Archivi categoria: Carta

Divorziare con stile secondo Malinconico

Sta per partire su Raiuno la serie dell’avvocato Malinconico di Diego De Silva e io ho finito in calcio d’angolo la quarta uscita. Dopo Non avevo capito niente e Mia suocera beve, per me finora i migliori, e Sono contrario alle emozioni, sempre per me bocciato, ho ripreso in mano la saga di questo avvocato perdente, in subaffitto, divorziato e lasciato, che tenta di restare a galla tra una figura di m. e un’altra. Come sarà andata stavolta la lettura di Divorziare con stile? Ora vi racconto. E vi dico anche che la serie raggruppa le tre uscite di cui sopra.

Trama

Questa volta Vincenzo e la sua voce sono alle prese con due ordini di eventi: il risarcimento del naso di un suo quasi-zio, che in un pomeriggio piovoso è andato a schiantarsi contro la porta a vetri di un tabaccaio; e la causa di separazione di Veronica Starace Tarallo, sensualissima moglie del celebre  avvocato Ugo Maria Starace Tarallo, accusata di tradimento virtuale commesso tramite messaggini, che Tarallo (cinico, ricco, spregiudicato e cafone) vorrebbe liquidare con due spiccioli. La Guerra dei Roses tra Veronica e Ugo coinvolgerà Vincenzo molto, molto più del previsto. E una cena con i vecchi compagni di scuola, quasi tutti divorziati, si trasformerà in uno psicodramma collettivo. Perché la vita è fatta anche di separazioni ricorrenti, ma lo stile con cui ci separiamo dalle cose e dalle persone, il modo in cui le lasciamo e riprendiamo a vivere, è – forse – la migliore occasione per capire chi siamo. E non è detto che sia una bella scoperta.

Il libro vero inizia alla fine

Continua la saga e continuano le divagazioni di Malinconico. D’accordo che ci ha avvisato di questo suo vizio fin dalla prima uscita, ma veramente questa modalità di narrazione sembra avergli preso la mano. Non so, sembra quasi che su Malinconico ci sia poco da aggiungere e, quindi, il romanzo debba essere necessariamente infarcito di elementi che rimandano al pensiero dell’autore, più che del personaggio. Eppure io trovo che sia un peccato, perché il libro vero inizia a cinquanta pagine dalla fine. O meglio, il libro che a me sarebbe piaciuto leggere, incentrato sul divorzio degli Starace Tarallo, magari intervallato dalla reunion dei compagni di scuola. Invece, il divorzio si risolve in un nanosecondo, con l’aggravante che a suggerire la difesa giusta è un amico di Malinconico. E la reunion, che in fondo è la parte più divertente del romanzo…pure.

Muccino style

Insomma, anche stavolta è un nì-barra-no. Se uno vuole vedere cinquantenni irrisolti e infantili, può tranquillamente godersi il maestro Muccino, non c’è certo bisogno di sfogliare su pagine di massime, ripicche e scherzi da asilo. E perché allora continui la saga, direte voi? Purtroppo per me, omai mi sono affezionata a Malinconico. Sì, proprio al personaggio, e la curiosità di vedere come va a finire è più forte delle perplessità. Detto questo, se guidi una Ferrari come una 500, come fai a non sottolinearlo?

Voi che mi dite? Siete anche voi aficionados delle avventure di Malinconico? Guarderete la serie tv?

Leggi anche: 

Non avevo capito niente, caro Diego De Silva

Contenuto non disponibile
Consenti i cookie cliccando su "Accetta" nel banner"

Terapia di coppia per amanti – Diego De Silva

Contenuto non disponibile
Consenti i cookie cliccando su "Accetta" nel banner"

Doireann Ní Ghríofa e Un fantasma in gola

Doireann Ní Ghríofa è una poetessa irlandese che ho potuto conoscere grazie a il Saggiatore e un libro lasciato nella mia cassetta delle lettere in cambio di una recensione onesta. Come sapete bene, non potete aspettarvi niente di diverso da me e, quindi, vi parlerò di questo testo arrivato in un momento della mia vita che mai, mai, avrei voluto vivere. E che purtroppo tutti prima o poi dobbiamo sperimentare. Chissà se esiste un destino anche nei libri. Non lo so, ma voglio per un momento adottare il punto di vista irlandese e pensare che la vita sia un viaggio. Comunque vada, vale la pena viverlo. Magari con l’aiuto di una donna del passato, che torna a trovarti proprio quando ne hai più bisogno. A meno che Art Ó Laoghaire non torni da me/questa pena non cesserà mai/si abbatte così ferocemente sul mio cuore/tenendolo rigidamente sigillato/come un lucchetto in un baule/la cui chiave dorata ho smarrito.

Trama

“Un fantasma in gola” esplora la femminilità e il desiderio. Doireann Ní Ghríofa racconta la maternità nella sua dimensione universale, e ne fa metafora della scrittura capace di ricucire le ferite più intime e creare echi tra universi lontani: un’opera sul suono che allontana e unisce l’ultimo sospiro di un uomo che muore e il primo vagito di una nuova vita. Dopo aver avuto tre figli in pochi anni, l’autrice ha adattato la propria vita su quella dei suoi bambini. Un’esistenza fatta di liste da spuntare giorno dopo giorno, e un corpo trasformatosi radicalmente per farne crescere altri. Una routine colma di abnegazione, come quella di tanti genitori. Questo fino a quando non si imbatte nella voce di una poetessa, anch’essa madre, protagonista di un antico lamento in versi sulla morte del proprio amato, e qualcosa in lei inizia misteriosamente a risuonare. Aveva già letto quel poema da adolescente, ma questa nuova lettura la penetra in modo inaspettato e si tramuta in un’ossessione, fino a farle confondere parole, sguardi, passi con quelli dell’altra donna. Una possessione letteraria, l’unico modo per liberarsi dalla quale si rivelerà abbracciarla e immergervisi: visitare i luoghi in cui l’altra ha vissuto e sofferto, indagare le proprie scelte di donna e madre, mettere in discussione i pilastri stessi su cui poggia il proprio mondo.

Il Caoineadh di Eibhlín e il mio

M’imbatto in questo libro di Doireann Ní Ghríofa in un momento delicatissimo della mia vita. L’autrice evidentemente sconvolta da una fase dedicata alle nascite e all’accudimento dei figli, io per l’esatto contrario. Si dice a volte che i libri vengano a cercarti. Forse, a cercare me è stato un caoineadh, un lamento. “La marcia dolente di una che si affatica, in inno di lode, un canto e un pianto funebre, un compianto e un’eco, un coro e un elogio“. Una donna del ‘700, Eibhlín Dubh Ní Chonaill, cui viene ucciso il marito mentre aspetta il terzo figlio. “La collera bruciava e si dissolveva e poi bruciava di nuovo; questa è una poesia alimentata dalle fiamme gemelle dell’odio e del desiderio. Quante perdite ha subìto questa donna. Quante perdite subirà ancora. Soffre, come la poesia stessa: questo testo soffre. Fa male. Doireann Ní Ghríofa è in cerca di qualcosa che possa aiutarla a superare la stanchezza fisica ed emotiva che parti ravvicinati e accudimento dei bimbi, nonché la necessità e la volontà di mantenere un rapporto col marito, le stanno creando. Ed ecco che in soccorso arriva questo testo che l’accompagna da quando è adolescente e l’ha scoperto a scuola: “la sua esistenza e il suo desiderio erano così distanti dai miei, eppure la sentivo così vicina. Nel giro di poco tempo la sua poesia ha iniziato a infiltrarsi nei miei giorni. La mia curiosità si è amplificata fino a portarmi fuori casa, e verso le uniche stanze che potevano aiutarmi“. 

Una ragione per esistere

Così, Doireann Ní Ghríofa ha iniziato quello che io chiamo un viaggio letterario. Ricordate il mio viaggio letterario Sulle tracce delle grandi scrittrici? Una cosa del genere, spinta però da una motivazione che io in quel caso non avevo: trovare una ragione per esistere e resistere. E l’ha trovata Doireann. Qual é?  Come direbbe Yu Hua, è…Vivere! E già, pèrché alla fine che senso ha vivere se poi finiremo tutti in un unico modo? Non c’è una ragione suprema, il viaggio stesso è la ragione. Questo è quello che trova la poetessa del presente, un cumulo di macerie che nascondono la poetessa del passato. E’ tutto inutile, quindi?

Intrecciando voci femminili

Certamente no. Anche solo il fatto che una donna del duemila vada in cerca di una donna vissuta trecento anni prima, dà la misura di quanto ogni esistenza conti. Anche quella di donne che non hanno fatto la storia, perché la storia la fanno e la scrivono gli uomini. Anzi, dovremmo dire, la facevano e la scrivevano gli uomini. Quindi, abbiamo speranza per il futuro che le vite rappresentate siano quelle di tutti, a prescindere dal ruolo sociale. Se questo è il merito di Doireann Ní Ghríofa, averci fatto conoscere una poetessa irlandese dalla vita semisconosciuta, andando avanti con la lettura si è anche trasformato nel suo limite. Non fa che ripeterci quanto sia imperfetta lei stessa, quanto la sua traduzione sia manchevole, quanto il suo metodo sia artigianale e improvvisato, quanto uno studioso troverebbe da ridire sul suo operato. Il che non è sbagliato, è percepibile dai documenti che mette insieme. Ma allora, dico io, perché non trasformare quest’opera solitaria in un Caoineadh nuovo?Il Caoineadh appartiene a un genere letterario lavorato e tessuto da donne, intrecciando voci femminili appartenenti a corpi femminili, un fenomeno a mio avviso meraviglioso e degno di ammirazione, non di discussioni sulla paternità del testo“. Perché, allora, non farsi accompagnare da voci di altre donne, altre studiose, altre letterate, che avrebbero potuto intrecciare le voci a quella della poetessa per tirare fuori un canto moderno? 

Una nuova fase della vita

Dentro di me, sono sicura che prima o poi lo farà, accetterà questa delega nei ruoli. Quando il desiderio di maternità sarà sopito, quando la sua vita non sarà più una lista continua da depennare, quando il suo mondo non inizierà e non finirà dentro una stanza, quando in famiglia tornerà l’equilibrio. Quando, insomma, riprenderà questo testo che l’accompagna da sempre per iniziare una nuova fase della sua vita. Allora, ci sarà un nuovo Caoineadh a più voci. E noi lettrici, qui, ad aspettarla.

Oh, mio cavaliere dallo sguardo deciso,
cosa è andato storto quella notte?
Mai avrei immaginato,
mentre sceglievo i tuoi vestiti, così eleganti e raffinati,
che tu potessi essere strappato a questa vita.

Leggi anche: 

La scheda del libro

Amami ancora – Tracy Culleton

Contenuto non disponibile
Consenti i cookie cliccando su "Accetta" nel banner"

 

Durian Sukegawa e Le ricette della signora Tokue contro i pregiudizi

Di Durian Sukegawa è uscito da poco l’ultimo romanzo, Il sogno di Riōsuke. Io, in proverbiale ritardo sulle letture, ho recuperato il suo successo inaspettato, Le ricette della signora Tokue. Mi aspettava su uno scaffale della biblioteca di quartiere, in cui sono tornata per la prima volta dopo le chiusure e gli ingressi contingentati dell’era Covid. Ho ritrovato un ambiente familiare, addetti desiderosi di parlare di libri con i (pochi) avventori e quella mania dei libri di attaccarsi alle mani come calamite. Detto fatto, ho portato a casa la signora Tokue e i suoi dorayaki e Yoga, di Emmanuel Carrère, di cui vi parlerò a seguire. Intanto, infiliamoci per un attimo nella tenerezza di questa piccola e anziana donna giapponese, vi va?

Trama 

Sentaro è un uomo di mezza età, ombroso e solitario. Pasticciere senza vocazione, è costretto a lavorare da Doraharu, una piccola bottega di dolciumi nei sobborghi di Tokyo, per ripagare un debito contratto anni prima con il proprietario. Da mattina a sera Sentaro confeziona dorayaki e li serve a una clientela composta principalmente da studentesse chiassose che si ritrovano lì dopo la scuola. Il pasticciere infelice lavora solo il minimo indispensabile: appena può abbassa la saracinesca e affoga i suoi dispiaceri nel sakè, contando i giorni che lo separano dal momento in cui salderà il suo debito e riacquisterà la libertà. Finché all’improvviso tutto cambia: sotto il ciliegio in fiore davanti a Doraharu compare un’anziana signora dai capelli bianchi e dalle mani nodose e deformi. La settantaseienne Tokue si offre come aiuto pasticciera a fronte di una paga ridicola. Inizialmente riluttante, Sentaro si convince ad assumerla dopo aver assaggiato la sua confettura an. Sublime. Nel giro di poco tempo, le vendite raddoppiano e Doraharu vive la stagione più gloriosa che Sentaro ricordi. Ma qual è la ricetta segreta della signora Tokue?

Amore

La ricetta della signora Tokue è semplice: amore. Forse non più così semplice, in un mondo che va sempre più di corsa verso il baratro e lascia indietro le categorie non gradite: i fragili, gli anziani, in generale le persone che non si uniformano a uno standard di vita preconfezionato. Queste anime diverse, però, a volte si incontrano e danno vita a questo sentimento di cui molti hanno paura: amore. Amore contro la violenza, la segregazione, la vita ai margini. Anime che esprimono gratitudine, nonostante tutto. E’ così che Durian Sukegawa descrive l’atmosfera che permea il romanzo, a partire dalla preparazione dell’an, il ripieno di fagioli rossi del dorayaki. 

E gratitudine 

L’an è fatto di piccoli fagioli rossi. Nella realtà un fagiolo sarebbe semplicemente un fagiolo. Ma nella bollitura sono implicite infinite possibilità di moltiplicazioni in termini di peso e forma. Quando noi abbiamo a che fare con dei fagioli da cuocere, dobbiamo porgere i nostri rispetti a tutto l’universo che è presente in un singolo fagiolo. Questa mentalità porta a una reale gratitudine per gli ingredienti che compongono una pietanza”. Così Durian Sukegawa parla della salsa che dà inizio alla storia. La signora Tokue la prepara prestando attenzione al singolo fagiolo. Un atteggiamento quasi incomprensibile per noi occidentali, ma che smuove qualcosa nell’ex galeotto Sentaro. Il quale fino a questo incontro con l’anziana signora aveva una sola religione, la bottiglia, e tanti debiti. Anche la signora Tokue ha avuto una vita difficile e tanti problemi di salute, ma questo non le ha impedito di cogliere il bello di un’esistenza trascorsa ai margini

Ricordi dolciamari

Una storia semplice, una fiaba con finale agrodolce, una ricetta da tramandare e un piatto che scatena ricordi dolciamariDurian Sukegawa, con le sue lauree in filosofia orientale e pasticceria giapponese (sì, esiste anche questa laurea) è riuscito a lasciare un’impronta lieve nella mia anima di lettrice. Saranno diversi i nostri ingredienti e i piatti, ma il sentimento è lo stesso. E poi, di contorno ma non troppo, Durian Sukegawa ci racconta di questa pagina nera della storia giapponese, la segregazione dei lebbrosi nei sanatori anche dopo la guarigione dalla malattia. Retaggi del passato? Un passato più recente di quanto pensassi e, comunque, con un monito sempre in agguato: la diversità fa paura a chi non sa aprirsi a ciò che gli altri hanno da dire. 

“Si tratta di osservare bene l’aspetto degli azuki. Di aprirsi a ciò che hanno da dirci. Significa, per esempio, immaginare i giorni di pioggia e i giorni di sole che hanno vissuto. Ascoltare la storia del loro viaggio, dei venti che li hanno portati fino a noi”.

E per voi? Qual è il piatto che vi scatena ricordi dolciamari?

Curiosità

Dal libro è stato tratto un film, An, per la regia di Naomi Kawase, presentato al festival di Cannes e al Toronto film festival nel 2015.

Leggi anche: 

A sud del confine, a ovest del sole – Haruki Murakami

Contenuto non disponibile
Consenti i cookie cliccando su "Accetta" nel banner"

Pista nera: Rocco Schiavone si presenta

Finalmente colmo questa lacuna nella mia carriera di lettrice di gialli e metto nel carnet Antonio Manzini e il suo Rocco Schiavone. Pista nera è il primo romanzo della serie e devo dire che la trama è interessante e originale. Ora vi racconto.

Trama

Semisepolto in mezzo a una pista sciistica sopra Champoluc, in Val d’Aosta, viene rinvenuto un cadavere. Sul corpo è passato un cingolato in uso per spianare la neve, smembrandolo e rendendolo irriconoscibile. Poche tracce lì intorno per il vicequestore Rocco Schiavone da poco trasferito ad Aosta: briciole di tabacco, lembi di indumenti, resti organici di varia pezzatura e un macabro segno che non si è trattato di un incidente ma di un delitto. La vittima è un catanese, di famiglia di imprenditori vinicoli, venuto tra le cime e i ghiacciai ad aprire una lussuosa attività turistica, insieme alla moglie Luisa, un’intelligente bellezza del luogo che spicca tra le tante che stuzzicano i facili appetiti del vicequestore. Davanti al quale si aprono tre piste: la vendetta di mafia, i debiti, il delitto passionale. Quello di Schiavone è stato un trasferimento punitivo. È un poliziotto corrotto, ama la bella vita. Però ha talento. Mette un tassello dietro l’altro nell’enigma dell’inchiesta, collocandovi vite e caratteri delle persone come fossero frammenti di un puzzle. 

Ad Aosta 

La storia si svolge ad Aosta, dove il vicequestore Rocco Schiavone è stato trasferito per punizione avendo dato fastidio a qualcuno (alla fine verrà spiegato il motivo).  C’è anche da dire che siamo di fronte a un upgrade, una volta per quel tipo di punizioni si veniva spediti in luoghi sperduti delle isole. Vorrei vedere oggi chi considererebbe una punizione essere trasferiti da quelle parti? Rocco Schiavone sì! La considera in quel senso, deve abbandonare la sua Roma. Non potendosi opporre, parte per Aosta, consolandosi con il pensiero che almeno farà una vita tranquilla. Quanto ti sbagli, Rocco Schiavone caro. Come sappiamo, il male si annida sempre sotto il sole.

Un banale incidente, apparentemente 

Convinto di essere arrivato in un posto tranquillo, viene chiamato una sera perché c’è stato un incidente sulle piste di Champoluc. Qui Rocco Schiavone subisce il primo impatto con la sua nuova sede di lavoro, ha un freddo tremendo non avendo le coperture adatte per ripararsi dalle temperature rigide, specialmente per quanto riguarda le scarpe. Di solito, cliché utilizzato quando la protagonista è donna. Ma andiamo avanti: iniziano le indagini e da piccoli elementi, Rocco Schiavone capisce che un apparente banale incidente è in realtà un omicidio. Il vicequestore arriverà alla soluzione dopo minuziose indagini. Interessante il luogo dove viene svelata la soluzione, non proprio la sede adatta per accusare di omicidio un presunto colpevole!

Rocco Schiavone 

A questo punto, dobbiamo parlare del vicequestore, che io incontro per la prima volta non avendo mai visto la serie Rai con Marco Giallini. Rocco Schiavone è un personaggio controverso, ironico, da buon romano, iracondo, nessun rispetto per nessuno, in più corrotto e corruttore, ma che conosce il suo lavoro, che peraltro non gli piace. Aspetta l’occasione buona per filarsela in un paese esotico con la sua donna, contando sui suoi guadagni illeciti. Ma sarà veramente così? O nelle prossime uscite scopriremo altri lati di quest’uomo misterioso?

Gli altri personaggi

Ora veniamo alle note dolenti, il contorno di questa storia, cioè il modo in cui vengono presentati i personaggi. È mai possibile che i nostri agenti vengano spesso rappresentati come una specie di Pulcinella o Arlecchino? Fateci caso, nelle serie straniere è il contrario, quasi sempre esaltano le capacità investigative e tutti collaborano alla soluzione dei casi. Non potremmo prendere esempio? Se, invece, siamo davvero come veniamo rappresentati, allora forse sarebbe meglio glissare…

Voi che ne dite? Siete fan di Rocco Schiavone? preferite il Rocco romanzesco o quello televisivo?

Leggi anche: 

La costola di Adamo, seconda indagine per Rocco Schiavone

Ritos de muerte – Alicia Giménez Bartlett

Contenuto non disponibile
Consenti i cookie cliccando su "Accetta" nel banner"

I romanzi di Rocco Schiavone, in ordine di uscita 

  • Pista nera (2013)
  • La costola di Adamo (2014)
  • Non è stagione (2015)
  • Era di maggio (2015)
  • 7-7-2007 (2016)
  • Pulvis et umbra (2017)
  • Fate il vostro gioco (2018)
  • Rien ne va plus (2019)
  • Ah l’amore l’amore (2020)
  • Vecchie conoscenze (2021)
  • Le ossa parlano (2022)
  • ELP (2023)
  • Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Sud America? (2023)
  • Il passato è un morto senza cadavere (2024)

Baltica 9, est Europa con Daniele Benati e Paolo Nori

Quella di Daniele Benati e Paolo Nori non è una guida di viaggio, almeno non nel senso classico del termine. Avere in tasca “Baltica 9”, però, aiuta sicuramente chiunque voglia addentrarsi nell’Europa orientale. Diciamo centro-nord-orientale, perché il viaggio degli autori inizia in Austria e non si sa dove finisce. Il testo si ferma a San Pietroburgo, posto per sua natura sospeso nel tempo.

Più che una guida è un diario

Più che una guida è un diario, dove le sensazioni prevalgono sui fatti narrati ed è per questo che averla in tasca è consigliabile. Chi ha letto “Baltica 9”, infatti, non ci troverà solo informazioni preziosissime e difficili da trovare in una guida classica, ma se saprà acquisire la leggerezza, il disincanto e la capacità di volgere sempre al positivo qualsiasi esperienza degli autori-viaggiatori saprà vivere il proprio viaggio come un’esperienza. Come un vero viaggiatore, per il quale non conta né la meta né la strada, conta l’occhio con cui guardi ciò che ti circonda e chi incontri.

Involontariamente al centro di una polemica 

Leggere il racconto di un viaggio che arriva in Russia compiuto da Daniele Benati e Paolo Nori in questo periodo storico, con quest’ultimo che è stato involontariamente al centro di una polemica nata in seguito alla decisione (poi rientrata) dell’università Bicocca di bloccare le sue lezioni su Dostoevskij, è ancora più interessante. C’è tanto est-europa post sovietico (il libro è del 2008, quindi quasi a metà tra la caduta del muro di Berlino e l’epoca attuale), tantissima Russia, ma anche una prospettiva di viaggio che sembra legare in maniera inevitabile la Russia con l’Ucraina e che sicuramente fa effetto oggi molto più di quanto non potesse farlo quando il libro è stato scritto.

Non è una guida di viaggio, ma è un viaggio guidato

Non è una guida di viaggio, ma è un viaggio guidato, quello che compiono Daniele Benati e Paolo Nori (che nella terza di copertina si identificano rispettivamente con codice fiscale e partita iva), partendo dall’Austria. Guidato dal loro istinto, dalla loro capacità di adattamento, da tanti compagni di viaggio più o meno casuali e dalla particolarità dei posti attraversati. Un viaggio che passa per gran parte attraverso la via Baltica, strada europea E67 che ha origine a Praga e termina a Helsinki attraversando Polonia, Lituania, Lettonia ed Estonia.

Baltica 9

Baltica 9, però, è una birra che non va assolutamente mischiata con la vodka, sennò i russi si offendono. Daniele Benati e Paolo Nori lo capiscono solo una volta arrivati a San Pietroburgo, passando attraverso posti dove il nord è più verde del sud, dove le dogane ti fanno passare prima attraverso mancate modelle polacche e poi attraverso simpatiche ma troppo curiose doganiere lituane, tra episodi “che molti scrittori di guide si vergognano a raccontare di queste cose o non se ne vergognano affatto ma non le metterebbero mai in un libro”. Perché “delle volte certi inconvenienti creano delle situazioni che poi rimangono in mente per sempre anche se non avviene niente”.
Il viaggio fino a San Pietroburgo è avvincente, perché ogni paese attraversato ha la sua peculiarità. Una volta arrivati nella ex Leningrado, che ogni tanto qualcuno chiama ancora così, la narrazione cambia. Tra tombe di poeti con nomi di leggendari portieri di calcio, pezzi teatrali di Bulgakov e giardini che somigliano a quello decritti nell’incipit del Maestro e Margherita, la casa di Jurij Gargarin, donne al volante, un padrone di casa amico finché non esci dal suo seminato, gli autori vivono i loro “giorni bianchi” con una prospettiva più Neva che Nevski. Scorre lenta come il fiume che attraversa la città, tra tassisti senza tassametro di cui non puoi fare a meno quando il giorno diventa notte bianca, col bianco che ha il colore della vodka (da non mischiare alla Baltica 9) e delle tasche dopo una notte al Casinò. Il tempo resta sospeso e l’importante non diventa più né il viaggio in sé, né tantomeno il ritorno a casa. Il racconto, infatti, s’interrompe quando gli autori pensano di aver trovato una risposta a una domanda che non si erano posti all’inizio, ma strada facendo.

Andare avanti, fino alla fine

Merita di essere letto con attenzione fino alla fine, anche se nella parte centrale a un certo punto ho avuto l’impressione di non capire se e come il viaggio sarebbe finito, quasi come se l’arrivo a San Pietroburgo implicasse finire fuori strada. Il suggerimento però è quello di approcciarsi a questo testo nell’unico modo possibile, cioè lo stesso da usare con uno stile molto particolare. Un flusso di coscienza che può disorientare, anche se è rivolto proprio all’oriente. Andando avanti, però, “a un certo punto allungherete il passo e non c’è modo di dissuadervi dal farlo”.

Ultimo consiglio

Non seguite “Baltica 9” come una guida di viaggio. Potreste ritrovarvi a vivere le stesse avventure di Daniele Benati e Paolo Nori. Non è detto che sappiate affrontarle come loro, ma difficilmente saprete raccontarle come loro. E in ogni caso, portatela con voi, perché vi aiuterà a scoprire che a volte il bello sta proprio in ciò che fa paura.

Leggi anche:

Viaggio nei caffè letterari di Budapest

Contenuto non disponibile
Consenti i cookie cliccando su "Accetta" nel banner"

Memorie dal sottosuolo – Fëdor Dostoevskij

Contenuto non disponibile
Consenti i cookie cliccando su "Accetta" nel banner"

Ich bin Berliner/6bis: all in all, no more bricks in the Wall!

Contenuto non disponibile
Consenti i cookie cliccando su "Accetta" nel banner"