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Vera, di Elizabeth von Armin, tra modernità e ironia la condizione della donna

Vera è il primo romanzo di Elizabeth von Armin che leggo, a detta della stessa autrice quello che meglio la rappresenta. Perché in questa storia di rapporto coniugale c’è molto della sua vita “vera”, anche se la sua scrittura brillante fa emergere fin dall’inizio l’archetipo dell’amore malato. Mi piacerebbe aggiungere “che affliggeva le donne nel passato”, ma in realtà è una condizione ancora ben presente nella società attuale. Di Vera, e delle donne come lei, possiamo leggere tutti i giorni sul quotidiano, il più delle volte per commentare con un rip, aspettando la prossima.

Trama

Lucy Entwhistle, ventiduenne ancora un po’ bambina, e Everard Wemyss, bell’uomo maturo, sono entrambi in lutto quando si incontrano per la prima volta: lei ha appena perso l’adorato padre, lui la moglie Vera. Consolandosi a vicenda, finiscono per innamorarsi e si sposano in fretta. Dopo le nozze vanno a vivere nella casa di lui, un luogo intriso di rituali dove aleggia lo spettro della prima moglie Vera, scomparsa in circostanze misteriose. Ed è fra queste mura che Lucy comincia a chiedersi: cos’è successo davvero a Vera?

Un uomo semplice 

La morte di Vera è stata accidentale, questo Everard racconta a Lucy. E perché lei non dovrebbe crederci? E’ sempre vissuta protetta dal padre, il suo scudo, il suo filtro per capire il mondo. Certo, il padre e i suoi amici facevano discorsi che Lucy non riusciva a comprendere del tutto, se non dopo le spiegazioni dell’adorato papà. Invece, Everard è un uomo semplice, che parla in modo semplice, che è deciso a vivere la vita secondo le sue granitiche convinzioni. Everard è un’ottima spalla cui appoggiarsi, ora che suo padre non c’è più. Perché, però, l’adorata zia, la sorella del padre, arguta come lui, non lo considera un buon partito per la sua preziosa nipote? Anche la zia non saprebbe dire perché, ma c’è qualcosa in quell’uomo che lei proprio non riesce a digerire.

 Semplice e indigeribile

Segnatevi queste parole, se deciderete di leggere il romanzo: semplice e digerire, perché solo la chiave per interpretare lo svolgimento dei fatti. Everard è un uomo tutt’altro che semplice; piuttosto, è “uno scolaro bisbetico, che si comportava da maleducato; ma sfortunatamente, uno scolaro dotato di potere“. E anche se “Lucy scoprì che il matrimonio era diverso da come l’aveva immaginato. Anche Everard era diverso. Tutto era diverso”, c’è ben poco che il/la partner con la posizione più debole possa fare. Soprattutto una ragazza immatura come Lucy, abituata alla gentilezza e alla protezione del suo piccolo mondo familiare. Per una ragazza come Lucy, è facile convincersi di essere nel torto: “Lizzie era via da neanche cinque minuti che Lucy era già passata dall’infelicità e dallo smarrimento al giustificare il comportamento di Everard; nel giro di dieci minuti ebbe ben chiare le buone ragioni per cui si era comportato in quel modo; in capo a un quarto d’ora si era addossata tutta la colpa per gran parte di ciò che era successo.”

I salici (piangenti)

Ora, saremmo tutti portati a dire che la soluzione sia in fondo semplice. Il marito si rivela per quello che è, manipolare, egocentrico, uno che fonda i suoi rapporti sul terrore e la sottomissione, mascherando la dittatura con un linguaggio lezioso e improponibile passati i quindici anni di età (e forse anche prima), esprimendosi a più riprese con cuoricino, gattina, sciocca scemottina, e amenità di questo genere. La residenza di campagna in cui Lucy si ritrova, The willows, I salici piangenti non a caso, è a sua immagine e somiglianza, ci sono delle belle pagine in cui Elizabeth von Armin induce nel parallelismo tra casa e padrone. Padrone, sì, perché ovviamente il proprietario incontrastato è solo lui. Anche i domestici, sono testimoni silenziosi, molto silenziosi, dei suoi atteggiamenti. Perché lui ha il potere, il potere di pagare profumatamente il loro silenzio. Tanto che l’unica alleata per Lucy diventa proprio…Vera, la prima moglie di Everard, che pervade tutta la casa con il suo spirito. Però siamo sinceri, quante donne ancora oggi sopportano in silenzio senza reagire? Oppure reagiscono, e finiscono per essere maltrattare proprio da chi dovrebbe proteggerle? E cosa dovremmo aspettarci da una fanciulla di inizio novecento? Che coraggiosamente divorzi?

Modernità e ironia

Come finirà? Non ve lo dico, gustatevi la lettura. Dico solo che forse il finale non è poi così importante. O forse sì, dipende dai punti di vista. Quello che conta, a mio avviso, è la modernità con cui Elizabeth von Armin affronta un tema da lei probabilmente vissuto in prima persona. Con il coraggio e la forza di uscirne, vivendo una vita piena e indipendente dopo due matrimoni disastrosi. E l’ironia con cui lo affronta, spezzando i toni cupi della tortuosa vicenda matrimoniale. Tipicamente inglese è il suo gusto per i particolari, apparentemente insignificanti, che tratteggiano un’epoca. In alcuni punti, quando a parlare sono i domestici, ho sentito l’eco di Quel che resta del giorno, di Kazuo Hishiguro, scritto decenni dopo. Nell’atmosfera generale, nell’ambientazione e nella figura femminile che dà il nome al romanzo, indubbiamente Rebecca, di Daphne Du Maurier. La quale certamente conosceva questo romanzo, sono sicura, giungendo a conclusioni diametralmente opposte, però. Come sapete, Daphne Du Maurier è stata accusata a più riprese di plagio per Rebecca, ma da Elizabeth von Armin posso dire che ha preso solo spunto, nient’altro. Mentre Elizabeth von Armin conosceva e apprezzava Cime tempestose di Emily Brontë, che fa comparire in braccio a Lucy nel momento più opportuno. Ed era la cugina di Katherine Mansfield: poco ma sicuro che le due cugine sugli uomini la pensassero nello stesso modo!

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Intanto, chiedo a voi: avete letto qualcosa di Elizabeth von Armin? Quale titolo vi è piaciuto di più?

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Daphne Du Maurier, il lato oscuro di una scrittrice di successo

Inventa personaggi inquietanti, ambientazioni misteriose e condisce le sue storie con un mix di romanticismo e violenza unico nel suo genere, senza mai chiudere con un finale degno di questo nome, come se ogni suo lavoro non dovesse mai avere fine. Come il suo rapporto d’amore con le scogliere della Cornovaglia. Daphne du Maurier ha legato la vita reale e la finzione in modo che, forse, neanche lei sapesse più dove finiva una e iniziava l’altra. La sua biografia, infatti, non è certo da romance come quella di Rosamunde Pilcher, ma è degna di uno dei suoi romanzi. E di un alter ego, Rebecca, di cui mai è riuscita a liberarsi.

What a pity I’m not a vagrant on the face of the earth,” du Maurier wrote in her diary at 21. “Wandering in strange cities, foreign lands, open spaces, fighting, drinking, loving physically. And here I am, only a silly sheltered girl in a dress, knowing nothing at all — but Nothing.”

Peccato che non sia una vagabonda sulla faccia della terra”, scrisse a 21 anni nel suo diario.”Vagando in strane città, terre straniere, spazi aperti, combattendo, bevendo, amando fisicamente. Ed eccomi qui, solo una sciocca ragazza nascosta in un vestito, che non sa niente di niente”.

Dame Daphne du Maurier, Lady Browning

Dame Daphne du Maurier, Lady Browning, nacque a Londra il 13 maggio 1907, ultima di tre sorelle. I genitori, Gerald du Maurier e Moriel Beaumont, avevano entrambi un passato di attori teatrali. Gerald era stato anche impresario ed era figlio di George, scrittore e fumettista, nonché fratello di Sylvia, i cui figli ispirarono il Peter Pan di Sir James Matthew Barrie. Nel 1916 la famiglia Du Maurier si trasferì a Cannon Hall, una villa di stile georgiano ad Hampstead, Londra, quartiere considerato il sobborgo di intellettuali, artisti, musicisti e scrittori e dove ancora oggi sono ubicate alcune delle ville più costose del mondo. Daphne e le sorelle frequentarono la St. Margaret’s School, una scuola per ragazze di Oak Hill Park.

Una famiglia scomoda

Insomma, la vita di Daphne sembra iniziare nel migliore dei modi. Famiglia benestante, genitori artisti e un ambiente vivace in cui crescere. Ma la personalità complessa del padre ha un’enorme influenza sulla crescita delle figlie e sul loro futuro. Dicono di lui che fosse un uomo alla mano, divertente e un bravo imitatore. Daphne era la sua preferita, ma il suo amore eccessivo poteva diventare opprimente. Si comportava come un amico a cui poter confidare anche i più intimi segreti, ma guai se una delle figlie manifestava una qualsiasi volontà di rendersi indipendente. Diventava un padre “vittoriano”, rigido e intransigente. Daphne raccontava spesso di quanto fosse difficile vivere con lui ed essere figlia e nipote di personaggi famosi. Il suo successo come scrittrice arrivò quando Gerald, “D” come lo chiamava la figlia, era già morto; per lui, sarebbe stato probabilmente un colpo ferale essere messo in ombra dalla figlia. Non solo, negli ultimi anni alcune biografie non autorizzate suggeriscono che dietro i rapporti difficili tra padre e figlia ci fosse ben altro, come vedremo più avanti e come avevamo già visto per Virginia Woolf

A Parigi l’incontro con il sesso

La scrittura diventa per Daphne una via di fuga dall’atmosfera familiare. Incoraggiata a scrivere da una governante, la ragazza usciva tutti i giorni per lunghe passeggiate vicino casa e camminando ideava trame e personaggi. Nel 1925 lascia Londra per frequentare una scuola di perfezionamento a Parigi e qui incontra una donna che cambierà la sua vita. Daphne s’innamora, infatti, della preside della scuola, di dodici anni più grande. Non è solo il suo primo amore, ma è anche una persona che la incoraggia a scrivere, a coltivare un’arte e a vivere una vita segreta, che sarà poi fonte continua d’ispirazione per i suoi libri.

The boy in the box

Naturalmente, a casa e non solo Daphne continua a nascondere quel rapporto proibito, così come nasconde altre storie d’amore, per esempio quella con Gertrude Lawrence nel 1948. Anche perché sembra che la Lawrence abbia avuto un flirt anche con il padre dell’autrice. Il rapporto con la sua sessualità è complesso: la scrittrice odia la parola lesbica e non si considera bisessuale. Chiama quella parte della sua personalità “The boy in the box”, il ragazzo in scatola, intendendo dire che sentiva di possedere un cuore di ragazzo dentro un corpo di donna. Questa duplicità è chiaramente percepibile nell’ambiguità di fondo che sotterraneamente pervade i suoi romanzi. D’altra parte, anche il padre, che era conosciuto per essere fortemente omofobo, in realtà secondo Daphne nascondeva una natura sessuale fortemente ambigua.

A Fowey, in Cornovaglia

Dopo aver completato gli studi, torna in Inghilterra per seguire la famiglia che nel frattempo si è spostata a Fowey, in Cornovaglia, in una casa chiamata Ferryside. Proprio a Fowey c’è una casa elisabettiana, Menabilly, da sempre di proprietà della nobile famiglia Rashleigh e che è stata l’ispirazione, insieme a Milton Hall, Cambridgeshire, per “Manderley”, la casa dei coniugi de Winter nel romanzo Rebecca (1938). Come Menabilly, l’immaginario Manderley era nascosto nei boschi e non poteva essere visto dalla riva.

Il padre Gerald

Il rapporto con il padre continua a essere complesso e burrascoso. I vicini di casa non possono fare a meno di notare che lui sia estremamente “tattile” con la sua figlia preferita, tanto da risultare spesso “imbarazzante”. Daphne incoraggia queste intimità inappropriate. “Abbiamo superato il limite“, ammette nel 1965, “e l’ho permesso, mi ha trattato come un’attrice che interpretasse un ruolo romantico in una delle sue commedie“. Durante l’adolescenza, l’atteggiamento di Daphne verso suo padre cambia bruscamente. Comincia a rendersi conto delle sue frequenti scappatelle con giovani attrici e reagisce con un misto di gelosia e profondo risentimento per l’umiliazione causata a sua madre. Una delle sue molte amanti era Gertrude Lawrence, che Daphne odia profondamente “quella maledetta cagna” ma con cui più tardi lei stessa avrà una relazione. Forse, sussurra qualcuno, come vendetta postuma per rovinarle la reputazione nell’ambiente teatrale.

Daphne e Francis Scott Fitzgerald

tender isA 19 anni, il fotografo Cecil Beaton la ritrae in primo piano, con i capelli acconciati e le spalle scoperte, in una posa fresca e giovane e allo stesso tempo sensuale. La foto viene scelta da Penguin per la copertina del romanzo di Francis Scott Fitzgerald “Tender is the Night”, senza però citare il nome di Daphne du Maurier nei credits.

Il debutto

ferrysideNel 1931, a soli 23 anni, grazie anche all’aiuto di uno zio editore Daphne pubblica il suo primo libro The Loving Spirit, Spirito d’amore, la storia di una famiglia di piccoli armatori della Cornovaglia. “The loving spirit fu ispirato dal senso di libertà che la mia nuova esistenza a Ferryside riuscì a portare“. Ferryside era un edificio in granito costituito in origine da un’officina, un cortile e una banchina di un vecchio cantiere navale. Nei suoi 200 anni di vita, è ancora oggi funzionante e visitabile, la banchina originale è stata trasformata in un giardino domestico, il soppalco ospita camere da letto e un bagno, e l’ex negozio di barche è divenuto il salotto della famiglia. Le famiglie che negli anni ’20 davano nuova vita a vecchi ruderi, trasformandoli in case per le vacanze, diedero un impulso notevole all’economia cornica del periodo. Solo che per Daphne, quella che doveva essere una casa per le vacanze, si trasforma nel luogo del cuore e le fornisce ispirazione per la sua prima prova di autrice.

Il matrimonio

famigliaSuccessivamente, mentre gli altri parenti tornano a Londra, decide di rimanere a Fowey. L’anno successivo, nel 1932, Daphne sposa sir Frederick Arthur Montagne Browning, maggiore dell’esercito ed ex atleta olimpico di bob, con un’intima cerimonia in Cornovaglia. L’unione causa al padre di Daphne una crisi nervosa. Dall’unione nascono tre figli: Tessa (1933), Flavia (1937) e Christian (1940), tutti ancora viventi. Per l’attività del marito, la coppia nel 1939 si trasferisce ad Alessandria d’Egitto, dove Daphne scrive Rebecca, la prima moglie, il suo romanzo più conosciuto, lasciando le prime due figlie in Inghilterra, con le tate e i nonni, “Io non sono una di quelle madri che vivono per avere i loro marmocchi con loro tutto il tempo“.

Nel 1934 Gerald muore a 61 anni. Daphne non partecipa al funerale, ma scrive una sua biografia, rivelando quanto fosse vanitoso, amante dell’alcol e di umore instabile.

Jamaica Inn (Taverna della Giamaica, 1936)

IMG_6464Cinque anni dopo il suo esordio, Daphne ottiene il suo primo grande successo. Jamaica Inn è stato anche il primo suo romanzo a essere portato sul grande schermo. L’attore Charles Laughton acquistò i diritti del film e nominò Alfred Hitchcock come regista. Hitchcock conosceva bene i Du Maurier, avendo già lavorato con il padre attore-manager, ma aveva dei dubbi sul progetto, soprattutto per la tendenza di Laughton a voler comandare su tutto, lasciando poco spazio al contributo creativo della regia. Come previsto da Hitch, Laughton dominò il film, mentre Daphne Du Maurier arrivò a odiarlo e Hitchcock a ignorarne l’esistenza.

Rebecca (1938)

rebeccaRebecca viene pubblicato nel 1938, quando la scrittrice ha 31 anni, ed è subito un successo clamoroso, l’opera e il personaggio con i quali verrà poi identificata e riconosciuta per tutta la vita. Rebecca finisce per diventare la sua ossessione, un’ombra dalla quale non riuscirà mai a liberarsi. Tanto che nel 1943 la scrittrice andò a vivere in affitto proprio a Menabilly, rimanendoci fino al 1964, quasi come se volesse identificarsi con l’eroina della sua storia più famosa. E’ incredibile come a volte la vita reale e quella romanzesca si intreccino: Rebecca, infatti, nasce dopo che Daphne scopre casualmente un fascio di lettere d’amore scritte al marito dalla sua ex fidanzata, Jeannette Louisa Ricardo, detta Jan, una donna dai capelli neri di straordinaria bellezza. Parente dell’economista David Ricardo, Jan potrebbe essere definita una Kim Kardashian dell’epoca. Al centro della movimentata vita sociale londinese, Jan si riconobbe nel personaggio di Rebecca. Anche se lei e Daphne non si incontrarono mai, infatti, Daphne scrisse questo romanzo per esorcizzare l’ombra della prima promessa sposa del marito. Lei e Browning avevano annunciato per ben due volte il matrimonio, disdicendo entrambe le volte. Due anni dopo, Browning aveva sposato Daphne. Quest’ultima, tuttavia, era convinta che l’uomo fosse ancora innamorato di Jan, fino a diventarne ossessivamente gelosa. In quelle lettere, a colpirla in modo particolare fu la “R” Ricardo nella firma di Jan. Ricordate Rebecca? La seconda moglie trova una dedica di Rebecca per Max dentro un libro che appartiene all’uomo e odia la calligrafia di Rebecca, soprattutto la firma, con quella “R” che sovrasta le altre lettere, quella “R” tentacolare che la seconda signora de Winter vede ovunque a Manderley. D’altra parte, la stessa gelosia aveva caratterizzato i rapporti con il padre Gerald, con lei che soffriva quando si rendeva conto che il padre non era solo suo.

In Italia il romanzo è uscito nel 1940 col titolo La prima moglie. Anche i diritti cinematografici sono stati venduti immediatamente per diecimila sterline e poco dopo sempre Alfred Hitchcock dirige Laurence Olivier e Joan Fontaine in un film di grande successo. Daphne du Maurier è un’autrice acclamata. Ciò significa che da lei ci si aspettano altri bestseller.

Le accuse di plagio

Quando Rebecca viene pubblicato in Brasile, il critico Álvaro Lins sottolinea le molte somiglianze con A Sucessora, un libro scritto nel 1934 da Carolina Nabuco. Secondo la stessa scrittrice e il suo editore, la Du Maurier avrebbe copiato non solo la trama principale, ma anche situazioni e interi dialoghi. Quando la polemica esce sui giornali, Daphne Du Maurier scrive al New York Times di non aver mai sentito parlare né del romanzo né della scrittrice fino all’anno precedente e che le somiglianze erano dovute semplicemente a una trama piuttosto comune (?). Nel 2002 il New York Times. Ha ripreso la questione. Secondo il quotidiano, Carolina Nabuco avrebbe dichiarato di aver ricevuto pressioni dalla United Artists, che produceva il film di Hitchcock, perché firmasse un documento in cui affermava che le somiglianze erano solo una coincidenza, dietro lauto compenso, ma l’autrice si rifiutò.

Super criticata nonostante milioni di copie vendute

Plagio o no, il destino di Daphne è segnato. Celebrata dal pubblico, sforna un best seller dietro l’altro, ma mai nella sua lunga carriera riuscirà a vincere un premio letterario? Perché? Secondo una recente, e più unica che rara, intervista rilasciata da suo figlio Kits, i critici la bollano come “autrice romance di bassa lega”. Cosa la stessa scrittrice attribuisce alla sua popolarità e alle massicce vendite. Anche Stephen King, a sua volta enormemente criticato per la sua prolificità, la difende: Nel 1993, descrive Rebecca come “un libro che ogni aspirante scrittore popolare dovrebbe leggere, se non altro per il suo coraggio e il suo controllo narrativo. I critici possono sghignazzare, ma è impossibile fare questo genere di cose a meno che tu non abbia un ritmo quasi perfetto nella tua testa“.

I critici, tuttavia, sembrano ignorare quello che il pubblico e il mondo del cinema amano: romanticismo, psicodramma gotico, crimine e intrighi sessuali. Le pessime recensioni la gettano nello sconforto, nonostante la ricchezza accumulata. You don’t know how hurtful it is to have rotten, sneering reviews, time and time again throughout my life. The fact that I sold well never really made up for them”. “”Non sai quanto sia doloroso aver ricevuto recensioni disgustose, beffarde, più e più volte nella mia vita. Il fatto di aver venduto bene non le ha mai compensate“. Per fortuna, però, l’amore per la scrittura è più forte di qualsiasi recensione negativa. E Daphne continua a scrivere.

Donna a bordo (1941)

relittoAnche in quest’altro romanzo storico, sempre ambientato in Cornovaglia alla fine del XVII secolo, Daphne rivela una parte di se stessa. La protagonista, Lady Dona Saint Columb, fugge con i figli dalle convenzioni londinesi e dal marito per rifugiarsi nel maniero di Navron, vicino a Helford. Qui scopre che la casa è stata occupata dal “francese”, un pirata bretone con il quale lei si trova subito in sintonia. Dona vuole quella libertà che sa di non poter avere, se non a prezzo di enormi sacrifici, e arriva a vestirsi da marinaio pur di partecipare a una spedizione da pirata. Non è difficile rintracciare nella trama il “boy in the box”, il lato maschile, che nella scrittrice è così forte e lotta per uscire. Anche stavolta prende ispirazione dalla vita reale. Il marito si allontanava così spesso che Daphne, i suoi figli e la loro tata furono invitati a stare con Paddy e Henry Puxley (Christopher) che vivevano a Langley End, vicino a Hitchin nell’Hertfordshire. Daphne e Christopher hanno una relazione, che viene scoperta dal marito, rientrato improvvisamente dall’estero. Non ci sono scenate, ma Daphne è costretta a lasciare Langley End e a fare ritorno anticipatamente a Fowey, abbandonando definitivamente il suo sogno romantico. Donna a bordo, forse non a caso, è l’unico romanzo vicino al romance che Daphne abbia mai scritto.

Il ritorno nell’amata Cornovaglia e il rapporto con i figli

daphne_1830524cNel 1943 la famiglia Browning torna definitivamente in Inghilterra e Daphne realizza il suo sogno: prendere in affitto Menabilly e andarci a vivere con i figli. Il marito continua a spostarsi per lavoro, ma lei decide di volta in volta se seguirlo o meno. In una lettera all’amica Ellen Doubleday, l’autrice individua il problema nel suo successo professionale: “Le persone come me, che hanno una carriera, mettono davvero in discussione il vecchio rapporto tra uomini e donne. Le donne dovrebbero essere morbide, gentili e dipendenti. Spiriti disincarnati come me hanno torto a prescindere. “Il rapporto con il marito è quasi inesistente, tanto che secondo lei anche lui ha un’amante, una ventitreenne militare, quello con i tre figli è complicato: Daphne viene giudicata spesso una madre distante, fredda quasi, a causa di una evidente fragilità psicologica e dei frequenti alti e bassi cui è soggetta. In realtà, ama tantissimo i suoi figli e loro la ricambiano, tanto che ancora oggi ne difendono strenuamente la memoria. Anche recentemente, hanno ricordato come la mamma volesse essere riconosciuta per quello che era: una dannatamente brava narratrice di storie. A Menabilly, Daphne aveva fatto appendere un ritratto a grandezza naturale di Gerald sulla scala principale. Daphne a volte si fermava di fronte a lui, guardandolo e mormorando gentilmente: “Oh D! Oh D!” Il rapporto complesso con il padre continua anche dopo la morte.

La collina della fame (Hungry Hill, 1943)

Quando esce questo romanzo, addirittura Daphe viene accusata di scrivere solo per soldi e per farne un adattamento cinematografico. Cosa che puntualmente avviene nel 1947, con Margaret Lockwood, una delle attrici britanniche più famose dell’epoca, con la scrittrice che lavora attivamente come co-sceneggiatrice all’adattamento.

Mia cugina Rachele (1951)

E’ leggermente meno conosciuto di Rebecca, ma altrettanto fortunato sia nel mondo letterario sia in quello cinematografico. Dal libro, infatti, sono stati tratti due film: uno nel 1952, diretto da Henry Koster, con Olivia De Havilland nella parte della seducente vedova Rachel. Uno l’anno scorso, intitolato semplicemente Rachel e interpretato da Rachel Weisz. Nel romanzo, di nuovo storico e di nuovo ambientato in Cornovaglia, Philip Ashley, orfano dei genitori, viene allevato dal cugino Ambrose Ashley. Per ragioni di salute Ambrose parte per il continente, lasciando Philip, poco più che ventenne, a casa. Dopo qualche mese arriva a Firenze dove conosce una cugina, Rachel, vedova di un conte italiano. Ben presto i due si sposano. Insospettito dal silenzio di Ambrose, Philip si reca a Firenze, dove apprende che il cugino è morto e Rachele se n’è andata. Ritornato a casa, Philip comincia a odiare Rachele, finché non la conosce. Se ne innamora e il giorno del suo venticinquesimo compleanno, in cui diviene legalmente un adulto, le regala tutta la proprietà e i gioielli di famiglia, proponendole di sposarlo. A quel punto però Rachele rifiuta…. Philip comincia ad avere dei sospetti: Ambrose è veramente deceduto per cause naturali? Daphne rimane delusa dall’adattamento del film di Koster, perché tutti i temi i temi più impegnativi del romanzo, la colpevolezza maschile, la dipendenza economica delle donne sugli uomini, la paura dell’autonomia femminile, vengono diluiti per favorire la storia di base.

Gli uccelli (1953)

Gli-uccelli-Hitchcock“Se la storia avesse coinvolto avvoltoi o rapaci, non mi sarebbe piaciuta”, disse Hitchcock intervistato sull’omonimo film in uscita. “L’attrazione di base per me è che parliamo di uccelli normali e che vediamo tutti i giorni. Capisci cosa intendo?” L’ha capito senz’altro Tippi Hedren, che per colpa sua ha avuto un esaurimento nervoso. Il regista Alfred Hitchcock, infatti, per rendere più credibili le scene dell’attacco dei volatili, fece davvero arrivare sul set stormi di uccelli impazziti che assalirono la giovane attrice. In realtà, l’aggressione degli uccelli potrebbe rappresentare, ma non è sicuro, una metafora degli attacchi per via aerea subito da Londra durante la seconda guerra mondiale. Anche stavolta, arriva puntuale un’accusa di plagio. L’autore Frank Baker è convinto che la trama sia troppo simile a quella del suo romanzo Uccelli, pubblicato nel 1936 con l’editore Davies. Il quale era il cugino di Daphne. Coincidenze? Anche stavolta la Du Maurier nega e Baker, pur considerando di fare causa agli Universal Studios, decide di rinunciare perché sconsigliato dalla costosità dell’operazione.

Il capro espiatorio (1957)

Altro romanzo e altra trasposizione John è un mite professore inglese che tutti gli anni va in vacanza in Francia, dove si limita a osservare le vite altrui. Alla fine di una vacanza uguale a tutte le altre, in attesa di partire, seduto al bar di una stazione di provincia tra viaggiatori, uomini soli, famiglie e bambini urlanti, incontra se stesso. Il suo sosia perfetto, il conte Jean de Gué. Un legame profondo, stretto in una notte d’alcol e confessioni, li incatena. Al mattino John si sveglia stordito, nudo, derubato di tutto, al suo fianco solo gli effetti personali del sosia. Obbligato a prenderne il posto, l’anonimo insegnante si trova intrappolato nella personalità arrogante e seduttiva del nobile, ne diventa l’ombra. Il gioco di identità lo porterà molto vicino a perdere la coscienza di sé, fino a confondere la sua realtà con quella del sosia.

La morte del marito e l’addio a Menabilly

Negli ultimi anni di vita, sempre di più il marito aveva finito per assomigliare al padre: entrambi bevevano troppo. Entrambi avevano problemi e soffrivano di attacchi debilitanti di cupa depressione, nonostante la facciata brillante che mostravano all’esterno. Nel 1957 Frederick Browning inizia a soffrire di un forte esaurimento nervoso e due anni più tardi viene costretto al ritiro. Sembra che il “reale” motivo della malattia fosse la sua passione per la principessa Elisabetta, di cui nel 1948 era divenuto Tesoriere. Di sicuro, c’erano altre due amanti a Londra. Nel 1963 viene coinvolto in uno scandalo: sotto l’influenza di droghe e alcolici, causa un incidente automobilistico in cui due persone rimangono ferite. Muore a Menabilly, il 14 marzo 1965, per un attacco di cuore. In seguito alla sua morte, Daphne prende in affitto Kilmarth, la casa dei giardinieri della tenuta di Menabilly, continuando a scrivere finché la salute e la vecchiaia non glielo impediranno, come una reclusa, in completa solitudine.

Gli altri lavori e gli ultimi giorni

oldNominata Dame Commander dell’Impero britannico nel 1969, Daphne pubblica senza sosta i suoi lavori fino al 1981. Nel 1977 riceve il premio Grand Master Award by the Mystery Writers of America. Il suo ultimo lavoro esce postumo nel 1989, subito dopo la sua morte. Cornovaglia magica è l’autobiografia di una scrittrice solitaria, innamorata della terra che l’ha adottata. L’autrice racconta e rilegge la sua vita attraverso i suoi viaggi e i suoi romanzi ispirati tutti dall’amore per questa terra. Magica, misteriosa, inesplorata, la Cornovaglia è vista e “rivisitata” attraverso gli occhi della scrittrice, assumendo quasi la forma di un testamento spirituale. Subito dopo averla terminata, infatti, Daphne du Maurier muore, il 19 aprile 1989. Il 16 aprile, tre giorni prima di cedere alla broncopolmonite a 81 anni, Daphne sfida il vento e la pioggia per un’ultima nostalgica visita alla suo adorato Menabilly. Dopo la sua morte, i figli assecondano le sue ultime volontà e spargono le ceneri nei campi che circondano la sua ultima abitazione.

Leggi anche: Sulle tracce delle grandi scrittrici, il mio viaggio letterario in Cornovaglia e nel Devon

Daphne Du Maurier al Jamaica Inn

Jamaica Inn, un fantasy di Daphne Du Maurier

Durante il viaggio letterario Sulle tracce delle grandi scrittrici, mi sono fermata alla Taverna della Giamaica, la locanda che ha ispirato a Daphne Du Maurier l’omonimo romanzo, Jamaica Inn. Atmosfera cupa, vento impetuoso e una giovane che bussa alla porta cigolante di un edificio sinistro…

La trama

Mary Yellan è una ragazza che vive in una fattoria del Devon. In punto di morte, ha promesso alla madre che non sarebbe rimasta sola, ma che avrebbe cercato la zia Prudence per andare a vivere con lei e il marito Joss Merlyn al Jamaica Inn, una locanda sperduta tra le brughiere della Cornovaglia. Qui spera di ritrovare la zia Patience che ricorda, affettuosa e gentile. Arrivata al Jamaica Inn scopre una realtà ben diversa. Joss Merlyn è un  uomo imponente, rozzo e violento e Patience è triste e impaurita, completamente soggiogata dal marito. Sconvolta, decide di rimanere per proteggere la zia e convincerla ad andare via insieme. Vivendo nella taverna, Mary scopre ben presto i loschi traffici dello zio, che usa la locanda come copertura ma in realtà  pratica il contrabbando dalla costa all’interno della Cornovaglia. Jem, il fratello dello zio, le offre il suo aiuto per andarsene, ma la ragazza non si fida di lui. Così cerca l’aiuto di Francis Davey, parroco di Altarnum, che la ospita a casa sua. Nel frattempo, anche il giudice Bassat cerca le prove per arrestare Merlyn e la sua banda…

L’ispirazione

Daphne Du Maurier stessa ha raccontato di avere avuto l’ispirazione dopo che lei e un amico nel 1930 si persero nella nebbia mentre cavalcavano e si fermarono nella notte nella locanda perché troppo pericoloso proseguire. Durante il tempo trascorso nella taverna, si dice che il parroco locale l’abbia divertita con storie di fantasmi e racconti di contrabbando. Più tardi, Daphne du Maurier continuò a trascorrere lunghi periodi presso l’Inn, parlando apertamente a più riprese del suo amore per la località.

Dopo aver visto la locanda, non fatico a credere che si sia persa nella nebbia, né che si fosse innamorata del posto. Perché ancora oggi è esattamente come lo descrive nel libro. E’ incredibile quanto mi sembrasse di essere là con Mary e Jem, in mezzo alla brughiera, al vento selvaggio e alle scogliere maestose della Cornovaglia. La locanda in cui è ambientato il libro ha subito modifiche all’interno, ma non all’esterno, quindi anche l’architettura è esattamente come la descrive lei. Che è bravissima sia a costruire un’ambientazione noir che cattura immediatamente, sia a creare la giusta suspense sulla sorte di Mary. Cosa succederà  a questa ragazza finita in mano a parenti poco raccomandabili? Può davvero fidarsi delle persone con cui si confida? Jem è come il fratello o potrebbe nascere una storia?

Il diavolo e l’acqua santa

Jamaica Inn è in definitiva un bel fantasy che si segue con piacere, anche se certamente non all’altezza dei suoi romanzi più famosi, come Rebecca la prima moglie, per esempio. Questo perché se proprio devo trovargli un difetto, direi che il finale è un po’ tirato via, troppo frettoloso. Mi ha dato quasi l’impressione che l’autrice volesse chiudere il prima possibile, facendo virare un mistery svelato fino a quel momento tassello dopo tassello in un finale quasi consolatorio che poco ha a che vedere con il resto della trama. Rimane comunque una lettura godibile, soprattutto per il bel personaggio femminile che la Du Maurier ha creato. Considerando che scriveva negli anni ’30, una ragazza che anela all’indipendenza e che si muove da sola in un mondo di uomini spesso violenti è indice della visione progressista del mondo di un’autrice e di una donna che rivendica un ruolo femminile che vada oltre il tradizionale angelo del focolare.  Fa da contraltare il personaggio altrettanto riuscito dell’albino vicario di Altarnun. Ovvero quando diavolo e acqua santa s’incontrano, trovandosi reciprocamente attraenti.

Nel 1939 la storia è stata portata sullo schermo da Alfred Hitchcock, con l’omonimo film Jamaica Inn. Su youtube il film integrale gratis.

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Jamaica Inn: leggende, fantasmi, navi pirata e l’incontro con la quinta scrittrice

Dopo un sonno ristoratore, cullati dal vento forte che a tratti ci è sembrato potesse far crollare la fattoria, ci siamo alzati la mattina di buonumore e in preda a una fame pazzesca. Dopo il cornish cream tea che la padrona di casa ci aveva gentilmente offerto la sera prima, infatti, non ce la siamo sentita di cenare. Scelte che ovviamente si pagano il giorno dopo. La colazione ci è stata servita nella sala da pranzo della fattoria, dove ci siamo ritrovati a banchettare con una full english breakfast vista oceano. Una meraviglia per gli occhi e per lo stomaco: caffè, tè, uova strapazzate, bacon, yogurt e panini fatti in casa, fragole, frutta secca, burro, miele, cereali e biscotti, con la signora che faceva avanti e indietro continuamente per assicurarsi che non fosse poco. Poco??? Sembrava un pranzo nuziale! Siamo grati per aver incontrato sulla nostra strada gente autenticamente ospitale, che ha voluto condividere con noi anche i segreti della cucina. Appena ho chiesto alla mia ospite come avesse fatto i panini, ha tirato fuori il libro di cucina e mi ha invitato a fotografare la ricetta, ha preso dalla cucina una ciotola con l’impasto in lievitazione per farmi vedere come deve venire, mi ha regalato una bustina del lievito secco che usa lei per provarci e mi ha anche chiesto di spedirle la foto dei panini per farle vedere come sono venuti. Con una certa rassegnazione, e tanti saluti festosi da entrambe le parti, ci siamo salutati e abbiamo ripreso il nostro viaggio, a pancia piena e mente leggera.

Direzione

Jamaica Inn stands today, hospitable and kindly, a temperance house on the twenty-mile road between Bodmin and Launceston.

Oggi il Jamaica Inn è una locanda che non vende alcolici e sorge, ospitale e accogliente, lungo la strada dche va da Bodmin a Launceston.

Così Daphne Du Maurier nel 1935 descriveva il pub verso cui siamo diretti nell’introduzione all’omonimo romanzo. Ed è proprio per lei che sto venendo qui, perché è un posto in cui la scrittrice, che visse a lungo in Cornovaglia, amava soggiornare e che le ha dato l’ispirazione per realizzare uno dei suoi romanzi di maggior successo, successivamente trasposto al cinema da Alfred Hitchcock in un film di grande successo.

Non è un posto di passaggio, per arrivare fin qui bisogna essere intenzionati a vederlo e, dopo averci passato qualche ora, leggere il romanzo assumerà tutto un altro sapore. Ora vi racconto perbene (spero). Siamo arrivati più o meno all’ora di pranzo in questa landa desolata, dove praticamente c’è solo questa locanda. E’ subito chiaro come e perché questa costruzione avesse assunto un ruolo centrale come snodo del contrabbando subito dopo la sua costruzione, nel 1750. Formalmente locanda per viaggiatori di passaggio, in realtà veniva utilizzata per nascondere i prodotti di contrabbando che arrivavano via mare. Pare che circa la metà del brandy e un quarto 20170819_122748_LLSdi tutto il tè che veniva contrabbandato nel Regno Unito sbarcasse lungo le coste della Cornovaglia e del Devon. Il Jamaica Inn, in particolare, si trovava in un luogo remoto e isolato, quindi ideale per fermarsi sulla strada prima di continuare verso il Devon e oltre. Nel 1778 fu anche allargato, per includere una stazione per le carrozze, scuderie e una selleria, facendo assumere all’edificio l’aspetto a L che vediamo ancora oggi. Adesso è più banalmente una tappa folcloristica, dove si può dormire, mangiare, bere birra e visitare il museo dei contrabbandieri. La taverna si chiama così non perché nascondesse il rum di contrabbando importato dalla Giamaica, ma prende il nome dalla più importante famiglia di proprietari terrieri locali, i Trelawney, in omaggio al fatto che due suoi membri furono governatori della Giamaica nel XVIII secolo. Secondo gli storici, all’epoca sulla costa della Cornovaglia abbondavano delle gang che attiravano le navi sugli scogli proiettando luci che gli armatori scambiavano per quella dei fari, per poi razziare barche e navi appena queste andavano a infrangersi sugli scogli e loro stessi venivano incaricati di disincagliarle.

Daphne Du Maurier al Jamaica Inn

La storia dei contrabbandieri è molto interessante e avevo già fatto la loro conoscenza a Polperro, Mullion, Lizard Point, Tintagel e Boscastle, ma non è questo il motivo per cui mi sono avventurata fin qui. Sono qui per la quinta delle scrittrici che sono venuta a trovare in questo viaggio letterario. Dopo Agatha Christie, Jane Austen, Virginia Woolf e Rosamunde Pilcher, stavolta voglio incontrare Daphne Du Maurier.

Il Jamaica Inn, infatti, è così famoso perché la scrittrice nel 1936 pubblicò un romanzo di grande successo incentrato proprio sulla storia IMG_6460di una giovane che, alla morte della madre, va a stabilirsi dagli zii, locandieri del Jamaica Inn, senza sapere in quali traffici loschi si troverà invischiata. La stessa autrice ha raccontato di avere avuto l’ispirazione dopo che lei e un amico nel 1930 si persero nella nebbia mentre cavalcavano e si fermarono nella notte nella locanda perché troppo pericoloso proseguire. Durante il tempo trascorso nella taverna, si dice che il parroco locale l’abbia divertita con storie di fantasmi e racconti di contrabbando. Più tardi, Daphne du Maurier continuò a trascorrere lunghi periodi presso l’Inn, parlando apertamente a più riprese del suo amore per la località. Il romanzo è poi diventato un film diretto da Alfred Hitchcock nel 1939, che l’anno successivo diresse anche Rebecca la prima moglie, altro titolo della scrittrice, e qualche anno più tardi il più famoso Gli uccelli.

Il Museo

Abbiamo visitato il museo, soffermandoci in particolare sull’ala dedicata proprio a Daphne. In sua 30memoria, i proprietari del Jamaica Inn hanno ricreato il suo studio, con la scrivania e la macchina da scrivere, insieme a un pacchetto di sigarette “Du Maurier”, chiamate così in onore del padre, famoso attore britannico, e un piatto di  mentine, le sue caramelle preferite. Ci sono poi una serie di oggetti appartenenti all’era del contrabbando e un video che ricostruisce la storia della locanda, che si dice sia infestata dai fantasmi. Secondo la credenza popolare, infatti, nelle notti più fredde, al chiaro di luna si ode il rumore dei cavalli al galoppo e delle ruote, voci che parlano in una lingua sconosciuta, cornico antico?, si scorgono delle IMG_6464ombre che sfrecciano e un uomo che appare e scompare tra le porte in abiti ottocenteschi. E cosa dire della storia più terribile? Molti anni fa uno sconosciuto sedeva al bar bevendo birra. Dopo essere stato chiamato fuori, lasciò la birra e uscì nella notte. Quella fu l’ultima volta che venne visto vivo. La mattina seguente, il suo cadavere fu trovato nella brughiera, ma le cause della morte e l’identità del suo aggressore rimangono ancora un mistero. la cosa strana, fu che in molti l’avevano visto seduto su un muretto. I padroni di casa, sentendo dei passi di notte lungo il passaggio che conduce al bar, credevano fosse lo spirito dell’uomo morto che tornava per finire la sua birra. Nel 1911, suscitò sconcerto nella stampa la notizia di uno strano uomo che era stato visto da molte persone seduto sul muro fuori dall’Inn. Non parlava, né si muoveva, né rispondeva a un saluto, ma il suo aspetto era simile a quello dello straniero assassinato. Potrebbe essere il fantasma del morto? E quale strano obbligo lo porta a ritornare così spesso al Jamaica Inn?

Ci sono davvero i fantasmi?

Vi ho spaventato? No, vero? Infatti anch’io mi sono fatta due risate. Ora però dovete avere pazienza e leggere cosa mi è successo appena uscita dal museo. Ho chiesto al ragazzo del bar di darmi una birra “leggera”. Mi sono alzata da tavola ondeggiando, in qualche modo sono arrivata al bagno e il cellulare mi è caduto nella tazza. Mentre asciugavo il cellulare sotto l’aria calda, mi è sembrato di sentire l’eco di una risata. Un contrabbandiere si è forse divertito con me?

Arrivederci Cornovaglia

Apatica e muta, tipo lo straniero assassinato, vi devo dire che la mia esperienza favolosa in Cornovaglia finisce qui. Il mio è un arrivederci, ne sono sicura, e il viaggio letterario va avanti. Lasciatemelo però affermare con il cuore in mano: la Cornovaglia è un luogo dell’anima, e se ci ho convinto a fare un viaggio come il mio che comprende delle tappe in altre regioni del Regno Unito, datemi ascolto, lasciatela per ultima. Perché dopo essere stati rapiti e ammaliati da questa terra magica, il resto vi sembrerà niente. O quasi. Domani vi racconterò di Salisbury, della Magna Charta e dell’orologio più antico del mondo.

(continua)

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