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Clan Delon, tra cane e lupo non mettere il dito

Il clan Delon messo a nudo da Anthony, che con l’autobiografia Dolce e crudele, questo il titolo italiano, decide di raccontarci la sua famiglia partendo dalle ombre che l’hanno sempre caratterizzata. Operazione riuscita? Venite che vi racconto.

Trama

Figlio di un mostro sacro del cinema e di un’attrice amante della libertà, Anthony Delon squarcia il velo sulla sua famiglia e sulla sua vita, offrendo un ritratto della sua infanzia, degli anni della giovinezza, della malattia della madre, alla quale è rimasto vicino fino all’ultimo giorno. Al centro del racconto il rapporto tormentato con il padre, la violenza psicologica, la difficoltà di vivere nella sua ombra, il senso di abbandono, ma anche l’amore della tata e del padrino Georges Beaume, che l’ha salvato. In questo libro pone a se stesso e ai lettori una domanda universale. Come superare le paure, le ferite, le delusioni? Come non riprodurre il modello imposto dalla famiglia, dove l’amore è stato la prima vittima di una maledizione che si tramanda di generazione in generazione? 

Tra il giorno e la notte

Il titolo originale di questa autobiografia è Tra cane e lupo, un’espressione francese che significa “all’imbrunire, al calar della notte”. Quell’ora del giorno, cioè, in cui la luce è incerta, l’ora in cui il cielo a volte è blu scuro, momento in cui è difficile distinguere oggetti o esseri. Come distinguere un cane da un lupo? Il cane simboleggia il giorno e la luce, protettiva, mentre il lupo rappresenta la notte dove sorgono paure, ansie e incubi. Prima di queste paure, tra cane e lupo appunto, vengono il dubbio e la preoccupazione del crepuscolo. Come quasi sempre, il titolo originale è più calzante e allude all’ambiguità di fondo che domina i rapporti in questa famiglia, come se fossero sempre in bilico tra la distruzione totale e la rinascita improvvisamente. Anthony Delon si riferisce alla sua famiglia chiamandola “Clan Delon” e le dinamiche sembrano proprio quelle di un clan. Un clan in cui le regole vengono scritte e stracciate continuamente dal capoclan. 

Alla ricerca di un’identità 

Anthony descrive se stesso come un bambino solo e indifeso, lasciato da entrambi i genitori, giovani quando è nato, alla cura di altri, le vere rocce salde della sua vita. Il racconto, quindi, si dipana tra un’infanzia e un’adolescenza essenziamente infelici, sempre a cercare di schivare i colpi di un padre pronto a diventare lupo nei momenti più impensati e una madre che vive la sua vita lontano dal figlio, e una vita adulta in cui il figlio di è alla costante ricerca di una sua identità. Identità che, dice, ha trovato grazie alle sue figlie e al suo voler essere un padre presente, laddove le sue figlie sono alle prese (come lui) con una madre lontana. Una madre che comunque lui adora, mentre fatica ad accettare il padre che gli è capitato in sorte. 

Non squarcia il velo

C’è un grande mah in questa autobiografia, che avrebbe invece potuto “squarciare un velo” (come recita la sinossi). Anthony Delon decide di lasciare le ombre al loro posto, forse per non svegliare il can e il lupo che dorme. O forse per non tradire quel clan di cui lui fa parte a pieno titolo, soffrendo delle stesse pulsioni violente e autodistruttive. Perché, andando a leggere tra le righe, gli affari poco chiari non sono solo quelli del genitore. E anche Anthony, come padre, ha recuperato solo in vecchiaia il rapporto con la prima figlia Alyson Le Borges, illegittima, che oggi fa l’attrice. Rapporto di cui nel libro non fa cenno, riferendosi solo ed esclusivamente alle due figlie avute dal matrimonio. Perché? Mi piacerebbe chiederglielo. Eppure l’ha riconosciuta, mentre il presunto figlio illegittino di Alain Delon, Christian Aaron Boulogne, è deceduto senza essere mai stato riconosciuto. In definitiva, trovo che il lavoro sia interessante perché comunque descrive un rapporto genitori-figli che avvicina persone famose a tutti noi; al netto di ville, scuole e vacanze esclusive, in fondo, quello che tutti vogliamo e cerchiamo è solo amore.

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Saki Murayama, cerca il gatto bianco dei desideri

Saki Murayama è una scrittrice giapponese che ha raggiunto un buon successo di pubblico con una serie di romanzi ambientati nell’immaginaria città di Kazahaya. In italiano ne è uscito uno, con il titolo A volte basta un gatto. Sarà vero che un gatto bianco possa esaudire un desiderio? Venite che vi racconto.

Trama

Un vecchio grande magazzino nasconde un segreto: tra gli scaffali si aggira un gatto bianco, capace di esaudire i desideri. Se si incrocia il suo cammino quell’abbraccio, quel gesto, quell’incontro che si sono solo immaginati possono diventare realtà. Scovarlo è la speranza di molti. Isana, addetta al grande ascensore di cristallo, vorrebbe aiuto per una turista che cerca la madre, andata via quando lei era bambina; Sakiko, titolare del negozio di scarpe, vorrebbe riappacificarsi con l’amica del cuore, non si parlano più da anni. Il manager del reparto lusso, Kengo, sa che il gatto bianco può rivelargli chi è la donna che l’ha abbandonato dopo averlo partorito, mentre Ichika, che gestisce l’archivio del magazzino, non spera altro che di incontrare il suo lui. Tutti hanno un sogno, un desiderio, una speranza da affidare al misterioso felino che si cela tra quelle mura. Tutti hanno un passato doloroso o un futuro che appare incerto. Perché in fondo non esiste gioia senza un po’ di difficoltà. Ma forse, affinché la vita sia più luminosa, non è importante che ogni cosa si avveri così come la si è immaginata. Forse basta solo sognare ardentemente perché quella sensazione sopita riaffiori insieme a un nuovo sorriso, a una nuova certezza, a una nuova felicità.

Perché la magia accada, devi superare le prime pagine

Il claim che accompagna questo libro di Saki Murayama è semplice ed efficace. Bastano poche e semplici regole perché la magia accada:
1. Pensa alla cosa che desideri di più.
2. Entra nel grande magazzino.
3. Tieni gli occhi aperti e cerca il gatto bianco.
4. Se avrai la fortuna di incontrarlo, lui esaudirà il tuo desiderio.

Aggiungerei un punto 5. Perché la magia accada, devi superare le prime pagine. Purtroppo, la storia meno avvincente è stata piazzata per prima e questo, secondo me, ha portato i giudizi medi dei lettori italiani a non essere proprio positivi. Io, però, voglio darvi un consiglio: superate la prima parte della prima storia e poi decidete se andare avanti o meno.

La speranza di rinascere 

Dalla seconda storia in poi, saprete cosa vi attende. Un racconto sulla vita di un centro commerciale, pieno zeppo di aneddoti, fatti apparentemente insignificanti, riflessioni e pensieri di chi lì dentro ci lavora. Persone che danno l’anima per un posto che dà felicità alle persone, che offre un sogno, la possibilità di realizzare un desiderio. Un centro commerciale che ha rappresentato, per questa piccola cittadina, la speranza di rinascere dopo gli orrori e la povertà della guerra. E che, anche se ormai è superato e antiquato, nessuno vuole veder chiudere. Non avrebbe permesso che il luogo che era nei ricordi di tante persone diventasse una rovina. E nemmeno un lotto di terreno vuoto. Senza dubbio avrebbe protetto quella terrazza sul tetto affinché, anche in futuro, potesse diventare il posto dei ricordi di qualcuno.

Ricordi d’infanzia 

I ricordi, l’infanzia. E’ questo che rappresenta questo centro commerciale ed è quello che i protagonisti ci raccontano, pagina dopo pagina. Perché quando hai una memoria felice, quando hai dei ricordi, di sicuro il tempo che hai passato a sognare non è andato sprecato. Pur esaurendosi in un sogno non realizzato, anche se non si è riusciti a covare un uovo chiamato sogno fino a dargli la forma della realtà, se il tempo stesso in cui si è tenuto stretto quell’uovo è stato bello, allora senza dubbio va già bene così. Ci vuole pazienza e attenzione nello sfogliare questo album di ricordi creato da Saki Murayama. E tante considerazioni suoneranno strane o esagerate alle nostre orecchie occidentali. Oppure, come è successo a me, non troverete nessun ricordo legato a un centro commerciale nella vostra memoria, se non le scale mobili, nel mio caso. Ma questo non mi ha impedito di apprezzare questa lettura, anche se penso che la scrittrice abbia voluto inserire troppi elementi. Perché le caramelle quando c’era già il gatto? Però il fantasy funziona e, se entrerete nello spirito di questi teneri e bravi dipendenti, comincerete a immaginare questa cittadina, Kazahaya. Chissà che l’avventura non possa continuare con altre traduzioni. 

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Finché il caffè è caldo, romanzo o sceneggiatura?

Hwang Sŏk-yŏng e L’infinito mare dei vent’anni

Hwang Sŏk-yŏng spara a zero sulla scuola, autoritaria e repressiva, dove lo studente non può formare una sua personalità. Chissà che oggi qualche studente l’avrà pensato, mentre era impegnato nella prima prova degli esami di maturità. Eppure, anche i tempi di scuola diventano un dolce ricordo, quando l’alternativa è essere spediti al fronte e ritrovarsi in un bagno di sangue. Questa è la prima lettura veramente convincente del 2023. Venite che vi racconto.

Trama

Nella Corea del Sud degli anni Sessanta, Chun, in procinto di partire per il Vietnam a combattere una guerra che non lo riguarda, ripensa alla giovinezza a cui sta per dire addio. Attraverso una serie di flashback incrociati, dove la voce di Chun si alterna a quella dei suoi amici più stretti, ripercorriamo il suo abbandono della scuola, il viaggio iniziatico per il Paese in compagnia di Inho, le aspirazioni letterarie, le prime esperienze amorose, l’arresto in seguito a una protesta studentesca e l’incontro con il “Capitano” che gli farà da guida nel mondo del proletariato. Attingendo a piene mani dalla propria esperienza autobiografica, Hwang Sŏk-yŏng esprime il disagio e l’insofferenza di una generazione inquieta e smarrita. 

La dolcezza del ricordo

Fin dal titolo, è chiara l’atmosfera in cui Hwang Sŏk-yŏng immerge il lettore: la nostalgia, il ricordo, la tenerezza per quella stagione tormentata, eppure felice, che è la giovinezza. Il romanzo è fortemente autobiografico, questo si percepisce immediatamente. Direi che lo scrittore potrebbe essere Chun, o anche essere sparso in mezzo a questa sorta di setta dei poeti estinti coreana. In realtà, sono tutti diversi, scrivono, disegnano, tirano linee. Qualcuno vuole studiare, qualcuno dichiara guerra all’istituzione scolastica. Ma tutti vivono la letteratura, quella poca che riescono a racimolare tra libri proibiti ed edizioni economiche con traduzioni alla buona, come un mezzo per distinguersi dalla massa, per capire il mondo, per trovare altre anime tormentate con cui trovare delle affinità elettive. C’è un passaggio che ho trovato molto significativo, quando i ragazzi si confrontano con la dolce vita italiana e le sue canzoni. “Sono figlie dell’espresso e della siesta, che ne sanno loro della nostra disperazione?

La nostra disperazione

E come potrebbero non essere disperati? Stretti tra una guerra mondiale, manifestazioni violente in cui vedono morire un amico, il ribaltamento dei ruoli sociali, che ha lasciato alcune delle loro famiglie senza niente, l’assenza di prospettive se non ti conformi a un percorso già delineato da qualcun altro. Con grande lucidità, questo gruppetto si confronta, si rafforza, si aiuta a crescere, si sforza di trovare una propria voce. E alla fine qualcuno ce la farà, qualcuno no, come sempre succede.  “Io non so chi sono”. E’ Hwang Sŏk-yŏng/Chun il più follemente lucido, quello che trascina gli amici in montagna, per ritrovarsi. Ma che poi iniziano a fare su e giù, perché sì è vero, Seoul li opprime, ma li attira anche con la forza dell’appartenenza. Ed ecco che allora deve iniziare un viaggio, un viaggio vero.

Il viaggio

E’ la parte che mi è piaciuta di più. Non tanto e non solo per gli appunti che ho preso sui posti che voglio vedere quando tornerò in Corea, ma per la metafora della scoperta di se stessi che questo viaggio regalerà loro. Accompagnati dagli adulti. Chi più chi meno, gli adulti hanno contribuito alla loro formazione, pure quando vanno in giro con un bastone con inciso “amore materno”. Non c’è odio, non c’è rabbia nelle parole di Hwang Sŏk-yŏng. C’è la consapevolezza che ognuno di loro ha fatto parte del suo percorso di vita. Che gli insegnanti possono essere come Cicogna, o possono essere carogne, ma che anche le carogne possono comportarsi seriamente, per una volta. Nel viaggio, ci sono anche dei momenti umoristici, una masturbazione epica, tutti i trucchetti per non pagare i mezzi di trasporto, un contadino furbo. Genitori che li lasciano fare. La libertà, vera, sia per i ragazzi sia per le ragazze. Molto più liberi di come sono adesso i loro coetanei, anche se sembra il contrario. Il ritratto di un’epoca, una parvenza di serenità prima che si abbatta la tragedia sulle loro teste.

Il Vietnam

La guerra, i disordini e i colpi di Stato rimangono sullo sfondo. Loro cambiano, ma il gruppetto si riunisce quando conta. “Non far fuori troppi nemici”. E’ una frase meravigliosa, in questi tempi di guerre sante e giuste, questi ragazzi ci ricordano che chi va al fronte non sa perché e non vorrebbe andarci. La guerra è un treno che entra in una galleria buia. E poi arrivò l’inverno, e fu allora che venne deliberata la mia partenza per il Vietnam. Deliberata. Fin dall’incipit, sappiamo che Chun prende le distanze da decisioni che accetta senza capirle. E che non si aspetta di tornare.

L’amore

E poi l’amore, la scoperta dei propri desideri e di quelli dell’altro. L’incertezza, l’imbarazzo. Non crederci abbastanza, o crederci troppo. Ma qui non ci sono grandi amori, passioni esasperate. C’è grande concretezza, la necessità di sopravvivere, a qualunque costo. “Forse non ci credevamo abbastanza“. Non è sempre così che si perde l’amore? 내게 사춘기가 그런것 같았어.감기약 먹고 자다 깨다 그런 나날 Mi è sembrata, la pubertà, uno di quei giorni in cui ti svegli dopo aver preso medicine per il raffreddore.

Potrei parlarvi per ore di questo libro, si è capito? Ma mi fermo qui, posso solo consigliarvi di leggerlo. E che il Literature Translation Institute of Korea (LTI Korea) contribuisca alla traduzione di altri testi come questo.

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I miei giorni leggeri leggeri alla libreria Morisaki

La libreria Morisaki e il quartiere di Jinbōchō, a Tokyo, è quello che tutti vorremmo nelle nostre città. L’idea di Satoshi Yagisawa di ambientarci un romanzo non poteva che incontrare tanti lettori entusiasti di tuffarsi dentro quella realtà fatta di sogni e avventure meravigliose. Ho aspettato un po’, ma alla fine mi sono tuffata anch’io in questa prima lettura 2023 dei libri da ombrellone. Ora vi racconto com’è andata. 

Trama

Jinbōchō, Tokyo. Il quartiere delle librerie e delle case editrici, paradiso dei lettori. Un angolo tranquillo e fuori dal tempo, a pochi passi dalla metropolitana e dai grandi palazzi moderni. File e file di vetrine stipate all’inverosimile di libri, nuovi o di seconda mano. E’ qui che si trova la libreria Morisaki, il regno di Satoru, l’eccentrico zio di Tatako. Entusiasta e un po’ squinternato, dedica la sua vita ai libri e alla Morisaki, soprattutto da quando la moglie lo ha lasciato. L’opposto di Tatako, che non esce di casa da quando l’uomo di cui era innamorata le ha detto di voler sposare un’altra. È Satoru a lanciarle un’ancora di salvezza, offrendole di trasferirsi al primo piano della libreria. Proprio lei che non è certo una forte lettrice, si trova di colpo a vivere in mezzo a torri pericolanti di libri e minacciosi clienti che continuano a farle domande e a citarle scrittori ignoti. Superato l’impatto iniziale, Tanako scoprirà pian piano un modo di comunicare e di relazionarsi che parte dai libri per arrivare al cuore. 

L’ispirazione

Ricordo esattamente il momento in cui ho avuto l’ispirazione, all’epoca mi recavo spesso a Jinbōchō per lavoro e un giorno, mentre camminavo tra tutte quelle vecchie librerie, ho pensato: non sarebbe bella una storia ambientata proprio qui a Jinbōchō con protagonista una donna che vive in una piccola libreria dell’usato?”. E la storia è venuta da sé, spontaneamente”. Sarebbe bella sì, caro Satoshi Yagisawa. E infatti la tua intuizione è stata premiata con un clamoroso successo di vendite e la realizzazione di un film con lo stesso titolo, uscito nel 2010. La versione italiana arriva oltre dieci anni dopo, forse nel momento giusto.

Leggerezza

Leggerezza è la parola d’ordine di questa lettura, tanto che casualmente diventa il primo consiglio di quest’anno per i libri da ombrellone. Non perché manchino riflessioni: ci sono, ma sono rese in modo delicato e attutito. Questa è stata, forse, la critica maggiore che i lettori hanno rivolto a questo romanzo. Piano, forse troppo. Una sommessa critica che faccio io è alla traduzione. Come può una giapponese rispondere che non le piace cucinare e finisce sempre per mangiare “pasta”? A parte questo aspetto, in generale a me non è dispiaciuto, magari perché in quel momento era proprio ciò che mi serviva, aprire le pagine e rilassarmi. Già ho scritto più volte che librerie, libri e gatti sono inflazionati, quindi il filone non si può proprio dire originale. E in questo caso, la libreria rimane sullo sfondo, le vicende più importanti si svolgono fuori.

Via dal rifugio

Ed è proprio questo il senso di quest’opera di Satoshi Yagisawa. Ci sono luoghi che per noi sono un rifugio dal dolore, dal male di vivere. Ma nascondersi non può durare per sempre, a un certo punto bisogna uscire e viverla, la vita. Magari con accanto amici preziosi: gli zii, tra gli umani. E i libri, tra gli oggetti. Lettura che consiglio se volete passare qualche ora di relax senza grande impegno. Sotto l’ombrellone, appunto. 

Curiosità

La libreria Morisaki è inventata, ma simile alle tante che affollano questo quartiere di Tokyo. La caffetteria Sabouru, invece, esiste sul serio. E’ un locale tradizionale,che la protagonista Tatako inizia a frequentare quando si ambienta nel quartiere. E che ha un ruolo centrale nello svolgimento della storia. Guardate gli esterni: non vi viene voglia di prenotare il primo volo per Tokyo? Magari per andare a novembre, quando a Tokyo si tiene il Kanda Used Book Festival, la più grande fiera del mondo di libri usati, organizzata da oltre sessant’anni. La nostra Tatako partecipa a questa fiera. E…;) 

sabouru coffee

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Quando le montagne cantano, di Nguyễn Phan Quế Mai

Quando le montagne cantano, di Nguyễn Phan Quế Mai è uno dei romanzi più acclamati degli ultimi tempi. Mi sono, quindi, lanciata con fiducia, ma non è andata esattamente secondo le aspettative. Ora vi racconto.

Trama

Un paese in guerra. Una famiglia divisa. Dal loro rifugio sulle montagne, la piccola Huong e sua nonna Dieu Lan sentono il rombo dei bombardieri americani e scorgono il bagliore degli incendi che stanno devastando Hanoi. Fino a quel momento, per Huong la guerra è stata l’ombra che ha risucchiato i suoi genitori, e adesso quell’ombra sta avvolgendo anche lei e la nonna. Tornate in città, scoprono che la loro casa è completamente distrutta, eppure non si scoraggiano e decidono di ricostruirla, mattone dopo mattone. E, per infondere fiducia nella nipote, Dieu Lan inizia a raccontarle la storia della sua vita: degli anni nella tenuta di famiglia sotto l’occupazione francese e durante le invasioni giapponesi; di come tutto fosse cambiato con l’avvento dei comunisti; della sua fuga disperata verso Hanoi senza cibo né denaro e della scelta di abbandonare i suoi cinque figli lungo il cammino, nella speranza che, prima o poi, si sarebbero ritrovati. Quando la nuova casa è pronta, la guerra è ormai conclusa. La saga di una famiglia che si dipana lungo tutto il Novecento, in un Paese diviso e segnato da carestie, guerre e rivoluzioni. 

Interessante, sulla carta

Sulla carta, la trama era interessante. Tre generazioni di donne, un Paese, il Vietnam,  devastato e diviso dalla guerra, la lotta per la sopravvivenza e un’allodola che, nonostante tutto, quando canta sembra che cantino anche le montagne. Poetico, ispiratore. Peccato che nel romanzo non vi sia traccia di tutto questo. O meglio, c’è una sorta di reportage storico, didascalico, dove succede questo, e poi quest’altro, e poi oh! che fortuna, e poi oh! perché proprio a noi. E via così, in una sorta di telenovela che va avanti pagina dopo pagina senza cambiare tono o prospettiva. Scorrevole, questo sì. E’ un romanzo che si finisce in qualche giorno senza grande difficoltà. Ma cosa resta?

Il timore di affondare il coltello

Per quanto mi riguarda, resta la perplessità sul perché sia stato tanto acclamato. Per le disgrazie che si susseguono? Ma quelle già Vivere! ce le aveva raccontate con ben altro spessore. Per l’ambientazione “esotica”? Forse, questo è già più convincente. Per una bella copertina, dico io. Quella sì, l’ho apprezzata. Per il resto, la storia raccontata mi ha lasciato poco. E’ stata, come posso dire, la mancanza di tono adeguato a suscitare perplessità. La scrittrice appare lontana anni luce da quello che racconta, sembra quasi che abbia avuto timore di affondare il coltello nella carne. Ma questa è una vicenda umana dove il coltello è stato affondato e rigirato nella piaga più e più volte. Com’è possibile non sentirlo? Eppure, non l’ho sentito, non mi è arrivato quel dramma che ci sarebbe dovuto essere. Va bene la pacificazione, va bene porgere l’altra guancia, va bene l’amore, va tutto bene…ma fino a un certo punto. La guerra lascia morte, distruzione, povertà, famiglie decimate e separate. E questo orrore, se, come dice nelle interviste, era il suo obiettivo, va raccontato affondando le mani nella terra. “Oh, Guava, un tempo pensavo che il nostro destino fosse nelle nostre mani, ma ho imparato che, quando c’è una guerra, le persone sono solo foglie che cadono a migliaia, a milioni, a causa dell’imperversare della tempesta”.

Le nostre storie sopravvivono

Spero che non mi troviate troppo tranchant nel giudizio. Questo è il primo libro di Nguyễn Phan Quế Mai, che non vive in Vietnam. Penso e spero che i prossimi lavori saranno più emozionanti, anche sulla scia del successo che le è piovuto dal cielo. Resta in me, almeno per ora, solo un’infarinatura di una storia che conoscevo già in parte e che vorrei approfondire. Se avete suggerimenti, sappiate che sono ben accetti.  “Comprendi perché ho deciso di raccontarti della nostra famiglia? Se le nostre storie sopravvivono, noi non moriremo, neanche quando i nostri corpi non saranno più su questa Terra”.

Voi che mi dite? Quando le montagne cantano vi è piaciuto? 

p.s. secondo me nel finale c’è una svista, o un errore di traduzione, non so. Non ne posso parlare per non fare spoiler, ma sono passati troppi anni perché Guava possa parlare in quel modo. Quando lo leggerete, fateci caso. E ditemi che ne pensate.

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