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Pista nera: Rocco Schiavone si presenta

Finalmente colmo questa lacuna nella mia carriera di lettrice di gialli e metto nel carnet Antonio Manzini e il suo Rocco Schiavone. Pista nera è il primo romanzo della serie e devo dire che la trama è interessante e originale. Ora vi racconto.

Trama

Semisepolto in mezzo a una pista sciistica sopra Champoluc, in Val d’Aosta, viene rinvenuto un cadavere. Sul corpo è passato un cingolato in uso per spianare la neve, smembrandolo e rendendolo irriconoscibile. Poche tracce lì intorno per il vicequestore Rocco Schiavone da poco trasferito ad Aosta: briciole di tabacco, lembi di indumenti, resti organici di varia pezzatura e un macabro segno che non si è trattato di un incidente ma di un delitto. La vittima è un catanese, di famiglia di imprenditori vinicoli, venuto tra le cime e i ghiacciai ad aprire una lussuosa attività turistica, insieme alla moglie Luisa, un’intelligente bellezza del luogo che spicca tra le tante che stuzzicano i facili appetiti del vicequestore. Davanti al quale si aprono tre piste: la vendetta di mafia, i debiti, il delitto passionale. Quello di Schiavone è stato un trasferimento punitivo. È un poliziotto corrotto, ama la bella vita. Però ha talento. Mette un tassello dietro l’altro nell’enigma dell’inchiesta, collocandovi vite e caratteri delle persone come fossero frammenti di un puzzle. 

Ad Aosta 

La storia si svolge ad Aosta, dove il vicequestore Rocco Schiavone è stato trasferito per punizione avendo dato fastidio a qualcuno (alla fine verrà spiegato il motivo).  C’è anche da dire che siamo di fronte a un upgrade, una volta per quel tipo di punizioni si veniva spediti in luoghi sperduti delle isole. Vorrei vedere oggi chi considererebbe una punizione essere trasferiti da quelle parti? Rocco Schiavone sì! La considera in quel senso, deve abbandonare la sua Roma. Non potendosi opporre, parte per Aosta, consolandosi con il pensiero che almeno farà una vita tranquilla. Quanto ti sbagli, Rocco Schiavone caro. Come sappiamo, il male si annida sempre sotto il sole.

Un banale incidente, apparentemente 

Convinto di essere arrivato in un posto tranquillo, viene chiamato una sera perché c’è stato un incidente sulle piste di Champoluc. Qui Rocco Schiavone subisce il primo impatto con la sua nuova sede di lavoro, ha un freddo tremendo non avendo le coperture adatte per ripararsi dalle temperature rigide, specialmente per quanto riguarda le scarpe. Di solito, cliché utilizzato quando la protagonista è donna. Ma andiamo avanti: iniziano le indagini e da piccoli elementi, Rocco Schiavone capisce che un apparente banale incidente è in realtà un omicidio. Il vicequestore arriverà alla soluzione dopo minuziose indagini. Interessante il luogo dove viene svelata la soluzione, non proprio la sede adatta per accusare di omicidio un presunto colpevole!

Rocco Schiavone 

A questo punto, dobbiamo parlare del vicequestore, che io incontro per la prima volta non avendo mai visto la serie Rai con Marco Giallini. Rocco Schiavone è un personaggio controverso, ironico, da buon romano, iracondo, nessun rispetto per nessuno, in più corrotto e corruttore, ma che conosce il suo lavoro, che peraltro non gli piace. Aspetta l’occasione buona per filarsela in un paese esotico con la sua donna, contando sui suoi guadagni illeciti. Ma sarà veramente così? O nelle prossime uscite scopriremo altri lati di quest’uomo misterioso?

Gli altri personaggi

Ora veniamo alle note dolenti, il contorno di questa storia, cioè il modo in cui vengono presentati i personaggi. È mai possibile che i nostri agenti vengano spesso rappresentati come una specie di Pulcinella o Arlecchino? Fateci caso, nelle serie straniere è il contrario, quasi sempre esaltano le capacità investigative e tutti collaborano alla soluzione dei casi. Non potremmo prendere esempio? Se, invece, siamo davvero come veniamo rappresentati, allora forse sarebbe meglio glissare…

Voi che ne dite? Siete fan di Rocco Schiavone? preferite il Rocco romanzesco o quello televisivo?

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I romanzi di Rocco Schiavone, in ordine di uscita 

  • Pista nera (2013)
  • La costola di Adamo (2014)
  • Non è stagione (2015)
  • Era di maggio (2015)
  • 7-7-2007 (2016)
  • Pulvis et umbra (2017)
  • Fate il vostro gioco (2018)
  • Rien ne va plus (2019)
  • Ah l’amore l’amore (2020)
  • Vecchie conoscenze (2021)
  • Le ossa parlano (2022)
  • ELP (2023)
  • Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Sud America? (2023)
  • Il passato è un morto senza cadavere (2024)

Passione lontana (e un po’ morbosa) di Liala

Passione lontana di Liala è l’esempio perfetto per spiegare quanto faccia bene partecipare a un book club. Come sapete, Liala è stata la protagonista del nostro penultimo appuntamento libroso nel Book Club PeC, in cui abbiamo scelto di leggere il romanzo preferito o quello che avevamo in casa. Uno (o una) dei partecipanti ha letteralmente “distrutto” Passione lontana: “i due protagonisti non mi piacciono, lo finirò solo perché l’ho iniziato“.  Ovviamente facendo scattare immediatamente in me la voglia di leggerlo. Cosa che ho fatto appena ne ho trovato una copia al mercatino. Ora vi racconto se sono d’accordo con l’altra lettrice/lettore o no…

Trama

Giulietta, allieva del Teatro alla Scala, è pronta per una brillante carriera di prima ballerina, ma l’amore per Vik Gildas, prestigioso giocatore del Milan, avrà la meglio sui suoi sogni d’ambizione. Vik è però legato al ricordo di una donna morta in circostanze misteriose…

Un dark romance

Intanto, questo romanzo di Liala oggi sarebbe classificato come dark romance ed è probabilmente  il motivo per cui non è piaciuto nel book club. Vik è tutto tranne che un cavaliere e Giulietta è una ragazza in cerca di una vita agiata. Oggi sarebbe la classica storia tra calciatore e velina, all’epoca Liala ha dato una veste più consona ai tempi collocando Giulietta come ballerina della Scala, ma la sostanza non cambia. Giulietta è anche una ragazza moderna, tenuta a freno solo dalla madre, molto più rigorosa e tradizionalista. Quando conosce questo giocatore svedese, per lei è amore a prima vista, ma l’ombra di una storia passata di Vik impedisce ai due di amarsi come vorrebbero.

Vik imperdonabile

E da qui, il via a una serie di vicende che li porteranno prima ad allontanarsi e poi, fortunatamente, a ritrovarsi. Devo dire che alla fine sono d’accordo, i protagonisti (e, ahimé, anche i coprotagonisti) non brillano per simpatia e quello che ha fatto Vik non solo è imperdonabile, ma il tentativo di tutti di trovargli una giustificazione è oltremodo fastidioso. E altrettanto fastidioso è il modo in cui quasi tutti giudicano Giulietta per le sue scelte di vita. Per non parlare del fatto che tutti diano per scontato che debba lasciare la sua professione una volta sposata. Se decidete di leggerlo, mi raccomando, mettetevi gli occhiali di una società anni ’50 arretrata. E’ l’unico modo per non chiudere prima della fine!

A voi piace Liala? Qual è il vostro titolo preferito?

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Romancè segreta: Farnesina e Monte Mario

Pensate che l’unico buco della serratura da cui spiare Roma sia sull’Aventino? Inauguro oggi la nuova rubrica Romancè segreta per romancèrs curiosi. Questo è il primo contributo: due sentieri in piena città, per farvi scoprire o riscoprire la capitale da una prospettiva diversa. Soprattutto perché tra illusioni ottiche e uditive vedrete Roma come non l’avete mai vista! Quindi, allacciamo le scarpe e partiamo. Oggi andiamo alla scoperta di Farnesina e Monte Mario, due trafficatissimi colli della parte nord di Roma, conosciuti più per la presenza del Ministero degli Esteri, stadio e osservatorio astronomico che per l’aspetto naturalistico e storico. In realtà, in passato erano un crocevia molto frequentato e anche ora, inerpicandosi all’interno, è possibile quasi sentire i passi degli antenati. Che non sarebbero contentissimi di come li gestiamo, ma questo ve lo racconto all’interno.

Sentiero Colli della Farnesina 

Gli ingressi sono due: si può entrare da via dei Colli della Farnesina, come ho fatto io,  o da via dei Casali di Santo Spirito, accanto al cimitero militare francese. Il percorso è ad anello, quindi sostanzialmente non cambia nulla, dipende solo da quale giro preferite fare. Entrando da via dei Colli della Farnesina, il primo pezzo è in salita e vi consiglio di fare attenzione. Il parco, infatti, è ciclabile con mountain bike e la strada è stretta, quindi è facile incontrare dei pazzi lanciati a tutta birra che non prendono in considerazione gente che sale a piedi. C’è da dire che il parco non è frequentatissimo, almeno in determinati orari, quindi è probabile che la maggior parte delle volte i ciclisti riescano a fare i loro allenamenti senza incontrare anima viva. E anche che le guide dicono di fare il giro in senso orario, ma io non le ho lette e ovviamente l’ho fatto in senso antiorario 😉 

Cimitero militare dei Francesi

Orario o antiorario che sia, mi sono ritrovata dentro un bosco, che finisce in via dei Casali di Santo Spirito, davanti al Cimitero militare dei Francesi. Il cimitero era chiuso, ma anche da fuori è possibile avere una prospettiva del luogo in cui riposano 1888 militari deceduti tra il 1943 e il 1944 in guerra. Un altro monumento dedicato ai soldati francesi caduti in battaglia, stavolta contro la Repubblica Romana del 1849, si trova al Gianicolo.

Lo Stadio Olimpico

Accanto al cimitero, parte il secondo pezzo di sentiero, quello che porta a una specie di terrazzo panoramico, allestito con panchine spartane, presumo dai frequentatori, essenzialmente padroni dei cani che qui circolano liberamente. Da qui, il panorama comprende lo Stadio Olimpico, il Foro italico e il Tevere dal centro alla sinistra e Monte Mario con Villa Madama a destra. Qui è fantastica l’illusione ottica, perché Stadio e Foro Italico sembrano vicinissimi e molto grandi, quando in realtà sono abbastanza distanti! Prima che costruissero la copertura dell’Olimpico, infatti, i tifosi senza biglietto si radunavano qui per seguire la squadra del cuore anche da lontano. 

Il rientro

Il giro sostanzialmente finisce qui, a meno che non vogliate allungare verso la Valle di Farneto, dove io però non sono arrivata. Non resta che tornare indietro e ripercorrere l’anello in direzione contraria. Verso la fine, un’altra sorpresa “illusionistica”, stavolta uditiva. Alla fine dell’anello, proprio nei pressi del cancello di via dei Colli della Farnesina, il frastuono delle macchine che percorrono la trafficata Tangenziale est sottostante, mi dicono che sono arrivata. Ma girando per l’ultima discesa prima dell’uscita, miracolosamente i rumori cessano e torna il silenzio del bosco! 

Riserva di Monte Mario: la collina dell’osservatorio

Questo percorso è di circa 1 chilometro e dura 40 minuti. È possibile entrare da Viale del Parco Mellini o da piazzale Maresciallo Giardino, come ho fatto io. Il sentiero della riserva di Monte Mario è percorribile tutto l’anno, perché rispetto all’altro è meno “selvaggio” e quasi tutto asfaltato, ma salite e discese sono ripide, perché raggiunge i 139 metri di altezza. Anche se viene chiamato Monte, è in realtà un colle, che al tempo degli antichi romani ospitava le ville residenziali di poeti e nobili, che qui trovavano refrigerio dall’umidità del fiume sottostante. Era anche attraversato dagli eserciti di ritorno dalle campagne militari. La stessa strada che più tardi percorsero i pellegrini che si recavano a Roma, perché questo è di fatto l’ultimo tratto della via Francigena, con l’arrivo a San Pietro. 

Tornanti e scalette

Entrando ci sono due possibilità: o affrontare i tornanti, o abbreviare salendo le scalette che portano in cima. Dipende dal tempo che avete: io ho fatto i tornanti all’andata e mi sono affrettata per le scalette al rientro, perché i cartelli di avviso del pericolo cinghiali e il buio incombente mi hanno spinto ad accelerare il passo! Comunque di cinghiali, o altri animali, neanche l’ombra. Anche se il sito viene segnalato per le caratteristiche uniche del territorio e per la sua particolare flora e fauna. Sembra, infatti, che Monte Mario custodisca tracce di epoca preistorica e quindi segni di insediamenti umani fino all’epoca romana, dove svolse ruolo di avamposto commerciale. Diventato terra di coltivazione nel medioevo, durante il Rinascimento è oggetto di diversi interventi edilizi, fino al quasi abbandono dei giorni nostri. 

Villa Mazzanti 

Fu costruita alla fine del XIX secolo dall’ingegnere Luigi Mazzanti su un preesistente edificio appartenuto alla famiglia Barberini. Espropriata nel 1967, è diventata parco pubblico di quartiere. Originariamente, il parco della villa si estendeva fino a viale Angelico, dove c’era un vivaio, Piazzale Maresciallo Giardino e via Gomenizza, dove c’era una zona coltivata a orto. Lo stile è quello di un parco all’inglese con roccaglie, ripidi vialetti e fontane rustiche a scogliera di tufo. Quando fu costruita, c’era la moda di imitare le ville storiche nobiliari e questo è chiaramente visibile fin dagli esterni. Da un punto di vista architettonico, infatti, la villa non è grandissima ma fonde elementi dell’architettura rinascimentale e classica con temi fantasiosi, simbolici o dal sapore esotico. Una bella copia, insomma.

Villa Mellini

Si trova quasi alla sommità del parco ed è una delle poche ville quattrocentesche superstiti. Fu fatta costruire dal cancelliere perpetuo del Comune Mario Mellini durante il pontificato di Sisto IV (1471-1484). Sembra che Wolfgang Goethe amasse passeggiare nel parco Mellini e descriverne le bellezze naturali. Come Wordsworth, che gli dedicò il sonetto “The Pine of Monte Mario at Rome”: 

I saw far off the dark top of a Pine 
Look like a cloud—a slender stem the tie 
That bound it to its native earth—poised high 
‘Mid evening hues, along the horizon line, 
Striving in peace each other to outshine. 
But when I learned the Tree was living there, 
Saved from the sordid axe by Beaumont’s care, 
Oh, what a gush of tenderness was mine! 
The rescued Pine-tree, with its sky so bright 
And cloud-like beauty, rich in thoughts of home, 
Death-parted friends, and days too swift in flight, 
Supplanted the whole majesty of Rome 
(Then first apparent from the Pincian Height) 
Crowned with St Peter’s everlasting Dome.

I pini domestici e la vista su Roma dovevano piacere moltissimo agli artisti, se anche William Turner fece un disegno intitolato “Stone Pines on Monte Mario, with a View of Rome from near the Villa Mellini”.

Stone Pines on Monte Mario 1819 Joseph Mallord William Turner 1775-1851 Accepted by the nation as part of the Turner Bequest 1856 http://www.tate.org.uk/art/work/D16337
Stone Pines on Monte Mario 1819 Joseph Mallord William Turner 1775-1851 Accepted by the nation as part of the Turner Bequest 1856 http://www.tate.org.uk/art/work/D16337

Nel 1935 la villa divenne sede dell’Osservatorio Astronomico di Monte Mario e del Museo Astronomico e Copernicano: il primo comprende due cupole principali dove si trovano gli equatoriali per l’osservazione degli astri e una Torre Solare entrata in funzione nel 1958. L’Osservatorio è rimasto in funzione fino al 2000, poi l’attività di osservazione si è trasferita a Monte Porzio Catone. Oggi, è sede della dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF).

La Terrazza dello Zodiaco e il Vialetto degli innamorati

Questo è il mio grande dispiacere. Avrebbe dovuto essere il punto d’arrivo della camminata, quello più romantico, al tramonto, mentre le luci si abbassavano su una vista spettacolare. E invece, la vista spettacolare più o meno c’è, ma che peccato vedere incuria e abbandono dove un tempo c’erano vita e coccole! Il ristorante Lo Zodiaco, famosissimo, e il bar adiacente sono infatti chiusi da due anni per fallimento e, da allora, tra crollo alberi e mancata manutenzione, direi che di romantico è rimasto ben poco. Vale comunque la pena di arrivare fin quassù per il panorama che si apre sul Tevere, quando le luci della città si abbassano e restano quelle di lampioni, macchine e case. Il momento è sicuramente suggestivo e so che vi piacerà. Attenzione però! Sbrigatevi a scendere prima che faccia buio per tornare indietro, perché quando calano le luci il parco diventa la casa dei cinghiali!

Che mi dite? Vi è piaciuta questa prima puntata di Romancè segreta? Se vi va, iscrivetevi alla newsletter per seguire le prossime puntate!

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Un giorno a Roma per innamorarsi – Mark Lamprell

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Il giardino d’inverno di Bomarzo

Il giardino di Bomarzo è sacro o mostruoso? Questo è il dilemma che affligge da anni i visitatori di questo museo così particolare. E’ proprio il caso di ribadire che tutto dipende da come guardi il mondo. Il perché ve lo spiego subito, venite con me a scoprire Bomarzo e i suoi misteri, ideali per una breve scappatella invernale.

Voi che per il mondo andate errando…

Voi che pel mondo gite errando vaghi di veder meraviglie alte et stupende venite qua dove son faccie horrende, elefanti, leoni, orsi, orche et draghi” è la frase che accoglie chi visita il Parco dei Mostri di Bomarzo. A leggerla oggi, la frase suona ironica. Caro Vicino Orsini, è proprio perché non posso errare per il mondo che sono giunta fino a te! La strada per arrivare al parco era immersa nella nebbia e un tantino lugubre. All’ingresso, hanno anche controllato il greenpass, pur essendo un luogo completamente all’aperto e che favorisce il distanziamento naturale. “E’ perché siamo considerati museo”, mi spiegano alla cassa. E anche un tantino esoso come museo: 13 euro che dovrebbero, e sottolineo dovrebbero, servire a manutenere il giardino in ottimo stato. 

Sacro o dei mostri?

Finite le critiche, ora vi racconto la passeggiata, che è stata molto piacevole. Vi dicevo all’inizio che la “critica” si spacca in due. Chi lo considera mostruoso, chi lo considera sacro. Da che dipende? Dipende dalla prospettiva con cui osserviamo la costruzione. Se il visitatore è religioso, troverà ispirazione religiosa, se si fa prendere dall’atmosfera esoterica, lo troverà “mostruoso”. In realtà, la tesi più accreditata oggi è che gli elementi del parco siano null’altro che dipendenti dalla volontà del suo possessore e che rappresentino, visti nel complesso, una sorta di “autobiografia” per immagini. Il che, se ci pensate, è un’idea affascinante: secoli dopo, noi giriamo per il bosco, cercando di farci un’idea del suo ideatore.

Chi era Vicino Orsini?

Pier Francesco Orsini, detto Vicino come vezzeggiativo familiare, era il figlio di Giancorrado e della seconda moglie, Clarice Orsini, che però si allontanò da casa quando i figli erano ancora piccoli. Vicino sposa Giulia Farnese e subito dopo il matrimonio si dedica alla carriera militare fino al 1557, quando si ritira a vita privata nel suo palazzo di Bomarzo, dopo aver girato in lungo e largo per l’Europa. E’ in questo momento della sua vita che decide di progettare il Sacro bosco, progetto che riceve nuova spinta dalla morte della moglie e dalla delusione per le vicende politiche in cui si era ritrovato come militare. E’ un po’ come se il bosco fosse per Vicino un suo buen retiro dalla società e dalla vita pubblica. Complice anche la contemporanea costruzione del cugino ricco, Alessandro Farnese con la sua sfarzosa dimora di Caprarola, Vicino probabilmente volle un luogo seminascosto da cui osservare dal basso gli opulenti possedimenti di quel ramo della famiglia. 

Arte o inganno? 

Tratteggiare, anche velocemente, la personalità di Vicino è fondamentale per cercare di capire quello cui ci troviamo di fronte. Forse ci sta prendendo in giro? All’ingresso, una sfinge reca questa scritta: “Tu ch’entri qua pon mente / parte a parte /e dimmi se tante /maraviglie / sien fatte per inganno / o pur per arte”. Dove finisce l’inganno e inizia l’arte? Pensateci, di solito è un tema che emerge quando si discute di arte moderna. In questo caso, il tempo ha dato risposta? Me lo direte voi. Per quanto mi riguarda, direi di aver trovato la mia risposta. Il bosco è un’allegoria della vita e delle esperienze di Vicino, niente di più e niente di meno. La compagnia e il nascondiglio che il nobile ha riservato ai suoi ultimi anni di vita. Un po’ come fa uno scrittore quando scrive un libro, trasfigura le sue esperienze e dà loro forma. Vicino l’ha fatto con la natura e creazioni dell’uomo, dando vita a un unicum nel suo genere. Se osservate statue, animali e costruzioni in quest’ottica, potrete idealmente vedere Vicino passeggiare accanto a voi. E forse ridere di qualche espressione sconcertata.

L’itinerario

Il percorso all’interno del Bosco sacro di Bomarzo non è obbligato, ma abbastanza indirizzato dalla mappa che consegnano alla cassa. Ci sono 40 elementi e ora vi darò una rapida panoramica di quelli che mi hanno colpito di più. Poi sarete voi nei commenti a dirmi quali vi sono rimasti impressi e perché.

Il fier gigante

Un gigante anche nelle dimensioni, ritratto mentre sbatacchia a terra un avversario. Vicino in una sua lettera lo chiama Orlando, facendo presupporre con ragionevole certezza che abbia tratto ispirazione proprio dai versi dell’Ariosto: “Ma quel (Orlando) nei piedi, ché non vuol che viva, / lo piglia… / e quanto più sbarrar puote le braccia, /le sbarra sì, ch’in duo pezzi lo straccia”.

La casa pendente 

Potrebbe sembrare il frutto di una stravaganza architettonica di Orsini. Invece, un po’ come è successo alla Torre di Pisa, la pendenza è semplicemente frutto di un cedimento del terreno, nessuna ipotesi fantasiosa è concessa. Quale avrebbe dovuto essere la funzione di una casetta così ridotta, è invece ancora oggi un mistero. Forse, un luogo di riposo o di svago per gli ospiti del giardino, o per il padrone stesso. Comunque, è possibile entrarci, ma attenzione perché se soffrite di vertigini si faranno sentire.

L’orco

L’orco è abbastanza impressionante, tanto più che con quella bocca spalancata e gli occhi vuoti, ti invita a salire le scalette per entrare all’interno. E tu lo farai, certo che lo farai. Gli studiosi hanno pensato per anni che fosse un riferimento all’Inferno di Dante. Invece no, oggi sembra più rifarsi alle maschere tragiche della classicità, o a quelle etrusche della zona di Cerveteri, poco distante dal viterbese (anch’io ho una collana da qualche parte). Una volta dentro, vi troverete in una stanza con una tavola al centro e i sedili scolpiti nella pietra. “Ogni pensier vola“, la scritta incisa sul labbro superiore, mi ha fatto pensare a un posto dove perdersi, senza pensare a niente. Magari con una bottiglia di vino, da qui la necessità di un tavolo. Ma sono solo mie fantasticherie, nulla più.

Cerere, Nettuno e la ninfa dormiente 

Su questo trittico, altro che il pensiero vola. Ho proprio creato un romance. Allora, in una piazza quadrata si trovano Nettuno a capotavola, Cerere all’altro capo, spostata su un angolo, e la ninfa dormiente fuori dalla piazza, nei pressi di Nettuno ma seminascosta, con un cane a farle compagnia e da guardia. Ovviamente, con la fantasia galoppante che mi ritrovo, per quanto mi riguarda rappresentano Vicino, la moglie Giulia e la giovane amante di Vicino, che esisteva veramente e gli fu accanto dopo la morte della moglie. Oppure, potrebbe essere Adriana dalla Roza, una giovane romana conosciuta a Venezia in gioventù e di cui si era innamorato. Chissà. Che ne pensate di questa libera interpretazione delle tre statue?

Vi piace l’idea di visitare il Bosco di Bomarzo? Conoscete altri giardini o boschi interessanti da visitare? Datemi suggerimenti nei commenti!

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Daniela Amenta e La ladra di piante di Monteverde vecchio

Daniela Amenta è una giornalista romana di lungo corso, esperta di musica rock e politica, due mondi che sembrano lontani anni luce, ma che in comune hanno la passione. La stessa passione che muove i protagonisti: per le piante lei, per la musica lui. In mezzo, un delitto, un’inchiesta, un informatore e una Roma immersa in una cappa d’afa. E non solo.

Trama

Quell’estate a Roma faceva molto caldo. E quando Roma si arroventa perde la sua grande bellezza e si trasforma in una città dura, arrogante, coperta da un vapore insopportabile, segnata da odori di sangue e mentuccia. Qui c’è chi sopravvive rubando piante dagli androni dei portoni, chi cura gatti randagi e chi ascolta jazz e rock’n’roll. Una giovane donna dai capelli rossi, un cronista esausto a caccia di tenerezze e un vecchio giornalista che sta perdendo la memoria si incrociano ai margini della scena di un crimine. Dove sfilano badanti, redattori di giornali che inseguono scoop, giardinieri che conoscono la vita segreta delle orchidee, Bill Evans, i Clash e Pasolini. È la Roma del quadrante sud, quella che guarda il mare attraverso il percorso del Tevere. Un pezzo di metropoli trasformato in una mappa di luoghi e sentimenti dove, nonostante l’afa, crescono ancora le Aspidistre. E piccoli sogni di resurrezione e d’amore.

Amo et odio

Daniela Amenta ama e odia Roma. Si vede, si sente, si respira in ogni pagina di questo romanzo. Daniela Amenta, evidentemente, è una romana d.o.c., perché è così che si sente un romano. Ostaggio di una città e della sua bellezza. Una bellezza di cui si riempie la bocca “solo chi vive in certi quartieri e la vede da certe terrazze”. Tutti gli altri, devono trovare un modo per sopravvivere ai suoi tentacoli. E ad affitti in nero in case microscopiche. Ecco che, allora, un terrazzo può diventare un giardino botanico di piante dal salvare, un vinile l’unica ancora di salvezza nella vita, i gatti, un motivo per uscire di casa e riscoprire una coscienza civile.

Sopravvivere alla città

C’è Anna dai capelli rossi, ma chissà se le piacerebbe essere chiamata così, dato che anche il personaggio più famoso di lei lo odiava. Anna vive una vita sospesa, come tanti trentenni di oggi. Anna ha un mezzo contratto, a pochi soldi, e deve farselo piacere in qualche modo. Per sopravvivere, ruba piante. Sì, è lei la ladra di piante, preferibilmente quelle mezze smorte abbandonate negli androni dei condomini, che lei tenta disperatamente di salvare. C’è Riccardo, giornalista esperto. Lui si che ha un bel lavoro, ma non lo fa più con passione. E’ stanco delle notizie copia-incolla, stanco di direttori che non capiscono niente e seguono logiche di mercato che poco hanno a che fare con la qualità dell’informazione. C’è Lanfranco, un vecchio informatore, che vecchio lo sta diventando sul serio e sente che la memoria inizia a vacillare.

Sono entrata in questo orto, nel mio Getsemani pensile, all’ottavo piano di un palazzo perbene. C’è di tutto, qui. Piante sbilenche, rigogliose, piante con le flebo, piante mezze morte, malconce, c’è un tappeto di Aspidistre, ci sono quelle stronze di acidofile, le camelie e un rododendro che mi fa impazzire, ci sono le gardenie amatissime e piante di cui non so il nome. 

Certe atmosfere

Daniela Amenta conosce bene Roma, i personaggi che la popolano, è stata cronista di nera, e certe atmosfere che l’avvolgono in estate. E’ forse questa la parte più godibile del racconto, quella che mi ha conquistato. Se volete leggere di una Roma non da copertina, ma neanche criminale, che oggi le polarizzazioni vanno tanto di moda, questo romanzo vi offrirà una prospettiva diversa e affascinante, suo malgrado. Se amate le piante, non potrete non riconoscervi nell’opera pia che mette in piedi Anna, ma quale ladra? E, soprattutto, come sto facendo io in questo momento, nel cercare di capire quale parte del seme di avocado vada in acqua. Se vi piace la musica rock, quella senza autotune, troverete spunti interessanti. La storia di Daniela Amenta scorre via con facilità e si legge con piacere. A patto di sorvolare su qualche stereotipo di troppo, il vivaista contadino che assume solo stranieri “perché lavorano di più”, per esempio, la violenza di genere che viene infilata un po’ a forza, e francamente non necessaria e neanche approfondita a dovere, e su un giallo che parte troppo tardi e si risolve troppo presto.

“E secondo te, Valdesi, ci avrebbe fatto schifo qualche altro giorno di suspense…? Ecco, anche io sono d’accordo con il direttore, per una volta: qualche altra pagina di suspense non ci avrebbe fatto schifo.

Un’altra polarizzazione

Rimangono le descrizioni vivide di una città che non è come la squadra, che si ama e basta. Roma, se la ami, la ami e la odi, non c’è spazio per le vie di mezzo. Un’altra polarizzazione, a ben pensarci.

La casa era un ex lavatoio, ma in compenso aveva uno spazio esterno «sublime», come aveva detto la signorina Natalia facendogli firmare una stipula di comodato d’uso gratuito per 18 mesi. Per gratuito s’intendevano 800 iuros in nero, cash. Però il panorama valeva la pena e, in qualche modo, anche la truffa. Da lì prendeva forma la periferia dissennata di Roma che iniziava da Trastevere: una fila di parabole e cemento, treni e mattoni si allungava verso viale Marconi. Oltre s’ergeva, sferica e di salnitro, la torre del Gazometro. Si vedevano le pendici di Garbatella che, a un tratto, perdeva i toni pastello dei tetti per diventare di acciaio all’Eur. Si vedeva la cappa d’afa su Portuense e il verde spento dei platani ad accompagnare il viaggio del Tevere. E in certi giorni speciali la facciata d’oro di San Paolo brillava come una medaglia sul petto di questa città sfacciata. 

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