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Le quattro casalinghe di Tokyo – Natsuo Kirino

Quattro operaie, logorate dalla vita casalinga e coniugale, s’incontrano tutte le sere in fabbrica per lavorare in squadra durante il turno di notte. Sono diverse per età, condizione sociale, avvenenza. Tutte, però, hanno in comune una situazione familiare disastrosa. Una sera la più giovane, la bella Yayoi, giudicata da tutti madre e moglie esemplare, in un impeto di rabbia strozza con una cintura il marito, tornato a casa ubriaco dopo aver dilapidato tutti i risparmi al gioco. Yayoi chiede aiuto a Masako, la più intelligente e coraggiosa delle quattro, che a sua volta coinvolge la “maestra” Yoshie, la quale combatte con la mancanza di soldi, una casa fatiscente e una suocera invalida. Per caso, mentre si sbarazzano del corpo dell’uomo, arriva l’inaffidabile e superficiale Kuniko. E saranno guai per tutte loro.

Il romanzo nella prima parte è davvero avvincente. Sono entrata subito nell’atmosfera noir accentuata dalla notte, che avvolge tutto e rende il male non così brutto, in fondo. Perché ancora più brutta è la vita senza sogni e senza domani che queste quattro donne si trovano a (soprav)vivere. Una vita dominata dagli occhi rossi della mancanza di sonno, in cui l’omicidio di un marito fedifrago appare quasi come un risarcimento, la speranza di un futuro più leggero. Poi, piano piano, queste donne mostrano tutte le loro fragilità, i loro difetti. Ecco che da vittime si trasformano in carnefici, da schiave della grande distribuzione si tramutano in usuraie e ricattatrici. Sullo sfondo, uomini nostalgici, troppo giovani per capire, oppure troppo marci dentro per redimersi. Il bene e il male si confondono, si sostituiscono l’un l’altro, come i piatti pronti che le quattro preparano hanno finito per sostituire cibi preparati con amore.

Una bella sorpresa questa scrittrice, uno stile originale e scorrevole. Peccato solo che il romanzo via via perda intensità, fino ad arrivare a un finale che mi ha lasciato insoddisfatta, per quanto sembra tirato via. Comunque un libro che merita. Basta non farsi trarre in inganno dalla traduzione fuorviante del titolo. Le quattro sono tutto tranne che casalinghe. Sono invece Out, proprio come nel titolo originale.

Noi, i ragazzi dello Zoo di Berlino – Christiane F.

Il libro autobiografico intitolato Wir Kinder vom Bahnhof Zoo (titolo italiano Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino) descrive la discesa all’inferno di Christiane F., dal trasloco a sei anni dalla campagna di Amburgo al quartiere-dormitorio berlinese di Gropiusstadt, l’infanzia difficile, la tossicodipendenza e la prostituzione iniziate fin dalla preadolescenza. Questo drammatico saggio-denuncia destò molto scalpore in tutto il mondo e fu tradotto in diverse lingue, diventando un controverso simbolo per la generazione che più di tutte subì le conseguenze dell’abuso di stupefacenti. Al libro è seguito nel 1981 il film.

Ritratto impietoso

Ne esce un ritratto della società berlinese degli anni ’70 impietoso. Famiglie assenti, o talmente deboli da risultare impotenti, scuola indifferente, polizia tollerante ma esclusivamente punitiva nei confronti di ragazzini forse ancora recuperabili, centri giovanili religiosi inconsapevolmente (?) ricettacolo di pusher, medici e psicologi che curano i sintomi, ma non le cause. In mezzo, Christiane in cerca di un’identità che erroneamente trova nell’uniformarsi a un gruppo, per sembrare “paracula”, “tosta”, “giusta”. Senza chiedersi perché, senza domandarsi per chi, senza trovare la forza di chiedere aiuto. O, piuttosto, cercandolo nella madre, che non capisce, non vuole vedere, non riconosce nel suo angelo quel demonio che la spinge sempre più in basso, fino a una morte certa. Quella morte che coglie senza sorpresa Axel, Stella, Babsi, e tanti ragazzi senza volto come loro, che una mattina diventano un trafiletto del giornale. Quella morte in solitudine che li aspetta alla fermata della stazione del giardino zoologico, la Banhof zoo.

Soli

Soli, come i tossicodipendenti non possono che essere, perché i loro rapporti sociali si basano esclusivamente sull’egoismo e la necessità di rimediare la dose quotidiana. Stop. Non c’è spazio per altro. Forse è proprio questo l’aspetto più sconvolgente del saggio di Christiane F., i giorni che si susseguono uguali, uno dopo l’altro, in un meccanismo che sembra poter essere interrotto solo dal viaggio finale, nella sua attesa. Quando, per salvarla, la madre la mette su un aereo, lei prova orrore nei confronti dei parenti che si divertono al centro commerciale, tutti uguali, tutti senza valori veri. Christiane rifiuta l’omologazione, eppure vuole omologarsi a centinaia di altri tossici senza nome. E’ in questo eterno conflitto con se stessa che vedo il nodo del libro. Christiane non si accetta, non ha abbastanza personalità per farlo, e trasforma la sua debolezza in un’arma. “Guardatemi, sono un’adolescente perduta. Sono il risultato vivente dei vostri errori”.

Da leggere

Terribile, sconvolgente, eppure da leggere, assolutamente. L’avevo già affrontato da adolescente e mi aveva scosso profondamente. L’ho riletto oggi, da adulta, e finalmente vedo Christiane F., e gli altri personaggi, per quello che realmente sono, niente di più. Non è un caso, forse, che oggi l’unico a essersi veramente tirato fuori dai guai è il dolce Detlef. Christiane Vera Felscherinow, invece, è rimasta fedele a se stessa, dalla Banhof zoo, in fondo, non è mai veramente uscita. Ma di questo parlerò nella recensione al libro che ha pubblicato due anni fa, “La mia seconda vita”.

Noi ci immaginiamo di comprarci la cava di calce quando non verrà più sfruttata. E lì sotto ci vogliamo costruire delle case di legno con un enorme giardino pieno di animali e con tutto quello di cui uno ha bisogno per vivere. L’unica strada che c’è per arrivare alla cava la vogliamo chiudere. Non avremmo comunque più alcuna voglia di ritornare su.”

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Segnalo questo interessante documentario di quasi un’ora sulla storia di Christiane F., con interviste, spezzoni dell’epoca e molti temi su cui riflettere.

Ich bin Berliner: il mio viaggio a Berlino

Lo strano caso dell’apprendista libraia – Deborah Meyler

Deborah Meyler, Lo strano caso dell’apprendista libraia. Il titolo è fuorviante. E’ inutile sperare, andando avanti con le pagine, di capire quale sia lo strano caso. Non c’è nessuno strano caso. In lingua originale, infatti, s’intitola semplicemente “La libraia”. Per il resto, un po’ di incongruenze e un elemento di interesse. Vediamo quale…

Trama 

Esme è incinta e non sa cosa fare: il fidanzato Mitchell l’ha lasciata prima che potesse parlargli del bambino. Per questo il cartello “Cercasi libraia” le sembra un segno del destino. Ma Esme non ha nessuna idea di come funzioni una libreria. Per fortuna ad aiutarla ci sono i suoi curiosi colleghi: George, che crede ancora che le parole possano cambiare il mondo; Mary, che ha un consiglio per tutti; David e il suo sogno di fare l’attore. Poi c’è Luke, timido e taciturno, che comunica con lei con le note della sua chitarra. Sono loro a insegnarle la difficile arte di indovinare i desideri dei lettori. E proprio quando Esme riesce di nuovo a guardare al futuro con fiducia, la vita la sorprende ancora: Mitchell viene a sapere del bambino e vuole tornare con lei. 

Mah 
Dunque, c’è un’apprendista libraia, che magicamente viene assunta negli Usa senza uno straccio di permesso per lavoro. Mah. Roba da far arrestare lei, il proprietario e tutti quelli che sanno, ma non hanno denunciato.
La ragazza è negli Usa grazie a una borsa di studio, ripete spesso di aver bisogno di soldi ma è in affitto da sola in un appartamento sulla Broadway e quando rimane incinta rimane negli Stati Uniti invece di tornare in Inghilterra. Mah, i misteri dell’assicurazione fantasma.

La descrizione onesta di una ragazza incinta 
Ho avuto spesso la tentazione di abbandonare questo libro di Deborah Meyler, però alla fine sono contenta di essere arrivata fino in fondo, perché qualche elemento d’interesse l’ho rintracciato proprio nell’andamento della gravidanza. Nessuna descrizione edulcorata dell’attesa, ma la descrizione onesta di una ragazza che rivoluziona la sua vita per amore, seppur inconsapevolmente. La scrittrice è madre di tre figlie, è evidente che conosce bene le difficoltà e le lotte psicologiche di una donna che da un giorno all’altro si trova a dover cambiare prospettiva di vita non esattamente per scelta (consapevole).

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Brava a letto – Jennifer Weiner

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La casa sopra i portici – Carlo Verdone

Grande protagonista del libro è la casa paterna di Carlo Verdone. La casa sopra i portici del titolo. Un luogo attraverso il quale si snodano tanti eventi: le catastrofiche feste dannunziane, gli incontri con Federico Fellini e Alberto Sordi, le incursioni destabilizzanti di geni dell’avanguardia come Gregory Markopoulos. E poi il rapporto con i genitori e i fratelli, gli scherzi (tanti, fulminanti), le prime esperienze sentimentali ma anche i drammi familiari che si susseguono.

La casa è quel posto in cui tutti torniamo

verdoneLa casa è quel posto in cui tutti torniamo, che ci fa sentire veramente noi stessi, che ci accoglie e ci protegge sempre. E’ con questo spirito che ho letto il libro di Verdone, un uomo (famoso) attaccato alla sua città, Roma, e alla sua famiglia. Quando, per le vicende della vita, una casa si spoglia delle persone che l’hanno abitata e degli oggetti che l’hanno arredata, è difficile immaginare sentimenti diversi dalla tristezza e dalla nostalgia. Alla morte dei genitori del regista, infatti, la casa è stata svuotata e restituita al Vaticano, che ne era il proprietario.

Persone e fatti che sopravvivono 

Eppure, Carlo Verdone affronta questo doloroso momento con l’ironia che da sempre lo contraddistingue. Ci racconta con arguzia e spirito d’osservazione le vicende della sua famiglia. Della famiglia che quella casa l’ha vissuta e amata profondamente. Di una famiglia e di persone che sopravvivono alla vita terrena e che rimangono nei nostri cuori e nei nostri ricordi. Trovo che sia un bel modo per ricordare i cari che non ci sono più e lasciare traccia di quello che è stato, nel bene e nel male.
Per questo ho deciso di sorvolare su alcune ingenuità stilistiche e su alcuni aneddoti probabilmente inventati, il libro è godibile e a tratti divertente.
Un po’ come i suoi film: risate condite di malinconia e riflessione.

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La scrittrice abita qui, di Sandra Petrignani

L’Accabadora di Michela Murgia

Accabadora è il primo romanzo di Michela Murgia che leggo e, certamente, il suo titolo più famoso. E a ragione, direi. Una figura, quella dell’accabadora (colei che finisce), la cui esistenza non è mai stata provata, ma che probabilmente esiste in ogni luogo del mondo. Forse non è una donna, forse non veste di nero. Ma c’è un’unica cosa sicura nella vita dell’uomo. E quando la Signora viene a bussare, l’essere umano è costretto a fronteggiarla.

Trama

accabadoraSardegna anni ’50. Maria ha sei anni ed è appena diventata «figlia d’anima» dell’anziana Bonaria Urrai, secondo l’uso campidanese che consente alle famiglie numerose di compensare la mancanza di figli altrui attraverso un’adozione sulla parola. La bambina è inizialmente convinta che Bonaria Urrai faccia la sarta, e infatti le giornate sono segnate dallo scorrere nella bottega casalinga di un’umanità paesana, fatta di piccole miserie e relazioni basate su sguardi  gesti. Accettata come normale dal paese, l’adozione solidale tra la vecchia e la bambina si consolida negli anni. Un giorno, però, Maria viene messa di fronte a una realtà che non può più fingere di ignorare: Bonaria non è solo una sarta. Bonaria è un’accabadora, una donna che toglie la vita.

Figlia dell’anima

Sono due i temi importanti affrontati in questo romanzo di Michela Murgia. Uno, è la maternità e la condizione di figlia e figlio. E’ necessario aver generato per essere madri e padri? E’ necessario vivere nella famiglia di origine per essere felici? La risposta di Michela Murgia a entrambe le domande è no e la società campidanese, nella sua semplicità, lo sa bene e lo affronta con spirito pragmatico. Così, nascono, crescono e prosperano i figli d’anima, nome che trovo meraviglioso, e voi? Se tutti i dibattiti etici venissero affrontati senza pregiudizi e retorica, saremmo tutti più felici, ne sono convinta.

Mai dire mai

E poi c’è l’argomento principale. Quello di Michela Murgia è un piccolo libro che affronta un tema grande, più grande di noi finché non abbiamo la sventura di viverlo sulla nostra pelle. Quando viene affrontata nei dibattiti pubblici, l’eutanasia divide in due gli intervenuti, con le motivazioni filosofiche, religiose, morali ed etiche che ne conseguono. Credo che l’accabadora si limiterebbe a seguirle con viso immobile e sguardo vitreo, mormorando un’unica frase: “Non dire mai: di quest’acqua io non ne bevo. Potresti trovarti nella tinozza senza manco sapere come ci sei entrata”.

Il che vale come monito per quasi tutti i fatti della vita, non credete?

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