto a subire prima l’invasione nazista e poi il regime comunista, egli intrattiene con la sua collezione un rapporto totale, che lo isola dal sinistro «rumore di fondo» della storia e lo fa perdere nelle mille storie che possono nascere dai personaggi raffigurati nelle porcellane, riconducendolo a un passato sei-settecentesco forse altrettanto terribile, ma per lui certamente felice. Ma subito dopo la morte di Utz, la collezione scompare misteriosamente e non viene più trovata. 

Utz e Stevens, uniti da un filo invisibile

Bruce Chatwin andava di moda negli anni ’80, poi è scomparso dai radar. Morto giovane, Utz è il suo ultimo romanzo, scritto quando già sapeva di avere poco tempo da vivere. Ho iniziato l’ascolto incuriosita dalla trama e dalla voce di Lino Guanciale. In realtà, ad abituarmi alla voce dell’attore ho fatto fatica, eppure quando recita mi piace molto. La storia, invece, mi ha ricordato Quel che resta del giorno di Kazuo Hishiguro. Non per la trama, che ho completamente diversa, ma per l’attitudine dei protagonisti a voler conservare un mondo che non c’è più. Tanto Stevens si aggrappa alle posate d’argento, che vanno perfettamente lucidate, tanto Utz si attacca alle porcellane, che vuole preservare a tutti i costi dalla distruzione.

Uno zaino e un taccuino come moderne porcellane 

Un mondo che cambia, rapporti sociali che si ribaltano, la bellezza, la bellezza degli oggetti e delle persone che non viene più riconosciuta e gettata via. Forse, in ogni momento di passaggio c’è uno Stevens, o un Utz, a conservare quello che prima o poi tornerà di moda. Come ha fatto il regista di Nomad con lo zaino di pelle di Bruce Chatwin e il suo inseparabile taccuino, che ha dato il via alla moda del Moleskine, e che rappresentano per noi delle moderne porcellane.

Che fine ha fatto la collezione di Utz?

Già, che fine avrà fatto? Che teoria avete voi? L’io narrante, lo scrittore stesso?, cerca di capire cosa ne sia stato, ma l’unica ipotesi è che Utz abbia voluto portare con sé dopo la morte le amate statuette, distruggendole e affidandone i cocci a una discarica, pur di non farle cadere nelle mani insensibili dei funzionari governativi, cosa che in vita lo preoccupava più di ogni altra cosa. Un pensiero eretico, il suo, la sparizione delle statuine.

Lui era l’ultimo al mondo a sminuire il valore di chi rischiava il campo di lavoro per pubblicare una poesia su un giornale straniero, ma a suo modo di vedere i veri eroi di quella situazione impossibile erano quelli che non aprivano mai bocca contro il partito o lo Stato e, tuttavia, parevano albergare nelle loro teste la summa della civiltà occidentale. Con il loro silenzio, disse, infliggono allo Stato un estremo insulto, fingendo che non esista…lo Stato, con tutti i suoi sforzi di cancellare ogni traccia di individualismo, offriva all’individuo intelligente un’infinità di tempo in cui coltivare, in privato, i propri sogni e pensieri eretici. 

Bruce Chatwin, infatti, si è ispirato a una storia vera. Lui, che lavorava da Sotheby’s aveva saputo di un grande esperto di porcellane, un collezionista eccezionale. L’anno che precedette la primavera di Praga, andò a trovare il collezionista, Rudolph Just, e passò alcune ore con lui e la sua collezione. Just morì a metà degli anni Settanta e della sua collezione non c’è stata traccia, fino al suo ritrovamento nel 2001. Questo Bruce Chatwin non poteva saperlo e inventò una romantica e tragica fine per le sue porcellane. Anch’io, che leggendo il libro non sapevo di questa vicenda realmente accaduta, non la pensavo come il narratore. Secondo me, invece, c’entra una donna. E’ Martha l’artefice di tutto. Anche Rudolph Just avrà avuto la sua Martha? Voi la pensate come Bruce Chatwin o come me sulle porcellane di Utz? Scrivetemi nei commenti la vostra teoria. 

Leggi anche: 

Quel che resta del giorno – Kazuo Hishiguro

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Georges Simenon, Tre camere a Manhattan

Georges Simenon, Tre camere a Manhattan. Per un attimo, l’autore belga lascia da parte il commissario di polizia Maigret e si mette febbrilmente a scrivere una storia che consegna all’editore dopo soli sei giorni. Una storia d’amore, di solitudine e, forse, di nuovi inizi.

Trama 

New York, notte. Un uomo e una donna camminano lungo la Quinta Strada. Entrano in un bar. Ne escono. Un altro bar. E riprendono a camminare, instancabili, come se non potessero fare altro che camminare: «come se avessero sempre camminato così, per le strade di New York, alle cinque del mattino». Come se la notte non dovesse mai finire. Lui non sa niente di lei, lei non sa niente di lui. Lei traballa un po’ sui tacchi troppo alti, e ha una voce roca, una voce che fa pensare a una pena oscura; su una delle sue calze chiare spicca una smagliatura sottile – come una cicatrice. Non è né giovanissima né prepotentemente bella; sul suo viso, i segni di una stanchezza, di una ferita remota: ma è proprio questo a renderla seducente. Si sono incontrati solo poche ore prima, in una caffetteria nei pressi di Washington Square, come due naufraghi, e ora «sono così tenacemente avvinti l’uno all’altro che la sola idea della separazione risulta loro intollerabile».

Due solitudini che s’incontrano

“Chissà, magari di lì a un’ora, o a mezz’ora, sarebbero ridiventati due estranei…Non era per questo che continuavano a prendere tempo, che da quando si conoscevano non avevano fatto che prendere tempo, perché niente lasciava loro intravedere un possibile futuro?

Pare quasi di vederli, quei due, tra le strade brumose di Manhattan, mentre camminano incessantemente per non doversi fermare e riflettere, guardarsi in faccia, chiarire la natura del loro rapporto. La frase che ho citato, secondo me, dà senso all’intero romanzo. Un romanzo chiaramente autobiografico, che Georges Simenon scrisse addirittura in sei giorni, tanta era l’urgenza di mettere su carta il fuoco che gli ardeva dentro. “L’ho scritto a caldo e questo mi ha fatto paura”, così commentava il processo di scrittura.

Il simbolo del 3 

Sì, il fuoco, di un uomo che lascia il mondo così come l’aveva conosciuto fino a quel momento, la vecchia Europa, e si imbarca su una nave danese per raggiungere New York. Un mondo diverso, dove lui non è nessuno, mentre in Europa era già un romanziere affermato. Un uomo che in quel momento sta mettendo in discussione la sua vita, il suo lavoro e il suo matrimonio. Il romanzo, infatti, è stato scritto nel periodo in cui l’autore aveva già iniziato a frequentare la donna che anni dopo diventerà la sua seconda moglie, Denyse Ouimet. Al contrario del personaggio di Tre camere a Manhattan, Georges Simenon lascerà la moglie solo quando Denyse gli comunicherà di aspettare un figlio da lui. Dubbi e lacerazioni dell’uomo Simenon che ricorrono nella simbologia del tre, che pervade le pagine: tre camere, relazione a tre tra i protagonisti e i rispettivi ex, relazione a tre anche tra la coinquilina di Kay e i suoi amori. nell’ultima camera, è una porta a fare da spartiacque: rimarrà chiusa o aperta?

Lo smarrimento

Nel romanzo, predomina il senso di solitudine, lo smarrimento dei protagonisti è percepibile. Lui, François Combe, è un attore francese tradito dalla moglie, che pubblicamente lo ha sostituito con un attore molto più giovane e che, baciato dal successo in patria, ora fatica a trovare anche piccoli ruoli. 
Lei, Kay Miller, è una donna che ha abbandonato marito facoltoso e figlia per ricostruirsi faticosamente una vita, di cui porta i segni in faccia. Il romanzo di Georges Simenon va letto con gli occhi dell’epoca. Oggi, una trentacinquenne e un quarantottenne potrebbero benissimo iniziare una nuova vita, senza grandi traumi. Lo scrittore, invece, parla di una donna ormai sfiorita, che i suoi amici gli invitano a lasciar perdere perché sicuramente in cerca di un uomo che la salvi dalla perdizione.

Guardarsi allo specchio

Ecco, questo aspetto mi ha un po’ infastidito. François Combe mostra a tratti una personalità violenta, che mette in discussione i comportamenti di Kay senza guardarsi mai allo specchio. Lei, al contrario, sembra più fragile di quanto non sia. In realtà, nella vita ha saputo compiere scelte dure e assumersene la responsabilità. Sì, è vero, naviga nell’oblio e frequenta bar equivoci a notte fonda, ma l’immagine che siamo portati a farci nelle prime pagine viene smentita via via che il romanzo va avanti. Sicuramente più risolta lei, certamente una donna che sa comprendere lo sconvolgimento che gli alberga dentro, perché ha vissuto anche lei quella fase. Lui, invece, cerca giustificazioni per le sue azioni, addossando sempre la colpa a qualcuno. Alle donne, essenzialmente: prima la moglie, poi la sua natura di uomo, poi Kay. Come lo chiameremmo oggi? 

Leggi anche: 
http://www.pennaecalamaro.com/2020/08/17/sex-and-the-city-60-tappe-new-york-parigi/
http://www.pennaecalamaro.com/2018/01/11/terapia-coppia-amanti-diego-de-silva/

A maggio leggiamo Min Jin Lee e il pachinko

Il Book Club PeC lascia, ma non del tutto, l’ambientazione americana e, per la terza lettura, si avventura in Asia. Un libro al mese, scelto insieme. Stavolta, leggeremo La moglie coreana dell’autrice americana, di origine coreana, Min Jin Lee.  Parleremo dell’ambientazione, dei personaggi, della storia. Ci confronteremo con sensazioni, modi di pensare, idee diverse dalle nostre. E’ anche questo il bello di condividere e confrontarsi, no? Allora, se siete pronti con il libro in mano, vi lascio qualche dettaglio iniziale sul romanzo che stiamo per leggere e un’avvertenza su cosa l’abbia ispirato. Alla prossima settimana con altre curiosità sul romanzo e il primo dibattito!

Pachinko

La moglie coreana, Pachinko nel titolo originale, è un romanzo di Min Jin Lee, un’autrice americana nata nel 1968 da una famiglia di origine coreana. Ormai per me è una condanna, anche stavolta ritengo Pachinko un titolo più azzeccato per la storia che racconta? Perché? Ne parleremo durante la lettura, magari alla fine. Intanto, vi dico che il pachinko è una sala giochi, un business considerato equivoco.

pachinko-parlor

Prima di partire 

E’ la stessa Min Jin Lee, nella prefazione, a spiegarci come le è venuta l’idea per questo romanzo: “ero al terzo anno di università, nel 1989, e un giorno assistetti a un ‘Master’s Tea’, una lezione tenuta da un relatore d’eccezione ospite di Yale. Un missionario americano che svolgeva il proprio operato in Giappone teneva una lezione sugli zainichi, un termine spesso usato per descrivere i giapponesi di origine coreana che erano migranti di epoca coloniale, oppure loro discendenti. Il missionario parlò di questa lunga storia e raccontò la vicenda di un ragazzino delle scuole medie il cui nome era stato infangato all’interno dell’annuario scolastico per via delle sue origini coreane. Il ragazzino si era lanciato da un edificio ed era morto. Non lo dimenticherò mai. Dopo aver abbandonato la carriera legale, fin dal 1996 ho deciso di scrivere dei coreani che vivono in Giappone”. 

Vuoi partecipare? 

Sei capitato qui per caso, ma vorresti saperne di più? Se anche tu vuoi partecipare al Book Club PeC leggi qui come farlo. Unico requisito: tanta voglia di leggere.

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