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Clan Delon, tra cane e lupo non mettere il dito

Il clan Delon messo a nudo da Anthony, che con l’autobiografia Dolce e crudele, questo il titolo italiano, decide di raccontarci la sua famiglia partendo dalle ombre che l’hanno sempre caratterizzata. Operazione riuscita? Venite che vi racconto.

Trama

Figlio di un mostro sacro del cinema e di un’attrice amante della libertà, Anthony Delon squarcia il velo sulla sua famiglia e sulla sua vita, offrendo un ritratto della sua infanzia, degli anni della giovinezza, della malattia della madre, alla quale è rimasto vicino fino all’ultimo giorno. Al centro del racconto il rapporto tormentato con il padre, la violenza psicologica, la difficoltà di vivere nella sua ombra, il senso di abbandono, ma anche l’amore della tata e del padrino Georges Beaume, che l’ha salvato. In questo libro pone a se stesso e ai lettori una domanda universale. Come superare le paure, le ferite, le delusioni? Come non riprodurre il modello imposto dalla famiglia, dove l’amore è stato la prima vittima di una maledizione che si tramanda di generazione in generazione? 

Tra il giorno e la notte

Il titolo originale di questa autobiografia è Tra cane e lupo, un’espressione francese che significa “all’imbrunire, al calar della notte”. Quell’ora del giorno, cioè, in cui la luce è incerta, l’ora in cui il cielo a volte è blu scuro, momento in cui è difficile distinguere oggetti o esseri. Come distinguere un cane da un lupo? Il cane simboleggia il giorno e la luce, protettiva, mentre il lupo rappresenta la notte dove sorgono paure, ansie e incubi. Prima di queste paure, tra cane e lupo appunto, vengono il dubbio e la preoccupazione del crepuscolo. Come quasi sempre, il titolo originale è più calzante e allude all’ambiguità di fondo che domina i rapporti in questa famiglia, come se fossero sempre in bilico tra la distruzione totale e la rinascita improvvisamente. Anthony Delon si riferisce alla sua famiglia chiamandola “Clan Delon” e le dinamiche sembrano proprio quelle di un clan. Un clan in cui le regole vengono scritte e stracciate continuamente dal capoclan. 

Alla ricerca di un’identità 

Anthony descrive se stesso come un bambino solo e indifeso, lasciato da entrambi i genitori, giovani quando è nato, alla cura di altri, le vere rocce salde della sua vita. Il racconto, quindi, si dipana tra un’infanzia e un’adolescenza essenziamente infelici, sempre a cercare di schivare i colpi di un padre pronto a diventare lupo nei momenti più impensati e una madre che vive la sua vita lontano dal figlio, e una vita adulta in cui il figlio di è alla costante ricerca di una sua identità. Identità che, dice, ha trovato grazie alle sue figlie e al suo voler essere un padre presente, laddove le sue figlie sono alle prese (come lui) con una madre lontana. Una madre che comunque lui adora, mentre fatica ad accettare il padre che gli è capitato in sorte. 

Non squarcia il velo

C’è un grande mah in questa autobiografia, che avrebbe invece potuto “squarciare un velo” (come recita la sinossi). Anthony Delon decide di lasciare le ombre al loro posto, forse per non svegliare il can e il lupo che dorme. O forse per non tradire quel clan di cui lui fa parte a pieno titolo, soffrendo delle stesse pulsioni violente e autodistruttive. Perché, andando a leggere tra le righe, gli affari poco chiari non sono solo quelli del genitore. E anche Anthony, come padre, ha recuperato solo in vecchiaia il rapporto con la prima figlia Alyson Le Borges, illegittima, che oggi fa l’attrice. Rapporto di cui nel libro non fa cenno, riferendosi solo ed esclusivamente alle due figlie avute dal matrimonio. Perché? Mi piacerebbe chiederglielo. Eppure l’ha riconosciuta, mentre il presunto figlio illegittino di Alain Delon, Christian Aaron Boulogne, è deceduto senza essere mai stato riconosciuto. In definitiva, trovo che il lavoro sia interessante perché comunque descrive un rapporto genitori-figli che avvicina persone famose a tutti noi; al netto di ville, scuole e vacanze esclusive, in fondo, quello che tutti vogliamo e cerchiamo è solo amore.

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Alba Donati e la sua La libreria sopra la collina

Nel dicembre 2019, Alba Donati realizza di essere stanca di Firenze e decide di cambiare vita. Come? Aprendo una libreria a Lucignana, poche case sull’Appennino lucchese. Una libreria per poche case sparse quando i franchising e le multinazionali stanno chiudendo? Esatto. Come ha fatto? Venite che vi racconto.

Trama

Una libreria microscopica in un paesino sperduto sulle colline toscane, ma portentosa come una scatola del tesoro. Dai bambini che entrano di corsa alle marmellate letterarie, da Emily Dickinson a Pia Pera, le giornate nella Libreria Sopra la Penna sono ricche di calore, di vite e storie, fili di parole che legano per sempre: una stanza piena di libri è l’infinito a portata di mano. Non è mai troppo tardi per realizzare un sogno.

Perché hai aperto una libreria in un paesino sconosciuto?

E’ una domanda che si sente ripetere spesso. E questa è la risposta che dà di solito. “Perché avevo bisogno di respirare, perché ero una bambina infelice, perché ero una bambina curiosa, per amore di mio padre, perché il mondo va a scatafascio, perché il lettore non va tradito, perché bisogna educare i più piccoli, perché a quattordici anni piangevo da sola davanti alla tv la morte di Pier Paolo Pasolini, perché ho avuto maestre e professoresse straordinarie, perché mi sono salvata”. E poi perché crede al lato bello della vita, ai sentimenti di amicizia e amore, alla possibilità di ricreare una vita lenta dal sapore passato in un mondo che va sempre più veloce, ma per andare dove? “Come mi è venuto in mente? Le cose non vengono in mente, le cose covano, lievitano, ingombrano la nostra fantasia mentre dormiamo. Le cose hanno gambe proprie, fanno un cammino parallelo in una zona di noi che noin non sappiamo nemmeno lontanamente dove sia e a un certo punto bussano: eccoci, siamo le tue idee pronte per essere ascoltate”.

Come si realizza un sogno?

E qui passiamo al lato meno romantico di questa iniziativa imprenditoriale. Come si apre una libreria? Alba Donati dice che ci vogliono soldi per partire, un locale adatto (nel suo caso ereditato dalla zia). E tante idee, sopratuttto. La libreria ha successo perché agisce in controtendenza. O forse in tendenza, perché sono tante le persone stanche di entrare in negozi dove nessuno ti guarda in faccia e stanno lì a controllare se uscirai con una refurtiva. Il potenziale cliente, per loro, è piuttosto un potenziale ladro. A chi di noi non è capitato di sentirsi osservato più del dovuto mentre pensa ai fatti suoi e decide se comprare merce di scarsa qualità o meno? Alba Donati, invece, si inventa un cottage letterario immerso nel verde, che la gente organizza gite per poter andare a vedere. Tutto bello? Ma no, quando mai.

Il diario della libreria sulla collina

Un mese dopo l’apertura, un incendio distrugge la libreria. Parte un crowfunding solidale che la rimette in piedi. Poi, parte il lockdown e sono guai, il pellegrinaggio rallenta. In questo diario, Alba Donati raccoglie sei mesi di vita della libreria. Svolazzando come una farfalla, senza affrontare nessun argomento nel profondo, la poetessa racconta di sé, della famiglia, della vita di paese, di quello che i clienti della libreria si aspettano di poter ricevere dal libro che hanno scelto. Un momento di break nella frenesia quotodiana, per la maggior parte. E sentirsi parte di una comunità, di un gruppo, quello dei lettori a ogni costo. Alba Donati ci racconta la sua vita di libraia felice e finalmente risolta, che ha trovato la sua casa dove in fondo era sempre stata. Nasconde, probabilmente, la gran parte della fatica che c’è dietro. E anche che tutto questo è possibile perché altre attività sostengono economicamente questa. Nasconde anche, probabilmente, le difficoltà che la vita in un paesino così minuscono comporta. Accenna a un 30% di persone contrarie alla libreria, ma non dice perché. Probabilmente perché attira attenzione non gradita.

La felicità è dove vogliamo che sia

A volte, leggendo, mi sono persa dietro ai nomi e a fatti piccoli, che assumono rilevanza in un microcosmo. A più riprese ho pensato che così non potrei vivere, che il mondo è troppo vasto per rinchiudersi, che gli svantaggi superano di gran lunga i vantaggi. O forse no? Quello che mi ha lasciato questo breve racconto di vita, a parte qualche titolo interessante da appuntare, è che la felicità è dove vogliamo che sia. E Alba Donati l’ha trovata qui, in questo microcosmo chiamato Lucignana,  fra le Alpi Apuane e l’Appennino toscano. 

E voi? Dove volete che sia la vostra felicità? Cìè un posto dove vorreste ricominciare da capo con un sogno da realizzare? Scrivetemi nei commenti! 

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Siete mai stati da Strand? Si trova a New York ed è una delle librerie più famose del mondo. A parte i tre piani di libri all’interno, c’è davvero da perdersi negli scaffali dell’usato all’esterno. Mentre curiosavo persa tra migliaia di titoli e di possibilità, mi capita tra le mani un libricino verde e apparentemente innocuo: Anne of Green Gables, di L. M. Montgomery. Il primo romanzo della serie Anna di Tetti Verdi, o Anna dei verdi abbaini, o più comunemente Anna dai capelli rossi è nelle mie mani, al fantascientifico prezzo di 0,48 centesimi di dollaro, circa 40 centesimi di euro. L’ho appena finito e dovete sapere perché non è innocuo come sembrava…

 

Pelè non c’è più. Pelè: Io, l’unico Re

Pelè non c’è più, oggi il mondo gli darà l’estremo saluto. Il Brasile è una terra di storie e non vale la pena raccontare una storia se non ha tante versioni diverse. Pelè ne racconta tante e spesso si assicura di mantenere sempre un’aura di mistero e di leggenda intorno a ognuna di esse. E’ la sensazione che trasmette “Pelè – Io, l’unico Re”, l’autobiografia di O’Rey scritta con i giornalisti Orlando Duarte e Alex Bellos, pubblicata nel 2006.

I tre cuori

Si comincia proprio con una leggenda. Quella dei tre cuori, che riguarda la località in cui è nato Pelè. Tres Coracoes, a nord di Rio de Janeiro. Un omaggio alla cappella “Sacri cuori di Gesù, Maria e Giuseppe”, voluta dall’esploratore portoghese che per primo vi arrivò, alla delusione amorosa di tre cowboy che non riuscirono a sposare tre ragazze del luogo, o a un’ansa del Rio Verde che ha la forma di tre cuori? La soluzione l’ha trovata la mamma, Dona Celeste (ancora viva), e così Pelè ha tre cuori: uno per la famiglia, uno per gli amici, uno per i nemici.

Pelè, Bilè

Pur tenendo vive le tre versioni sull’origine del suo soprannome, quella è l’unica leggenda sulla quale tiene a specificare la verità. Ha accettato quel soprannome, storpiatura di “Bilè”, che era un portiere al quale veniva paragonato quando si metteva in porta, ma non gli è mai piaciuto. Era orgoglioso di essere stato chiamato Edson in onore di Edison, l’inventore della lampadina. E spesso nelle cartoline si firma “Pelè” da una parte e “Edson Arantes do Nascimiento” dall’altra. Due facciate, oltre ai tre cuori, che usa anche come scusa quando George Best lo invita a bere alcolici: “Non posso, ho tre cuori, mi sentirei male il triplo”. Si è dedicato molto a campagne contro alcol e droga, ma poi ha dovuto affrontare la condanna per traffico di droga capitata al figlio Edinho (che oggi l’ha scontata e fa l’allenatore). Non nasconde i suoi dolori né i suoi errori nel racconto della sua vita scritto a sessantasei anni e “con ancora tante cose da fare”. Ha continuato a farne, ma in questo libro c’è già tantissimo.

Sorriso da copertina

Le parti più importanti della carriera vengono ricostruite minuziosamente, la passione per il calcio è il grande filo conduttore, anche se l’entusiasmo che si percepisce nel racconto della sua infanzia fatalmente scema un po’ con lo scorrere delle pagine. C’è più entusiasmo nel parlare degli amici d’infanzia piuttosto che degli incontri con John Lennon e Bill Clinton. Il tutto sempre con quel sorriso che si vede in copertina e che ha accompagnato praticamente ogni sua apparizione pubblica. Pelè vuole porsi come una figura positiva, è grato a ciò che la famiglia ha fatto per lui e a Dio per avergli salvato la vita tre volte.

tre coppe

Gli avversari? Compagni di viaggio

Rende merito agli altri grandi campioni che ha incontrato nel suo percorso, vede gli avversari non come tali ma come compagni di viaggio, non sembra portare rancore a chi gli ha fatto del male. Al massimo si concede un: “Ci rimasi molto male”. Sicuramente dice qualche bugia, come ad esempio quando racconta di ritenersi “amico” di Maradona. Poche righe dopo, però, spiega perfettamente perché le discussioni sul “più grande di sempre” non hanno senso. Così la sensazione è che quel sorriso diventi un filtro che ti impedisce di conoscerlo fino in fondo. E’ anche un suo motivo di orgoglio, come racconta lui stesso parlando del medico della Nazionale brasiliana. Era un dentista, ma non l’ha mai frequentato per i denti, perché non ne ha avuto bisogno. Ne ha avuto bisogno ai Mondiali del 1962, uno dei tre che ha vinto (ancora oggi nessuno nella storia del calcio ha fatto altrettanto), ma non da protagonista, perché un infortunio gli impedì di vivere le fasi decisive. Lì va un po’ oltre il “ci rimasi molto male”. Voleva scappare, lo convinsero a rimanere, applaudì Garrincha. Ogni volta che i due hanno giocato insieme, il Brasile non ha mai perso.

Il Brasile del ’58

Già, il Brasile. Il più forte per la somma di individualità, secondo Pelè, era quello del 1958. Quello più “squadra” era quello del 1970. O’Rey dissemina le sue idee sul calcio qua e là e stupisce quando racconta quella che lui ritiene la sua dote migliore. Non il dribbling, non il fisico, non la potenza, ma una dote che emerse fin da giovanissimo: la capacità di prevedere i passaggi dei compagni di squadra. Così riusciva a giocare tanti palloni e a non farsi anticipare, perché si faceva sempre trovare. Era il più cercato, essendo il più bravo, ed ecco che tutto il resto viene abbastanza facile.

Pelè e Papa Ratzinger 

Facile è anche la scrittura, e di conseguenza la lettura, di un libro che fatalmente regala più di una suggestione a poche ore dalla sua scomparsa. La morte torna spesso, nel racconto. Vi sfuggì da piccolo, la vide nel volto di un pilota morto dopo la caduta di un aereo (e così smise di sognare di voler fare, appunto, il pilota), racconta di aver sentito morire una parte di sé dopo aver smesso di giocare (e per questo di aver ricominciato, con i Cosmos New York). Sarà sepolto esattamente dove aveva indicato in questo libro, nelle cui ultime pagine racconta anche del suo incontro con Papa Benedetto VI. Ovunque siano ora, magari si sono appena incontrati di nuovo.

pele ratzinger incontro

***

“C’era stata una ragazza, tra le prime, di cui ero veramente cotto, ma suo padre mise subito fine alla storia. Un giorno venne all’uscita della scuola e le fece una predica perché stava con me. “Cosa fai con questo negrinho?” urlò. Credo sia stata la prima volta in cui ho sperimentato direttamente il razzismo, e fu davvero scioccante. La mia ragazza era bianca, ma non mi era mai venuto in mente che qualcuno potesse avere un problema per questo, tanto meno nei miei riguardi.”

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Andre Agassi, Open

Emmanuel Carrère fa Yoga: verità o finzione?

Emmanuel Carrère fa Yoga. Niente di eccezionale, lo fanno in tanti. Senonché lui trasforma quest’antica arte orientale in una riflessione su di sé e sul mondo che lo circonda. Dando vita a una specie di autobiografia in cui l’elemento dominante è l’equilibrio. Che a volte si trova, che più spesso si perde. Venite che vi racconto come è andata la lettura.

Trama

La vita che Emmanuel Carrère racconta, questa volta, è proprio la sua: trascorsa, in gran parte, a combattere contro quella che gli antichi chiamavano melanconia. C’è stato un momento in cui lo scrittore credeva di aver sconfitto i suoi demoni, di aver raggiunto «uno stato di meraviglia e serenità»; allora ha deciso di buttare giù un libretto «arguto e accattivante» sulle discipline che pratica da anni: lo yoga, la meditazione, il tai chi. Solo che quei demoni erano ancora in agguato, e quando meno se l’aspettava gli sono piombati addosso: e non sono bastati i farmaci, ci sono volute quattordici sedute di elettroshock per farlo uscire da quello che era stato diagnosticato come «disturbo bipolare di tipo II». Questo non è dunque il libretto «arguto e accattivante» sullo yoga che Carrère intendeva offrirci: è molto di più. Vi si parla, certo, di che cos’è lo yoga; ma anche di una relazione erotica intensissima e dei mesi terribili trascorsi al Sainte-Anne, l’ospedale psichiatrico di Parigi; del sorriso di Martha Argerich mentre suona la polacca Eroica di Chopin e di un soggiorno a Leros insieme ad alcuni ragazzi fuggiti dall’Afghanistan; di un’americana la cui sorella schizofrenica è scomparsa nel nulla e di come lui abbia smesso di battere a macchina con un solo dito – per finire, del suo lento ritorno alla vita, alla scrittura, all’amore. 

Un sapore insipido

Da entusiasta praticante di yoga e avendo vissuto un’esperienza molto simile in Asia, ospite per due giorni di un tempio buddista in Corea del Sud, mi aspettavo molto da questo mio primo approccio con Emmanuel Carrère. Devo dire che alla fine mi sento come se avessi gustato un piatto prelibato con le pupille, per poi ritrovarmi con un sapore insipido nelle papille. Il paragone è forse un po’ ardito, anche perché questo è uno scrittore di primo piano, in Europa e non solo. però è così che mi sento.

Ma andiamo con ordine 

Il racconto parte bene e cattura subito il mio interesse. Emmanuel Carrère decide di immergersi in un’esperienza meditativa importante, molto coinvolgente e anche difficile da sostenere. Lo seguiamo, quindi, mentre tenta di acclimatarsi e di sostenere le prove che via via il centro di meditazione offre ai partecipanti. Lui ci racconta degli altri intervenuti, delle motivazioni che probabilmente li sostengono, e anche della sua. Trovare un centro di equilibrio. Lui, che nella vita ha avuto tutto e, giustamente, si ritiene fortunato: famiglia in vista, ottime scuole, percorso netto, nessuna malattia, genitori anziani ancora vivi. Chi non proverebbe un pizzico di sana invidia? Eppure, tutto questo si scontra con la sua condizione: disturbo bipolare di tipo II. Vado a controllare cosa sia il tipo II e apprendo che è caratterizzato da uno o più episodi di depressione maggiore, accompagnati da almeno un episodio di disturbo dell’umore. Mentre lui cerca di trovare il suo equilibrio con la meditazione, la vita irrompe all’improvviso. 

Charlie Hebdo

La vita, l’attentato che ha scosso la Francia, interrompe la sua partecipazione al seminario. Emmanuel Carrère deve tornare alla civiltà, anche perché la sua è una famiglia di un certo tipo e anche per motivi di sicurezza deve rientrare. Rientra, e da lì in poi secondo me la narrazione perde spessore. L’autore ci fa entrare in un labirinto di fatti apparentemente non connessi, o forse sì: la morte del suo editore storico, che ha poi causato la sua uscita come autore dalla casa editrice, il suo sprofondare nell’abisso della malattia mentale, raccontato con dovizia di particolari (ma cosa l’ha scatenato? Forse lo intuisco, ma lui non lo dice) e, alla fine, l’ultimo viaggio, a Leros, insieme ad alcuni profughi dell’Afghanistan. Quasi a simboleggiare un parziale riscatto e un ristabilimento dell’equilibrio. Che, come sa bene chi pratica yoga, si perde, si riacquista per un attimo, e poi si perde di nuovo. E il ciclo ricomincia. 

Pura fiction

Da qui, metaforicamente, il titolo del romanzo. Sì, del romanzo, perché tutta la costruzione per me è indubbiamente pura fiction. Anche se il marketing vuole presentarlo come autore che affronta la verità, di verità ne ho vista poca, se non nella prima parte, quando mi sono riconosciuta in alcuni passaggi dell’esperienza meditativa. Il resto, una somma di linee diverse, che non si incontrano. Non ho visto il cerchio, né una gaussiana, che pure sarebbe andata bene. Forse, e sottolineo forse, perché in realtà questo libro è frutto di scritti elaborati in momenti diversi e poi messi insieme per farli uscire sotto lo stesso cappello? O forse, e sottolineo di nuovo forse, perché la vita è davvero entrata nella narrazione, ma non come si aspettava l’autore?

L’ex seconda moglie

La sua seconda moglie , la giornalista Hélène Devynck, ha raccontato a Vanity Fair che lo scrittore non avrebbe rispettato l’accordo di divorzio che gli impone di ottenere la sua autorizzazione prima di parlare di lei. Nella versione che ho letto io, di lei parla pochissimo e per dire che è stato lui la causa dei problemi coniugali. Forse per non bloccare l’uscita del libro? Altro elemento che mi fa sospettare la non verità dell’operazione. Secondo la donna, Carrère avrebbe messo su carta un “ritratto compiaciuto della sua malattia mentale e del suo trattamento”, ma soprattutto ha dilatato la sua esperienza di volontariato a Lesbo, durata secondo lei appena pochi giorni. Hélène Devynck ci va giù pesante: Yoga è un successo commerciale salutato da critici entusiasti che prendono per oro colato la favoletta dell’uomo che si mette a nudo, onesto e sofferente, che risale zoppicando la china, e che vorrebbe diventare un essere umano migliore. I lettori sono liberi di credere, come di dubitare”.

Io dubito: e voi? 

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La Fame senza fine di Knut Hamsun

Su Knut Hamsun, premio Nobel 1920, si è detto di tutto e di più. Che fosse un simpatizzante nazista, e per questo fu rinchiuso in un ospedale psichiatrico, che aderisse al panteismo, che i suoi libri meritavano di essere bruciati in piazza, cosa che effettivamente accadde. Fame è il suo primo, grande successo. Ci sono voluti quasi due anni per finirlo: l’ho preso, lasciato, ripreso, lasciato di nuovo. A un certo punto, questa Fame si è placata e sono arrivata alla parola Fine. Ora vi racconto cosa penso di questo romanzo così controverso.

Trama

Un giovane scrittore passa un periodo di solitari deliri e tortuose riflessioni nella città di Christiania. Vari personaggi lo sfiorano e scompaiono, ma unica vera e costante compagna, inesorabile antagonista, è la fame. Visionario della fame, il giovane scrittore scopre il carattere fantomatico e oppressivo della vita urbana, si inoltra negli infiniti sottosuoli della mente, lascia infine che esploda la sua rabbia fisiologica contro una società che sembra affinare sempre più, col tempo, le sue torture.

Fame di vivere

Se penso che è stato scritto nel 1890, il primo aggettivo che mi viene in mente è “moderno”. Narrazione veloce, vita di città, una Oslo che all’epoca si chiamava Christiania. Un giovane scrittore che ha Fame, in tutti i sensi. Ha fame di vivere, ha fame di scrivere, ha fame di amare. Ha fame vera e propria, soprattutto. Il ritmo è ansiogeno, sembra per 3/4 il delirio di un pazzo. Uno squilibrato che cerca in tutti i modi di sopravvivere, escogitando le strategie più strampalate per riuscirci, raccontando storie, a sé e agli altri, abbordando donne per strada, facendosi rinchiudere in prigione. Dice di se stesso di essere un giornalista con ambizioni di scrittore, ma tutte le grandi idee che gli vengono, finiscono inevitabilmente in un nulla di fatto, perché gliene viene una ancora più grandiosa.

Eppure

Eppure, ogni tanto qualcuno che gli dà credito lo trova. E allora, riesce a sopravvivere per un altro po’, ma a un certo punto anche io ho perso le speranze di vederlo risorgere. A questo punto, quando la sconfitta sembra ormai certa e di questo accanimento uno non ne può più, improvvisamente il ritmo accelera, invece di decelerare. Questa città,  Christiania, non è ospitale. O, forse, è il protagonista a non essere tagliato per questa vita. Perché le risorse le avrebbe, ma le dissipa. Non sono i contatti umani che vuole, perché cinismo e ironia si mescolano a ogni nuovo incontro. Non sono i soldi che gli interessano, non è il tenore di vita che cerca, non è il grande romanzo che sogna. Cerca, cerca…ma cosa cerca? Forse un mondo diverso, forse un’utopia, forse qualcuno a cui volere bene. O forse no, forse assistiamo semplicemente al delirio di onnipotenza di un artista disperato e affamato. Che alla fine una via d’uscita la trova. O forse no…

In cerca di Utopia

Quello di Knut Hamsun è un romanzo a cui ho pensato e ripensato sia quando l’ho lasciato in sospeso, sia quando sono riuscita a finirlo. Alla fine, il protagonista avrà trovato la sua strada? Sarà riuscito a risalire dall’abisso di quell’osso di carne macilenta vomitato per strada? Chissà. L’autore ha avuto una lunga vita e ha superato tutte le contestazioni. Si è opposto all’imperialismo britannico e dell’Unione Sovietica, ma simpatizzava per Hitler. Considerando le note biografiche e come finisce il romanzo, purtroppo per fare spoiler non posso dire di più, sospetto che il giovane e poi non più giovane, abbia continuato a girovagare in preda alla Fame. In cerca di Utopia, probabilmente. Knut Hamsun e la seconda moglie comprarono una fattoria, con l’idea “di vivere del lavoro della fattoria, con la scrittura per sbarcare il lunario“. Alla fine, Knut Hamsun avrà trovato la sua pace? 

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