Ich bin Berliner/1: I ragazzi dello zoo di Berlino

Berlino. Amo irrazionalmente girare per le capitali degli Stati, non so perché. Sicuramente, almeno in parte perché mi sento tipa da città: datemi monumenti, edifici storici, cinema, teatri, parchi, street food, mostre, negozi trendy, e farete di me una donna felice.

Settembre poi, è decisamente il mese giusto per muoversi mentre tutti riprendono la vita quotidiana. Che gusto c’è a girare per una città semivuota, a meno che non sia la tua?

Stavolta ho scelto Berlino, il centro pulsante della storia europea dal ventesimo secolo in poi. Non so cosa aspettarmi di preciso, non prendo mai troppe informazioni sui luoghi che visito, preferisco immergermi a poco a poco nella loro atmosfera e approfondire quello che mi colpisce.

Welcome card

Atterro all’aeroporto di Tegel ed è subito sorpresa: sole, caldo e invitante. Un gentile signore mi accoglie allo sportello informazioni del trasporto pubblico, facilissimo da trovare: che giro vuole fare? Quanti giorni rimane? E via, mi suggerisce la card settimanale per viaggiare su tutti i mezzi nelle zone A-B (centro, periferia, aeroporto compreso). Volendo, si può fare anche la welcome card, che dà diritto anche a sconti nei musei. Sempre il premuroso signore mi indica la fermata dell’autobus, praticamente fuori dalla porta a vetri, e prendo al volo l’autobus che passa in quel momento.

In un attimo sono in centro: la rete del trasporto è fenomenale, altro che Londra e Parigi. Arrivi in un nanosecondo dove vuoi, quando vuoi. Senza fretta, se hai perso il mezzo ne passerà un altro un minuto dopo, o al massimo due. Stupefacente. Le aziende italiane dovrebbero organizzare un bel viaggio studio da quelle parti e copiare, anche male, andrebbe bene lo stesso.

Bahnhof Zoo

Mezza giornata è andata, poso le valigie  e vado in pellegrinaggio alla Bahnhof Zoo, la stazione ferroviaria del  Zoologischer Garten, il giardino zoologico. Cerco la mia Christiane F. e il suo gruppo di ragazzi dello zoo di Berlino, ma naturalmente mi trovo di fronte una realtà completamente diversa da quella che immaginavo. La stazione è futuristica, come quasi tutte quelle viste in città, la via in cui le ragazze come Christiane si prostituivano è una lunga marcia di shopping di alto profilo. Il Sound, lo spaccio, i tacchi a spillo, i pantaloni di pelle troppo stretti e i capelli lunghi e unti di questa fragile quindicenne smarrita, sono solo nei miei ricordi di lettrice adolescente. La stazione degli anni ’80 non esiste più, in parte sostituita dalla modernissima Hauptbanhof. Però il sentimento che ho vissuto leggendo quel meraviglioso libro è ancora intatto, Christiane F. c’è e io sono felice di sapere che ce l’ha fatta ed è sopravvissuta al suo inferno personale.

Ich bin Berliner: i ragazzi dello zoo di Berlino
Ich bin Berliner: i ragazzi dello zoo di Berlino

Ku’damm

Non mi resta che avviarmi verso il Kurfürstendamm, o Ku’damm, un viale lungo 3,5 km che collega quattro quartieri della città ed è oggi la strada delle firme della moda, degli alberghi di lusso e di nuovi complessi architettonici. Lo confesso, non mi ha fatto impazzire, anche se mi ha fornito un primo assaggio dei contrasti tra cui si dimena Berlino: la stazione di confine del giardino zoologico fa da contraltare alla strada dello shopping. Passeggiando per questo largo viale troverete Cartier, Armani, Bruno Cucinelli, l’Hard Rock Cafè e diverse altre firme della moda. Una sosta è d’obbligo al negozio di Käthe Wohlfahrt, dove si respira aria di Natale. Fotografare all’interno è proibito, sono molto severi, ma già la vetrina dà un’idea della quantità inaudita di ninnoli natalizi contenuti all’interno.

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La prima puntata finisce qui: spero che stiate entrando anche voi pian piano nell’atmosfera berlinese e vi aspetto domani con la seconda puntata: Charlottenburg schloss, il museo del cinema e Potsdamer platz.

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Lo strano caso dell’apprendista libraia – Deborah Meyler

Deborah Meyler, Lo strano caso dell’apprendista libraia. Il titolo è fuorviante. E’ inutile sperare, andando avanti con le pagine, di capire quale sia lo strano caso. Non c’è nessuno strano caso. In lingua originale, infatti, s’intitola semplicemente “La libraia”. Per il resto, un po’ di incongruenze e un elemento di interesse. Vediamo quale…

Trama 

Esme è incinta e non sa cosa fare: il fidanzato Mitchell l’ha lasciata prima che potesse parlargli del bambino. Per questo il cartello “Cercasi libraia” le sembra un segno del destino. Ma Esme non ha nessuna idea di come funzioni una libreria. Per fortuna ad aiutarla ci sono i suoi curiosi colleghi: George, che crede ancora che le parole possano cambiare il mondo; Mary, che ha un consiglio per tutti; David e il suo sogno di fare l’attore. Poi c’è Luke, timido e taciturno, che comunica con lei con le note della sua chitarra. Sono loro a insegnarle la difficile arte di indovinare i desideri dei lettori. E proprio quando Esme riesce di nuovo a guardare al futuro con fiducia, la vita la sorprende ancora: Mitchell viene a sapere del bambino e vuole tornare con lei. 

Mah 
Dunque, c’è un’apprendista libraia, che magicamente viene assunta negli Usa senza uno straccio di permesso per lavoro. Mah. Roba da far arrestare lei, il proprietario e tutti quelli che sanno, ma non hanno denunciato.
La ragazza è negli Usa grazie a una borsa di studio, ripete spesso di aver bisogno di soldi ma è in affitto da sola in un appartamento sulla Broadway e quando rimane incinta rimane negli Stati Uniti invece di tornare in Inghilterra. Mah, i misteri dell’assicurazione fantasma.

La descrizione onesta di una ragazza incinta 
Ho avuto spesso la tentazione di abbandonare questo libro di Deborah Meyler, però alla fine sono contenta di essere arrivata fino in fondo, perché qualche elemento d’interesse l’ho rintracciato proprio nell’andamento della gravidanza. Nessuna descrizione edulcorata dell’attesa, ma la descrizione onesta di una ragazza che rivoluziona la sua vita per amore, seppur inconsapevolmente. La scrittrice è madre di tre figlie, è evidente che conosce bene le difficoltà e le lotte psicologiche di una donna che da un giorno all’altro si trova a dover cambiare prospettiva di vita non esattamente per scelta (consapevole).

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La casa sopra i portici – Carlo Verdone

Grande protagonista del libro è la casa paterna di Carlo Verdone. La casa sopra i portici del titolo. Un luogo attraverso il quale si snodano tanti eventi: le catastrofiche feste dannunziane, gli incontri con Federico Fellini e Alberto Sordi, le incursioni destabilizzanti di geni dell’avanguardia come Gregory Markopoulos. E poi il rapporto con i genitori e i fratelli, gli scherzi (tanti, fulminanti), le prime esperienze sentimentali ma anche i drammi familiari che si susseguono.

La casa è quel posto in cui tutti torniamo

verdoneLa casa è quel posto in cui tutti torniamo, che ci fa sentire veramente noi stessi, che ci accoglie e ci protegge sempre. E’ con questo spirito che ho letto il libro di Verdone, un uomo (famoso) attaccato alla sua città, Roma, e alla sua famiglia. Quando, per le vicende della vita, una casa si spoglia delle persone che l’hanno abitata e degli oggetti che l’hanno arredata, è difficile immaginare sentimenti diversi dalla tristezza e dalla nostalgia. Alla morte dei genitori del regista, infatti, la casa è stata svuotata e restituita al Vaticano, che ne era il proprietario.

Persone e fatti che sopravvivono 

Eppure, Carlo Verdone affronta questo doloroso momento con l’ironia che da sempre lo contraddistingue. Ci racconta con arguzia e spirito d’osservazione le vicende della sua famiglia. Della famiglia che quella casa l’ha vissuta e amata profondamente. Di una famiglia e di persone che sopravvivono alla vita terrena e che rimangono nei nostri cuori e nei nostri ricordi. Trovo che sia un bel modo per ricordare i cari che non ci sono più e lasciare traccia di quello che è stato, nel bene e nel male.
Per questo ho deciso di sorvolare su alcune ingenuità stilistiche e su alcuni aneddoti probabilmente inventati, il libro è godibile e a tratti divertente.
Un po’ come i suoi film: risate condite di malinconia e riflessione.

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L’Accabadora di Michela Murgia

Accabadora è il primo romanzo di Michela Murgia che leggo e, certamente, il suo titolo più famoso. E a ragione, direi. Una figura, quella dell’accabadora (colei che finisce), la cui esistenza non è mai stata provata, ma che probabilmente esiste in ogni luogo del mondo. Forse non è una donna, forse non veste di nero. Ma c’è un’unica cosa sicura nella vita dell’uomo. E quando la Signora viene a bussare, l’essere umano è costretto a fronteggiarla.

Trama

accabadoraSardegna anni ’50. Maria ha sei anni ed è appena diventata «figlia d’anima» dell’anziana Bonaria Urrai, secondo l’uso campidanese che consente alle famiglie numerose di compensare la mancanza di figli altrui attraverso un’adozione sulla parola. La bambina è inizialmente convinta che Bonaria Urrai faccia la sarta, e infatti le giornate sono segnate dallo scorrere nella bottega casalinga di un’umanità paesana, fatta di piccole miserie e relazioni basate su sguardi  gesti. Accettata come normale dal paese, l’adozione solidale tra la vecchia e la bambina si consolida negli anni. Un giorno, però, Maria viene messa di fronte a una realtà che non può più fingere di ignorare: Bonaria non è solo una sarta. Bonaria è un’accabadora, una donna che toglie la vita.

Figlia dell’anima

Sono due i temi importanti affrontati in questo romanzo di Michela Murgia. Uno, è la maternità e la condizione di figlia e figlio. E’ necessario aver generato per essere madri e padri? E’ necessario vivere nella famiglia di origine per essere felici? La risposta di Michela Murgia a entrambe le domande è no e la società campidanese, nella sua semplicità, lo sa bene e lo affronta con spirito pragmatico. Così, nascono, crescono e prosperano i figli d’anima, nome che trovo meraviglioso, e voi? Se tutti i dibattiti etici venissero affrontati senza pregiudizi e retorica, saremmo tutti più felici, ne sono convinta.

Mai dire mai

E poi c’è l’argomento principale. Quello di Michela Murgia è un piccolo libro che affronta un tema grande, più grande di noi finché non abbiamo la sventura di viverlo sulla nostra pelle. Quando viene affrontata nei dibattiti pubblici, l’eutanasia divide in due gli intervenuti, con le motivazioni filosofiche, religiose, morali ed etiche che ne conseguono. Credo che l’accabadora si limiterebbe a seguirle con viso immobile e sguardo vitreo, mormorando un’unica frase: “Non dire mai: di quest’acqua io non ne bevo. Potresti trovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata”.

Il che vale come monito per quasi tutti i fatti della vita, non credete?

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Olimpiche, storie immortali in cinque cerchi – Luca Pelosi

Luca Pelosi e le storie olimpiche. Le olimpiadi di Rio de Janeiro sono appena finite e abbiamo ancora tutti nel cuore e negli occhi quelle immagini e quelle emozioni che solo le olimpiadi sanno regalarci. Per allungare un altro po’ questa sensazione, mi sono regalata questo libro di racconti legati alle olimpiadi. Che di emozioni ne regala parecchi.

Trama

Le Olimpiadi hanno tanti volti, personaggi e storie che le rendono speciali. Uniche, perché le Olimpiadi hanno qualcosa di diverso. Sono il posto dove puoi trovare storie che emozionano, appassionano, insegnano. Storie dove la rivalità diventa amicizia, la debolezza diventa forza, la morte diventa vita. 

I cinque cerchi

Nell’anno delle olimpiadi di Rio, Luca Pelosi ci regala una serie di racconti “olimpici” che vanno oltre quello che accade in campo, divisi giustamente in cinque cerchi. Solo che i cerchi, invece di rappresentare i continenti, qui simboleggiano i valori più alti dell’uomo: amicizia, amore, coraggio, giustizia, saggezza.

Da leggere

Dico solo una cosa: da leggere. Alcuni faranno piangere, altri sorridere, altri ancora riflettere intensamente sul significato profondo della parola sport. Quello vero, di chi soffre, combatte, lotta e si rialza. Il doping, gli affari, i soldi, il marketing. Lasciateli fuori, o voi che entrate in questo mondo parallelo. E meraviglioso.

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Una corsa per amore, il mio secondo romanzo

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