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L’Accabadora di Michela Murgia

Accabadora è il primo romanzo di Michela Murgia che leggo e, certamente, il suo titolo più famoso. E a ragione, direi. Una figura, quella dell’accabadora (colei che finisce), la cui esistenza non è mai stata provata, ma che probabilmente esiste in ogni luogo del mondo. Forse non è una donna, forse non veste di nero. Ma c’è un’unica cosa sicura nella vita dell’uomo. E quando la Signora viene a bussare, l’essere umano è costretto a fronteggiarla.

Trama

accabadoraSardegna anni ’50. Maria ha sei anni ed è appena diventata «figlia d’anima» dell’anziana Bonaria Urrai, secondo l’uso campidanese che consente alle famiglie numerose di compensare la mancanza di figli altrui attraverso un’adozione sulla parola. La bambina è inizialmente convinta che Bonaria Urrai faccia la sarta, e infatti le giornate sono segnate dallo scorrere nella bottega casalinga di un’umanità paesana, fatta di piccole miserie e relazioni basate su sguardi  gesti. Accettata come normale dal paese, l’adozione solidale tra la vecchia e la bambina si consolida negli anni. Un giorno, però, Maria viene messa di fronte a una realtà che non può più fingere di ignorare: Bonaria non è solo una sarta. Bonaria è un’accabadora, una donna che toglie la vita.

Figlia dell’anima

Sono due i temi importanti affrontati in questo romanzo di Michela Murgia. Uno, è la maternità e la condizione di figlia e figlio. E’ necessario aver generato per essere madri e padri? E’ necessario vivere nella famiglia di origine per essere felici? La risposta di Michela Murgia a entrambe le domande è no e la società campidanese, nella sua semplicità, lo sa bene e lo affronta con spirito pragmatico. Così, nascono, crescono e prosperano i figli d’anima, nome che trovo meraviglioso, e voi? Se tutti i dibattiti etici venissero affrontati senza pregiudizi e retorica, saremmo tutti più felici, ne sono convinta.

Mai dire mai

E poi c’è l’argomento principale. Quello di Michela Murgia è un piccolo libro che affronta un tema grande, più grande di noi finché non abbiamo la sventura di viverlo sulla nostra pelle. Quando viene affrontata nei dibattiti pubblici, l’eutanasia divide in due gli intervenuti, con le motivazioni filosofiche, religiose, morali ed etiche che ne conseguono. Credo che l’accabadora si limiterebbe a seguirle con viso immobile e sguardo vitreo, mormorando un’unica frase: “Non dire mai: di quest’acqua io non ne bevo. Potresti trovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata”.

Il che vale come monito per quasi tutti i fatti della vita, non credete?

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Olimpiche, storie immortali in cinque cerchi – Luca Pelosi

Luca Pelosi e le storie olimpiche. Le olimpiadi di Rio de Janeiro sono appena finite e abbiamo ancora tutti nel cuore e negli occhi quelle immagini e quelle emozioni che solo le olimpiadi sanno regalarci. Per allungare un altro po’ questa sensazione, mi sono regalata questo libro di racconti legati alle olimpiadi. Che di emozioni ne regala parecchi.

Trama

Le Olimpiadi hanno tanti volti, personaggi e storie che le rendono speciali. Uniche, perché le Olimpiadi hanno qualcosa di diverso. Sono il posto dove puoi trovare storie che emozionano, appassionano, insegnano. Storie dove la rivalità diventa amicizia, la debolezza diventa forza, la morte diventa vita. 

I cinque cerchi

Nell’anno delle olimpiadi di Rio, Luca Pelosi ci regala una serie di racconti “olimpici” che vanno oltre quello che accade in campo, divisi giustamente in cinque cerchi. Solo che i cerchi, invece di rappresentare i continenti, qui simboleggiano i valori più alti dell’uomo: amicizia, amore, coraggio, giustizia, saggezza.

Da leggere

Dico solo una cosa: da leggere. Alcuni faranno piangere, altri sorridere, altri ancora riflettere intensamente sul significato profondo della parola sport. Quello vero, di chi soffre, combatte, lotta e si rialza. Il doping, gli affari, i soldi, il marketing. Lasciateli fuori, o voi che entrate in questo mondo parallelo. E meraviglioso.

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Una corsa per amore, il mio secondo romanzo

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Non avevo capito niente, caro Diego De Silva

Diego De Silva e il primo libro della serie Vincenzo Malinconico, avvocato napoletano alle prese con una vita che lo affanna ma non lo sconfigge. Un’ex moglie di cui è ancora innamorato, due figli che tenta di capire, un lavoro che tenta di amare. Riuscirà a uscire fuori dal guado? La verità, venite a leggere.

Trama

Vincenzo Malinconico è un avvocato napoletano che finge di lavorare per riempire le sue giornate. Divide con altri finti-occupati come lui uno studio arredato con mobili Ikea, chiamati affettuosamente per nome, come fossero persone di famiglia. È stato appena lasciato dalla moglie, ma cerca con ogni mezzo di mantenere un legame con lei e i due figli adolescenti. Un giorno viene improvvisamente nominato difensore d’ufficio di un becchino di camorra detto “Mimmo ‘o burzone” e, arrugginito com’è, deve ripassarsi il Bignami di diritto. Ma ce la fa, e questo è solo il primo dei piccoli miracoli che gli capitano. Il secondo si chiama Alessandra: la pm più bella del tribunale, che si innamora di lui e prende a riempirgli la vita e il frigorifero. E intanto Vincenzo riflette sull’amore, la vita, la delinquenza, la musica: su tutto quello che attraversa la sua esistenza e la sua memoria, di deriva in deriva.

Un’intera generazione

L’avvocato Malinconico di Diego De Silva rappresenta i cinquantenni italiani irrisolti di oggi: per quanto riguarda il lato privato, è ancora innamorato dell’ex moglie,  incontra la figlia acquisita di nascosto per andare a mangiare schifezze, ha un figlio che non capisce, un lavoro che affronta senza passione e senza impegno. E senza guadagno, soprattutto. Ci sono molti Malinconico in giro, è il caso di dire che il suo sia un nomen omen. De Silva è bravo a tratteggiare un’intera generazione con lo sguardo disincantato di chi attraversa la vita sfiorandola appena e si circonda di personaggi improbabili come lui stesso. “Ho 42 anni, due figli, vivo da solo…guadagno poco, non ho fatto carriera“, la sintesi perfetta del suo curriculum.

Capo-coda-carne in mezzo

Il risultato è un romanzo divertente, pieno di spunti di riflessione senza avere l’aria di voler insegnare qualcosa. Avrei dato cinque stelle per una serie che vorrei proseguire, se non fosse stato per la variazione sul tema capo-coda-carne in mezzo. Diego De Silva infila tutto, ma gli sproloqui filosofici di Malinconico annacquano un po’ la storia, che in fondo andava bene già da sola.

Certe volte penso, ma lo penso veramente, che bisognerebbe piantarla con questa storia del parlare. Perché tanto non serve a niente. Non è questione di capirsi, fare fatica a ritrovarsi nelle cose; non è questo. È che nessuna conversazione regge l’argomento per più di un paio di battute; è la pertinenza, il problema…E’ così che stanno i rapporti tra le persone, anche quelle che si conoscono da una vita, ed è per questo che dire o non dire è la stessa cosa, e la sincerità è un incidente e non è nemmeno che faccia così bene come comunemente si pensa. Parlare non risolve i problemi, semmai gli dà una lisciatina. 

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