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Basket, iI match decisivo di Nelly Taggart

Un romance ambientato nel mondo del basket, con l’amore che va a canestro tra un allenatore e una giornalista. Ormai da classificare come vintage, è uscito nel 2007, e non proprio soddisfacente.

Trama

Antonia Phillips odia il basket e tutti quelli che hanno a che fare con questo sport. È una sentenza definitiva e senza appello, fino al giorno in cui deve intervistare il misterioso e affascinante allenatore di una famosa squadra di pallacanestro. Giovane e indipendente, Antònia, detta Nia, deve fare i conti con un matrimonio fallito e con l’amarezza lasciatale dai continui tradimenti del suo ex marito, giornalista sportivo. Ovvio che lei non voglia più avere a che fare con quel mondo, ma il suo capo è intenzionato a farle fare un servizio su Daniel Strahan: bello, scapolo, vive per lo sport e detesta i giornalisti. Le difese di entrambi vengono messe a dura prova, ma forse l’amore e la fiducia sono solo…questione di allenamento! 

Aspettative disattese 

Un romanzo breve, che si legge in poche ore e che non offre nessuna sorpresa. Ho cercato di rintracciare notizie su quest’autrice, ma non ho trovato nulla. Come non ho trovato niente cercando con il titolo originale in inglese. Strano, credo che sia una di quelle uscite in serie scritte probabilmente da un pool di persone. Comunque, a parte questa nota di curiosità personale, la trama prometteva quello che la realizzazione ha poi disatteso. Lui, un allenatore di basket un po’ filosofo, lei, scottata da un matrimonio in cui il marito preferiva il basket, e le altre donne, a lei. Tutti e due indipendenti e orgogliosi, le premesse per piacermi c’erano tutte. Poi, lei si trasforma nella solita donna dimessa, che per amore deve fare rinunce e, ovviamente, l’articolo non passa in secondo, passa in penultimo piano. Tanto che la soluzione finale è abbastanza assurda. Lui, uomo tutto d’un pezzo, che studia per crearsi un futuro, non riesce a trovare una soluzione di mezzo che accontenti entrambi. E poi, il vicino anziano che lei ama tanto e che neanche accompagna in ospedale quando ne ha bisogno…Insomma, senza svelare altri particolari, la scintilla stavolta non è scoccata.

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Daniela Amenta e La ladra di piante di Monteverde vecchio

Daniela Amenta è una giornalista romana di lungo corso, esperta di musica rock e politica, due mondi che sembrano lontani anni luce, ma che in comune hanno la passione. La stessa passione che muove i protagonisti: per le piante lei, per la musica lui. In mezzo, un delitto, un’inchiesta, un informatore e una Roma immersa in una cappa d’afa. E non solo.

Trama

Quell’estate a Roma faceva molto caldo. E quando Roma si arroventa perde la sua grande bellezza e si trasforma in una città dura, arrogante, coperta da un vapore insopportabile, segnata da odori di sangue e mentuccia. Qui c’è chi sopravvive rubando piante dagli androni dei portoni, chi cura gatti randagi e chi ascolta jazz e rock’n’roll. Una giovane donna dai capelli rossi, un cronista esausto a caccia di tenerezze e un vecchio giornalista che sta perdendo la memoria si incrociano ai margini della scena di un crimine. Dove sfilano badanti, redattori di giornali che inseguono scoop, giardinieri che conoscono la vita segreta delle orchidee, Bill Evans, i Clash e Pasolini. È la Roma del quadrante sud, quella che guarda il mare attraverso il percorso del Tevere. Un pezzo di metropoli trasformato in una mappa di luoghi e sentimenti dove, nonostante l’afa, crescono ancora le Aspidistre. E piccoli sogni di resurrezione e d’amore.

Amo et odio

Daniela Amenta ama e odia Roma. Si vede, si sente, si respira in ogni pagina di questo romanzo. Daniela Amenta, evidentemente, è una romana d.o.c., perché è così che si sente un romano. Ostaggio di una città e della sua bellezza. Una bellezza di cui si riempie la bocca “solo chi vive in certi quartieri e la vede da certe terrazze”. Tutti gli altri, devono trovare un modo per sopravvivere ai suoi tentacoli. E ad affitti in nero in case microscopiche. Ecco che, allora, un terrazzo può diventare un giardino botanico di piante dal salvare, un vinile l’unica ancora di salvezza nella vita, i gatti, un motivo per uscire di casa e riscoprire una coscienza civile.

Sopravvivere alla città

C’è Anna dai capelli rossi, ma chissà se le piacerebbe essere chiamata così, dato che anche il personaggio più famoso di lei lo odiava. Anna vive una vita sospesa, come tanti trentenni di oggi. Anna ha un mezzo contratto, a pochi soldi, e deve farselo piacere in qualche modo. Per sopravvivere, ruba piante. Sì, è lei la ladra di piante, preferibilmente quelle mezze smorte abbandonate negli androni dei condomini, che lei tenta disperatamente di salvare. C’è Riccardo, giornalista esperto. Lui si che ha un bel lavoro, ma non lo fa più con passione. E’ stanco delle notizie copia-incolla, stanco di direttori che non capiscono niente e seguono logiche di mercato che poco hanno a che fare con la qualità dell’informazione. C’è Lanfranco, un vecchio informatore, che vecchio lo sta diventando sul serio e sente che la memoria inizia a vacillare.

Sono entrata in questo orto, nel mio Getsemani pensile, all’ottavo piano di un palazzo perbene. C’è di tutto, qui. Piante sbilenche, rigogliose, piante con le flebo, piante mezze morte, malconce, c’è un tappeto di Aspidistre, ci sono quelle stronze di acidofile, le camelie e un rododendro che mi fa impazzire, ci sono le gardenie amatissime e piante di cui non so il nome. 

Certe atmosfere

Daniela Amenta conosce bene Roma, i personaggi che la popolano, è stata cronista di nera, e certe atmosfere che l’avvolgono in estate. E’ forse questa la parte più godibile del racconto, quella che mi ha conquistato. Se volete leggere di una Roma non da copertina, ma neanche criminale, che oggi le polarizzazioni vanno tanto di moda, questo romanzo vi offrirà una prospettiva diversa e affascinante, suo malgrado. Se amate le piante, non potrete non riconoscervi nell’opera pia che mette in piedi Anna, ma quale ladra? E, soprattutto, come sto facendo io in questo momento, nel cercare di capire quale parte del seme di avocado vada in acqua. Se vi piace la musica rock, quella senza autotune, troverete spunti interessanti. La storia di Daniela Amenta scorre via con facilità e si legge con piacere. A patto di sorvolare su qualche stereotipo di troppo, il vivaista contadino che assume solo stranieri “perché lavorano di più”, per esempio, la violenza di genere che viene infilata un po’ a forza, e francamente non necessaria e neanche approfondita a dovere, e su un giallo che parte troppo tardi e si risolve troppo presto.

“E secondo te, Valdesi, ci avrebbe fatto schifo qualche altro giorno di suspense…? Ecco, anche io sono d’accordo con il direttore, per una volta: qualche altra pagina di suspense non ci avrebbe fatto schifo.

Un’altra polarizzazione

Rimangono le descrizioni vivide di una città che non è come la squadra, che si ama e basta. Roma, se la ami, la ami e la odi, non c’è spazio per le vie di mezzo. Un’altra polarizzazione, a ben pensarci.

La casa era un ex lavatoio, ma in compenso aveva uno spazio esterno «sublime», come aveva detto la signorina Natalia facendogli firmare una stipula di comodato d’uso gratuito per 18 mesi. Per gratuito s’intendevano 800 iuros in nero, cash. Però il panorama valeva la pena e, in qualche modo, anche la truffa. Da lì prendeva forma la periferia dissennata di Roma che iniziava da Trastevere: una fila di parabole e cemento, treni e mattoni si allungava verso viale Marconi. Oltre s’ergeva, sferica e di salnitro, la torre del Gazometro. Si vedevano le pendici di Garbatella che, a un tratto, perdeva i toni pastello dei tetti per diventare di acciaio all’Eur. Si vedeva la cappa d’afa su Portuense e il verde spento dei platani ad accompagnare il viaggio del Tevere. E in certi giorni speciali la facciata d’oro di San Paolo brillava come una medaglia sul petto di questa città sfacciata. 

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Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio – Amara Lakhous

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Il Cristo ricaricabile – Guglielmo Pispisa

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Un giorno a Roma per innamorarsi – Mark Lamprell

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Margaret Millar e l’assassinio di Miranda

Margaret Millar, la regina del suspense, porta a passeggio i suoi lettori circumnavigando il globo prima di dare risposta alla domanda iniziale: dov’è finita Miranda? Non so voi, ma quando arriva l’estate i gialli sulla mensola si moltiplicano. E gli scrittori del passato fanno sempre la parte del leone.

Trama

Dov’è Miranda Shaw? Era appena rimasta vedova e il suo avvocato ha bisogno della sua firma per l’omologazione del testamento, ma la sua villa è vuota e due giovani donne confuse, Cordelia e Juliet, indossano i suoi gioielli. È scappata? Con Grady, il bagnino del suo club, che manca anche lui? Sta schivando il suo avvocato? O è stata uccisa…?

La scrittrice si diverte a portare a spasso i lettori

Con questa commedia nera, come viene definita, Margaret Millar si diverte, ah! ci scommetto che si sia divertita!, a portare a spasso il lettore per 2/3 del romanzo. Che fine ha fatto Miranda? Mentre l’investigatore privato Tom Argon, questo è il secondo libro della serie n.d.r., viene mandato sulle sue tracce, Margaret Millar infarcisce pagine e pagine di quelli che apparentemente sono dettagli, cioè le vite oziose e noiose dei ricchi frequentatori del Country Club da cui tutto parte: un alcolista che scrive lettere anonime, un bagnino bello e avido, la segretaria e il direttore del Club, un delinquente in erba arrabbiato col mondo, una disabile di pessimo carattere e suo marito, un ammiraglio in pensione e le loro figlie, due donne adulte con la mente di bambine. E Argon, dov’é? Argon chiude la sua indagine abbastanza agilmente e, ahimè, è proprio in questo momento che il giallo prende vita, anche se lui sparisce!

La soluzione finale salva il giallo

Alla fine, purtroppo, il romanzo finisce per annegare nella noia, anche il lettore comincia a sentirsi come questi ricchi annoiati. Che fare? Andare avanti, questo ve lo consiglio. Perché la soluzione finale del giallo non è male: alla fine l’assassinio c’è, ma di Miranda o di qualcun altro? O di nessuno? O forse ce n’è più di uno, in un certo senso? C’è anche un processo…insomma, da un certo punto in poi la velocità triplica e tutto diventa più interessante. In testa alla fine mi rimarrà proprio il finale e una domanda che vorrei fare a Margaret Millar se fosse ancora viva: come fa un custode a mangiare gelati in una casa senza luce elettrica (tranquilli, non è uno spoiler)?

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Quando chiama una sconosciuta – Margaret Millar

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Pachinko, è così terribile essere coreano?

Pachinko, un romanzo che tre anni fa ha avuto un grande successo e che ora sta per diventare un kdrama interpretato da Lee Min-Ho. Perché? Perché racconta una di quelle storie che la storia ufficiale sembra aver dimenticato. E che continua a dimenticare tuttora, quella degli stranieri in patria e stranieri nel loro Paese. La scrittrice americana di origine coreana Min Jin Lee alza il velo e lo fa raccontando la storia di Sunja e, con lei, di tutte le donne del mondo.

“È così terribile essere coreano?”

“È terribile essere me”.

Trama

Corea, anni Trenta. Quando Sunja sale sul battello che la porterà a Osaka, in Giappone, verso una vita di cui non sa nulla, non immagina di star cambiando per sempre il destino del figlio che porta in grembo e delle generazioni a venire. Sa solo che non dimenticherà mai il suo Paese, la Corea colpita a morte dall’occupazione giapponese, e in cui tuttavia la vita era lenta, semplice, e dolce come le torte di riso di sua madre. Dolce come gli appuntamenti fugaci sulla spiaggia con l’uomo che l’ha fatta innamorare per poi tradirla, rivelandosi già sposato. Per non coprire di vergogna la locanda che dà da vivere a sua madre, e il ricordo ancora vivo dell’amatissimo padre morto troppo presto, Sunja lascia così la sua casa, al seguito di un giovane pastore che si offre di sposarla. Ma anche il Giappone si rivelerà un tradimento: quello di un Paese dove non c’è posto per chi, come lei, viene dalla penisola occupata. Perché essere coreani nel Giappone del ventesimo secolo, è come giocare a un gioco d’azzardo, il Pachinko: una battaglia contro forze più grandi che solo un colpo di fortuna o la morte possono ribaltare.

In cerca di una terra promessa

Il romanzo inizia nei primi anni trenta e finisce alla soglia del 1990. Cinquantasette anni in cui seguiamo la sorte di Sunja e della sua famiglia. Ragazzina inesperta all’inizio, nonna alla fine, Sunja lascia la Corea in cerca di una vita migliore, seguendo un marito che conosce pochissimo e che le promette solo una cosa, di rimanerle accanto nella buona e nella cattiva sorte. Non è questo che recitano le promesse matrimoniali? E la cattiva sorte, che perseguita i due fin dalla nascita, non tarda a manifestarsi in quella che avrebbe dovuto essere una terra promessa e si rivela nient’altro che l’ennesima prigione.

Ma non è questo che Min Jin Lee vuole raccontarci

Attraverso le vicende di Sunja, del marito Isaek, della Onni Kyunghee, del suo primo uomo, Hansu e dei due figli, Noa e Mozasu, la scrittrice americana vuole parlare di immigrazione, di chi si sente straniero in patria, di chi non ha un Paese in cui tornare. Come diceva Cesare Pavese: Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Quello che, al contrario, spesso dimentichiamo, è che molta gente un Paese in cui tornare non ce l’ha. Perché è un Paese in guerra, oppure perché è nato in una Nazione straniera e non ha radici. Comunque sia, questa è la forza del romanzo, una documentata e attenta ricerca sullo stile di vita e le difficoltà di integrazione della comunità coreana in Giappone. Mal vista, mal digerita, tanto da arrivare a nascondere le proprie origini, a camuffare l’identità pur di sopravvivere. E a ritrovarsi in lotta contro i pregiudizi, mi verrebbe quasi da dire “i soliti pregiudizi”.

I soliti pregiudizi

Sì, perché via via che scorrevano le pagine, la storia dei coreani in Giappone ha finito per somigliare sempre più a quella degli italiani emigrati nel dopoguerra. Gli italiani, come i coreani, “sanno di aglio, non sanno leggere, sono irascibili, vestono da straccioni, sono malavitosi, non ci si può fidare, rubano il lavoro”. Li riconoscete? Gli stessi discorsi che sentiamo anche oggi, rivolti ai nuovi immigrati. La radice è sempre la stessa e universale: la paura del diverso, la differenza che da ricchezza diventa un problema da cui difendersi.

I pregi e i difetti

Il pregio maggiore del lavoro di Min Jin Lee è proprio questo, aver studiato attentamente un’epoca storica e averla descritta nei minimi dettagli. Purtroppo, se la parte documentale di Pachinko non ha mai mostrato incertezze, la parte romanzata al contrario a un certo punto ha cominciato a mostrare crepe evidenti. Min Jin Lee non riesce a entrare in empatia coi suoi personaggi e neanche noi. Dalla metà in poi, il romanzo diventa un racconto didascalico di avvenimenti, senza pathos. Anche le tragedie più grandi scorrono in fretta, una o due righe e via, al prossimo evento. Alcuni personaggi spariscono, di altri veniamo a sapere qualcosa solo perché incidentalmente vengono nominati, altri ancora compiono dei gesti, vedi Noa, senza che la cosa sconvolga più di tanto gli altri, rasentando quasi l’assurdo. Finché, a un certo punto, la noia prende il sopravvento e l’unica voglia è quella di arrivare alla fine, lo stesso sentimento della scrittrice, probabilmente. La quale è eccellente nella parte razionale, tutta americana, ma perde la caratteristica orientale di scavare nei personaggi, di usare la musicalità delle parole per trasmettere emozioni, di comporre metafore che diventano esse stesse poesia. Se mi fossi fermata solo al nome, senza leggere la biografia, sarei stata tratta in inganno.

Nota a margine sull’edizione italiana

I romanzi tradotti in italiano hanno quasi sempre il difetto di cambiare il titolo. In questo caso, Pachinko diventa La moglie coreana. Quando ho iniziato il libro, pensavo che parlasse di una donna coreana sposata a un giapponese e, solo dopo, mi sono accorta che nel romanzo i protagonisti sono tutti coreani! Pachinko è più azzeccato, ovviamente, e credo che anche i lettori italiani non avrebbero avuto difficoltà a capirne il senso. Sulla cultura coreana, invece, avrei speso qualche parola in più: nella festa per il primo anno di Solomon, per citarne una, si fa riferimento a una tradizione che potrebbe far rimanere interdetto chi legge: perché se il bambino prende soldi, è un buon presagio? Un motivo c’è, ma andrebbe spiegato. In questa traduzione, poi, le parole coreane vengono tradotte usando una romanizzazione che, in alcuni casi, non consente al lettore italiano di pronunciare correttamente. La parola Eomma, per esempio, che nel romanzo viene ripetuta più e più volte, diventa Umma, che è corretta per un anglofono, ma non per noi. Quindi, mi raccomando, la mamma coreana è Omma, con la o chiusa. Chi segue i kdrama non ha problemi, lo dico per tutti gli altri!

E con questo articolo, si conclude la terza lettura del BookClubPeC. Voi avete letto il romanzo? Aspettate il kdrama con impazienza? Raccontatemi nei commenti 🙂

Leggi anche: 

Il Pachinko di Min Jin Lee e quello di Lee Min-ho

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http://www.pennaecalamaro.com/tag/book-club/

http://www.pennaecalamaro.com/tag/emigrazione/

Il Pachinko di Min Jin Lee e quello di Lee Min-ho

Pachinko, di Min Jin Lee, il romanzo che stiamo leggendo nel BookClubPeC. La moglie coreana nell’edizione italiana. Nelle settimane precedenti, abbiamo parlato dei personaggi e commentato tempi e luoghi in cui Min Jin Lee ha immerso i suoi protagonisti. Ora abbiamo terminato la terza settimana di lettura e, se abbiamo proseguito senza impedimenti, dovremmo essere giunti a a 3/4 del romanzo. Quindi, possiamo iniziare a dire qualcosa sulla storia in sé. Come di consueto, vi lascio sotto qualche spunto di riflessione. Ai lettori la parola. E alla fine, una novità dramosa.

I pregi e i difetti secondo me 

Vi anticipo quella che è la sintesi del mio commento al romanzo, di cui magari vi parlerò più diffusamente la settimana prossima, a fine lettura. Min Jin Lee ha studiato attentamente un’epoca storica e averla descritta nei minimi dettagli. Purtroppo, se la parte documentale non ha mai mostrato incertezze, la parte romanzata al contrario a un certo punto ha cominciato a mostrare crepe evidenti. Min Jin Lee non riesce a entrare in empatia coi suoi personaggi e neanche io, per la verità. Dalla metà in poi, il romanzo diventa un racconto didascalico di avvenimenti, senza pathos. Anche le tragedie più grandi scorrono in fretta, una o due righe e via, al prossimo evento.

La storia vi convince?

La vostra lettura, invece?  Come prosegue? State incontrando difficoltà o vi piace quello che leggete? La vicenda della famiglia Baek vi appassiona, o in alcuni punti vi sembra un po’ forzata, come sta succedendo a me?

E lo stile con cui la scrittrice Min Jin Lee racconta? 

Vi piace? O avreste preferito un altro modo di narrare?

E adesso la novità dramosa: Pachinko diventerà un kdrama

Mentre ci avviamo alla chiusura, vi do una notizia dramosa abbastanza fresca: Pachinko diventerà un kdrama. Andrà in onda su Apple tv, e speriamo su altre piattaforme a seguire, e tra i protagonisti…udite udite…ci saranno Lee Min-ho nella parte di Hansu e Youn Yuh-jung, l’attrice recentemente premiata con l’Oscar per Minari, nella parte di Sunja. Che ne dite? Io sono molto, molto curiosa! 

Commentate sotto al post 

Come vi ho già detto, sentitevi liberi di commentare sotto il post le vostre sensazioni, perplessità, emozioni, e tutto ciò che il Pachinko vi sta dando, in positivo o negativo. Vi prego solo di badare più alla sostanza che alla forma. Non fatevi bloccare dalla timidezza, più riusciamo a esprimerci liberamente e più una lettura condivisa acquista valore.

Aspetto i vostri commenti qui sotto! 🙂 

Se volete recuperare o aggiungere qualcosa su personaggi o ambientazione, o se volete sapere come funziona il Book Club P&C, cliccate sotto:

La moglie coreana, sorellanza che non si spezza

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