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David Foster Wallace e Una cosa che si suppone divertente che non farò mai più

David Foster Wallace dice in apertura che per questo reportage la rivista Harper’s Magazine gli ha dato tremila dollari a scatola chiusa. Un sogno, come per tanti è un sogno la crociera. Come mai questo tipo di viaggio si trasforma in un’esperienza da fare una volta nella vita? David Foster Wallace cercherà di scoprirlo durante le sue “sette notti ai Caraibi” sulla Zenith che promettono faville. Ma sarà proprio tutto vero? Scopriamolo insieme. 

Trama

Un reportage su una settimana di crociera ai Caraibi, commissionato a David Foster Wallace dalla rivista Harper’s Magazine e pubblicato nel 1996 col titolo Shipping Out, che diventa un saggio. Il reportage è caratterizzato dalla sua estensione a tutto campo: Wallace spazia liberamente da un’analisi sociologica dei viaggiatori e dell’equipaggio, passando per una ricostruzione dell’industria delle crociere extra-lusso, fino a giungere a un’analisi introspettiva, con una disamina delle multiformi reazioni dello scrittore di fronte al fenomeno crociera.

Un quadro sociologico

Dopo quasi 25 anni, questo reportage ha quasi dell’incredibile. Solo una penna come quella di David Foster Wallace può trasformare un racconto di viaggio in un quadro sociologico così accurato. Toccando temi come emigrazione, disuguaglianza sociale, razzismo, diversità, partendo da commenti apparentemente banali sul cibo, l’architettura della nave, i comportamenti dell’equipaggio e dei turisti in crociera, le attività organizzate. In più occasioni scappa una risata, ma è la risata contrita di chi assiste a uno spettacolo comico intelligente, che ti mette di fronte a vizi e virtù della categoria umana.

Umano, troppo umano

Anche se la categoria osservata, e in qualche modo stigmatizzata, è quella di turisti americani benestanti o facoltosi, il quadro finale riguarda la categoria umana nel suo complesso e, a mio parere, è questo a rendere il reportage una lettura godibile ancora oggi. Vi segnalo a) che consiglio la lettura e b) che potete trovare l’audiolibro gratis sulla piattaforma Raiplaysound. Quindi, niente scuse. 😉 Fatemi sapere nei commenti che ne pensate!

Ognuno tiene ben stretta la sua tessera numerata neanche fossero i suoi documenti al Check point CharlieIn questa ansiosa attesa di massa, c’è un clima da Ellis Island pre Auschwitz, ma è con disagio che faccio questa analogia. Tante delle persone che aspettano, nonostante la tenuta caraibica, mi sembrano ebree e mi vergogno di sorprendermi a pensare di poter stabilire se uno è ebreo dall’aspetto. Secondo me i luoghi pubblici della East coast sono pieni di questi brevi momenti malvagi di osservazioni razziste e rinculi interiori politicamente corretti.

Leggi anche: 

I vacanzieri – Emma Straub

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La crociera imprevista – Marie-Anne Desmarest

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Bruce Chatwin, Utz e il baluardo di un’epoca

Le coincidenze sono solo coincidenze? Me lo domando spesso e ancora non ho trovato una risposta rassicurante. Anche con Utz di Bruce Chatwin è andata così: ho scelto a caso l’audiolibro tra i tanti che propone il programma Ad alta voce di Rai Radio 3 e mi ritrovo il documentario Nomad, sulle tracce di Bruce Chatwin al cinema, mentre decido con quale film tornare in sala nel post Covid. Coincidenze? Chissà. Intanto, vi racconto com’è andata con l’ascolto.

Trama

Kaspar Utz, ricco praghese di famiglia tedesca, coltiva una sua esclusiva passione per le famose porcellane di Meissen, che acquista ovunque e conserva tutte nella sua casa. Costretto a subire prima l’invasione nazista e poi il regime comunista, egli intrattiene con la sua collezione un rapporto totale, che lo isola dal sinistro «rumore di fondo» della storia e lo fa perdere nelle mille storie che possono nascere dai personaggi raffigurati nelle porcellane, riconducendolo a un passato sei-settecentesco forse altrettanto terribile, ma per lui certamente felice. Ma subito dopo la morte di Utz, la collezione scompare misteriosamente e non viene più trovata. 

Utz e Stevens, uniti da un filo invisibile

Bruce Chatwin andava di moda negli anni ’80, poi è scomparso dai radar. Morto giovane, Utz è il suo ultimo romanzo, scritto quando già sapeva di avere poco tempo da vivere. Ho iniziato l’ascolto incuriosita dalla trama e dalla voce di Lino Guanciale. In realtà, ad abituarmi alla voce dell’attore ho fatto fatica, eppure quando recita mi piace molto. La storia, invece, mi ha ricordato Quel che resta del giorno di Kazuo Hishiguro. Non per la trama, che ho completamente diversa, ma per l’attitudine dei protagonisti a voler conservare un mondo che non c’è più. Tanto Stevens si aggrappa alle posate d’argento, che vanno perfettamente lucidate, tanto Utz si attacca alle porcellane, che vuole preservare a tutti i costi dalla distruzione.

Uno zaino e un taccuino come moderne porcellane 

Un mondo che cambia, rapporti sociali che si ribaltano, la bellezza, la bellezza degli oggetti e delle persone che non viene più riconosciuta e gettata via. Forse, in ogni momento di passaggio c’è uno Stevens, o un Utz, a conservare quello che prima o poi tornerà di moda. Come ha fatto il regista di Nomad con lo zaino di pelle di Bruce Chatwin e il suo inseparabile taccuino, che ha dato il via alla moda del Moleskine, e che rappresentano per noi delle moderne porcellane.

Che fine ha fatto la collezione di Utz?

Già, che fine avrà fatto? Che teoria avete voi? L’io narrante, lo scrittore stesso?, cerca di capire cosa ne sia stato, ma l’unica ipotesi è che Utz abbia voluto portare con sé dopo la morte le amate statuette, distruggendole e affidandone i cocci a una discarica, pur di non farle cadere nelle mani insensibili dei funzionari governativi, cosa che in vita lo preoccupava più di ogni altra cosa. Un pensiero eretico, il suo, la sparizione delle statuine.

Lui era l’ultimo al mondo a sminuire il valore di chi rischiava il campo di lavoro per pubblicare una poesia su un giornale straniero, ma a suo modo di vedere i veri eroi di quella situazione impossibile erano quelli che non aprivano mai bocca contro il partito o lo Stato e, tuttavia, parevano albergare nelle loro teste la summa della civiltà occidentale. Con il loro silenzio, disse, infliggono allo Stato un estremo insulto, fingendo che non esista…lo Stato, con tutti i suoi sforzi di cancellare ogni traccia di individualismo, offriva all’individuo intelligente un’infinità di tempo in cui coltivare, in privato, i propri sogni e pensieri eretici. 

Bruce Chatwin, infatti, si è ispirato a una storia vera. Lui, che lavorava da Sotheby’s aveva saputo di un grande esperto di porcellane, un collezionista eccezionale. L’anno che precedette la primavera di Praga, andò a trovare il collezionista, Rudolph Just, e passò alcune ore con lui e la sua collezione. Just morì a metà degli anni Settanta e della sua collezione non c’è stata traccia, fino al suo ritrovamento nel 2001. Questo Bruce Chatwin non poteva saperlo e inventò una romantica e tragica fine per le sue porcellane. Anch’io, che leggendo il libro non sapevo di questa vicenda realmente accaduta, non la pensavo come il narratore. Secondo me, invece, c’entra una donna. E’ Martha l’artefice di tutto. Anche Rudolph Just avrà avuto la sua Martha? Voi la pensate come Bruce Chatwin o come me sulle porcellane di Utz? Scrivetemi nei commenti la vostra teoria. 

Leggi anche: 

Quel che resta del giorno – Kazuo Hishiguro

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Georges Simenon, Tre camere a Manhattan

Georges Simenon, Tre camere a Manhattan. Per un attimo, l’autore belga lascia da parte il commissario di polizia Maigret e si mette febbrilmente a scrivere una storia che consegna all’editore dopo soli sei giorni. Una storia d’amore, di solitudine e, forse, di nuovi inizi.

Trama 

New York, notte. Un uomo e una donna camminano lungo la Quinta Strada. Entrano in un bar. Ne escono. Un altro bar. E riprendono a camminare, instancabili, come se non potessero fare altro che camminare: «come se avessero sempre camminato così, per le strade di New York, alle cinque del mattino». Come se la notte non dovesse mai finire. Lui non sa niente di lei, lei non sa niente di lui. Lei traballa un po’ sui tacchi troppo alti, e ha una voce roca, una voce che fa pensare a una pena oscura; su una delle sue calze chiare spicca una smagliatura sottile – come una cicatrice. Non è né giovanissima né prepotentemente bella; sul suo viso, i segni di una stanchezza, di una ferita remota: ma è proprio questo a renderla seducente. Si sono incontrati solo poche ore prima, in una caffetteria nei pressi di Washington Square, come due naufraghi, e ora «sono così tenacemente avvinti l’uno all’altro che la sola idea della separazione risulta loro intollerabile».

Due solitudini che s’incontrano

“Chissà, magari di lì a un’ora, o a mezz’ora, sarebbero ridiventati due estranei…Non era per questo che continuavano a prendere tempo, che da quando si conoscevano non avevano fatto che prendere tempo, perché niente lasciava loro intravedere un possibile futuro?

Pare quasi di vederli, quei due, tra le strade brumose di Manhattan, mentre camminano incessantemente per non doversi fermare e riflettere, guardarsi in faccia, chiarire la natura del loro rapporto. La frase che ho citato, secondo me, dà senso all’intero romanzo. Un romanzo chiaramente autobiografico, che Georges Simenon scrisse addirittura in sei giorni, tanta era l’urgenza di mettere su carta il fuoco che gli ardeva dentro. “L’ho scritto a caldo e questo mi ha fatto paura”, così commentava il processo di scrittura.

Il simbolo del 3 

Sì, il fuoco, di un uomo che lascia il mondo così come l’aveva conosciuto fino a quel momento, la vecchia Europa, e si imbarca su una nave danese per raggiungere New York. Un mondo diverso, dove lui non è nessuno, mentre in Europa era già un romanziere affermato. Un uomo che in quel momento sta mettendo in discussione la sua vita, il suo lavoro e il suo matrimonio. Il romanzo, infatti, è stato scritto nel periodo in cui l’autore aveva già iniziato a frequentare la donna che anni dopo diventerà la sua seconda moglie, Denyse Ouimet. Al contrario del personaggio di Tre camere a Manhattan, Georges Simenon lascerà la moglie solo quando Denyse gli comunicherà di aspettare un figlio da lui. Dubbi e lacerazioni dell’uomo Simenon che ricorrono nella simbologia del tre, che pervade le pagine: tre camere, relazione a tre tra i protagonisti e i rispettivi ex, relazione a tre anche tra la coinquilina di Kay e i suoi amori. nell’ultima camera, è una porta a fare da spartiacque: rimarrà chiusa o aperta?

Lo smarrimento

Nel romanzo, predomina il senso di solitudine, lo smarrimento dei protagonisti è percepibile. Lui, François Combe, è un attore francese tradito dalla moglie, che pubblicamente lo ha sostituito con un attore molto più giovane e che, baciato dal successo in patria, ora fatica a trovare anche piccoli ruoli. 
Lei, Kay Miller, è una donna che ha abbandonato marito facoltoso e figlia per ricostruirsi faticosamente una vita, di cui porta i segni in faccia. Il romanzo di Georges Simenon va letto con gli occhi dell’epoca. Oggi, una trentacinquenne e un quarantottenne potrebbero benissimo iniziare una nuova vita, senza grandi traumi. Lo scrittore, invece, parla di una donna ormai sfiorita, che i suoi amici gli invitano a lasciar perdere perché sicuramente in cerca di un uomo che la salvi dalla perdizione.

Guardarsi allo specchio

Ecco, questo aspetto mi ha un po’ infastidito. François Combe mostra a tratti una personalità violenta, che mette in discussione i comportamenti di Kay senza guardarsi mai allo specchio. Lei, al contrario, sembra più fragile di quanto non sia. In realtà, nella vita ha saputo compiere scelte dure e assumersene la responsabilità. Sì, è vero, naviga nell’oblio e frequenta bar equivoci a notte fonda, ma l’immagine che siamo portati a farci nelle prime pagine viene smentita via via che il romanzo va avanti. Sicuramente più risolta lei, certamente una donna che sa comprendere lo sconvolgimento che gli alberga dentro, perché ha vissuto anche lei quella fase. Lui, invece, cerca giustificazioni per le sue azioni, addossando sempre la colpa a qualcuno. Alle donne, essenzialmente: prima la moglie, poi la sua natura di uomo, poi Kay. Come lo chiameremmo oggi? 

Leggi anche: 
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Le parole che non ti ho detto e le seconde occasioni della vita

Le parole che non ti ho detto. Anche per il secondo libro del Book Club PeC, siamo arrivati alla conclusione. Ci siamo confrontati sui personaggi, sui tempi e i luoghi in cui è ambientata la storia, e sulla storia in sé. Ora è tempo di tirare le fila ed esprimerci sul romanzo nel suo complesso. La lettura è finita e ora possiamo confessarlo: ci è piaciuto o no quest’opera di Nicholas Sparks? Parto io con le mie sensazioni, se volete commentate sotto il post con le vostre.

Second chance che la vita ti offre

Il romanzo di Nicholas Sparks non mi è dispiaciuto. Le parole che non ti ho detto è un libro sulle seconde occasioni, da prendere o lasciare. Ci si può rifare una vita dopo aver sofferto? Sparks dice di sì, ma non è così facile come si potrebbe pensare. Per lasciarsi andare a un nuovo amore, a una nuova vita, bisogna saper alleggerire lo zaino della vita precedente. Per rimanere nella metafora marinara, bisogna capire quando scaricare la zavorra e quando, invece, è meglio lasciarla così com’è. E’ tutta una questione di equilibrio. Come capire quando si è pronti a farlo?

Ma sapremo afferrarle?

E’ quello che succede a Garrett. Un uomo giovane, che tuttavia vive nel ricordo incancellabile della moglie Catherine, morta in un incidente. Garrett si limita a sopravvivere, un passo dopo l’altro, scrivendo lettere, che poi butta in mare, all’amata moglie. Ma quando Theresa ne trova una, il destino sembra cambiare il vento e riportare la barca in asse. Theresa vuole lasciarsi alle spalle un brutto divorzio e ricominciare a vivere. Ma sarà Garrett l’uomo giusto per farlo? E’ possibile amare un uomo accompagnato dall’ombra di qualcun’altra? Catherine, questa ragazza scomparsa nel fiore degli anni e con un segreto ancora custodito, è viva, vivissima tra le pagine del romanzo di Sparks.

La storia dell’autore dentro le pagine 

E’ questo il problema e una consolazione insieme. Catherine è ancora viva. Avevo promesso che vi avrei raccontato perché Nicholas Sparks sceglie di far navigare Theresa in acque alte. La storia di Garrett è la storia del padre dell’autore americano. Rimasto vedovo ancora giovane, a causa di un incidente in cui ha perso la moglie, per quattro anni si è lasciato andare a una solitudine senza rimedio. Racconta l’autore: “poi, una sera, mi ha chiamato per dirmi – mi sono fidanzato -. Ero al settimo cielo, un figlio desidera solo che i genitori siano felici. Qualche giorno dopo, tornando a casa tardi, si è addormentato al volante ed è scomparso così”. Ora capite perché il romanzo finisce come finisce?

Cosa che a me non dispiace 

Il finale, tutto sommato, è quello giusto. Anche se Nicholas Sparks ammette che molti lettori non ne sono stati soddisfatti. Invece io penso che, in fondo in fondo, Garrett non fosse l’uomo giusto per Theresa e che a lungo andare le loro differenze sarebbero emerse con prepotenza. Voi che dite?

Commentate sotto al post 

Come vi ho già detto, sentitevi liberi di commentare sotto il post le vostre sensazioni, perplessità, emozioni, e tutto ciò che Le parole che non ti ho detto vi ha dato, in positivo o negativo. Vi prego solo di badare più alla sostanza che alla forma. Non fatevi bloccare dalla timidezza, più riusciamo a esprimerci liberamente e più una lettura condivisa acquista valore.

Leggi anche: 

Altri romanzi sulle second chance

Gli altri romanzi del Book Club PeC 

Nicholas Sparks e la luna che sembra spuntata dal nulla

Le parole che non ti ho detto, di Nicholas Sparks, il libro che stiamo leggendo nel BookClubPeC. Nelle settimane precedenti, abbiamo parlato dei personaggi e commentato tempi e luoghi in cui Nicholas Sparks ha immerso i suoi protagonisti. Ora abbiamo terminato la terza settimana di lettura e, se abbiamo proseguito senza impedimenti, dovremmo essere giunti a a 3/4 del romanzo. Quindi, possiamo iniziare a dire qualcosa sulla storia in sé. Come di consueto, vi lascio sotto qualche spunto di riflessione. Ai lettori la parola.

Una luna che sembrava spuntata dal nulla

Fuori la marea saliva poco a poco, attirata da una luna che sembrava spuntata dal nulla. Sarà che la primavera ha fatto capolino in sordina e che nei giorni scorsi l’acqua è scesa giù abbondantemente, ma quest’atmosfera marinara mi sta facendo bene. Soprattutto il posto di mare in cui vive Garrett, la casa senza palafitte che rischia di crollare con un ciclone più forte del previsto, che mi ha ricordato chissà perché Come un uragano, il film con Diane Lane e Richard Gere, il pesce fresco nel localino senza pretese. Che nostalgia, quando torneremo a vedere tutto questo? Speriamo presto. Intanto, accontentiamoci di navigare tra le pagine del romanzo di Nicholas Sparks.

La storia vi convince?

La lettura, invece?  Come prosegue? State incontrando difficoltà o vi piace quello che leggete? La vicenda di Theresa e Garrett vi appassiona, o in alcuni punti vi sembra un po’ forzata?

E lo stile con cui Nicholas Sparks racconta i fatti? 

Vi piace? O avreste preferito un altro modo di narrare?

Commentate sotto al post 

Come vi ho già detto, sentitevi liberi di commentare sotto il post le vostre sensazioni, perplessità, emozioni, e tutto ciò che il libro di Nicholas Sparks vi sta dando, in positivo o negativo. Vi prego solo di badare più alla sostanza che alla forma. Non fatevi bloccare dalla timidezza, più riusciamo a esprimerci liberamente e più una lettura condivisa acquista valore.

Aspetto i vostri commenti qui sotto! 🙂 

Se volete recuperare o aggiungere qualcosa su personaggi o ambientazione, o se volete sapere come funziona il Book Club P&C, cliccate sotto:

Le parole che non ti ho detto, Theresa cerca un uomo alpha o beta?

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Book Club PeC: Le parole che non ti ho detto sulla spiaggia di Cape Cod

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Book Club P&C: via alla prima lettura! I ponti di Madison County, di Robert James Waller

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