Tutti gli articoli di Liza M. Jones

Ne Parliamo a cena. Con Stefania Bertola

Stefania Bertola per me è ormai una garanzia quando si tratta di trovare storie leggere che mi facciano compagnia strappandomi un sorriso. I famosi libri da ombrellone per donne intelligenti, come direbbe Rosamunde Pilcher. Stavolta, ho letto uno dei primi libri pubblicati, quasi venticinque anni fa. Rispetto al mio preferito, che è e rimane Romanzo rosa, qui siamo agli albori della sua scrittura. Ma centra l’obiettivo di strappare un sorriso, quindi va benissimo. Venite che vi racconto.

Trama

Sofia è appena stata piantata dal marito e quel fetente, non contento di spassarsela con una collega, pretende anche di toglierle la casa. E il momento, dunque, di radunare le cugine per una cena di consulto. C’è Costanza, la voce narrante, che non si è mai sposata perché l’uomo che ama è già sposato; Bibi, divorziata ma che sogna di riconciliarsi col marito; Irene, sempre sul punto di separarsi, ma che non si decide mai, e Veronica, l’unica senza problemi e per questo terrorizzata che tanta felicità non possa durare in eterno.

Cugine antipatichelle

Lo dico subito: le cugine sono antipatichelle. Tutte tranne Veronica, forse, che ha talmente tanti bambini a cui badare, una pure presa in affido, che ha meno tempo per andare in giro a combinare guai. La peggiore è proprio la voce narrante, Costanza. Non perché riempia casa di Barbie e accessori di Barbie, o perché non si decida a lasciare un amante sposato con cui si prendono in giro da sedici anni, ma perché non c’è evoluzione. Per le altre sì, un minimo di cambiamento si verifica. Per lei pure, ma sempre dall’esterno, trascinata nelle decisioni importanti da qualcun altro. No donne, la vita va vissuta prendendosi delle responsabilità, ogni tanto. Grandi assenti, oltre alla palpitazione d’amore che si sfiora in un bacio, ma nulla di più, sono le zie e le cene. Le zie appaiono e spariscono all’occorrenza, quando avrebbero potuto essere delle compagnie gustosissime durante la lettura. Le cene ci sono, ma alla fine anche a loro viene assegnato un ruolo marginale.

Libro da ombrellone

Non la migliore Bertola, insomma. Però Stefania Bertola sa scrivere e alla fine porta a casa il risultato. Il famoso libro da ombrellone di Rosamunde Pilcher, che vi consiglio per qualche ora di lettura leggera, per staccare un po’ dalle fatiche quotidiane.

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Lisa See, Jeju e le madri di vento e di sale

Se volete sapere tutto, ma proprio tutto, sulle haenyeo coreane, questo romanzo di Lisa See fa per voi. Se, al contrario, volete solo leggere una storia di amicizia e sorellanza, un po’ meno. Venite che vi racconto.

Trama

Le giovani Mi-Ja e Young-Sook sono nate e cresciute sull’isola di Jeju, in Corea, e fin dal loro incontro sono state inseparabili. È il 1938 e sull’isola incombe la minaccia della guerra sino-giapponese. La madre di Young-Sook è la guida delle haenyeo, le pescatrici del villaggio, che per giornate intere si tuffano in acqua e riemergono con il frutto della loro pesca in apnea, unico sostegno delle loro famiglie. Perché a Jeju sono le donne a lavorare, mentre gli uomini si occupano della casa e dei bambini più piccoli. Mi-Ja è la figlia di un collaborazionista giapponese e sarà sempre associata all’imperdonabile scelta del padre. Quando le ragazze cominciano la loro formazione come haenyeo, sanno che stanno per iniziare una vita ricca di responsabilità, di onori, ma anche di pericoli. Quello che non sanno è che il futuro ha in serbo per loro qualcosa di diverso da ciò che sognavano e che non basteranno le centinaia di immersioni fianco a fianco a tenerle unite. L’irruzione della Storia nella tranquilla Jeju, che rimarrà intrappolata per decenni nello scontro tra le due grandi potenze, accrescerà le differenze e plasmerà le vite delle due donne, che affronteranno ogni avversità senza mai arrendersi.

L’amica geniale

Tra le due protagoniste, Mi-Ja e Young-Sook, la voce narrante, c’è un legame che si piegherà ma non si spezzerà ai colpi della vita. Sembra un po’ di rivedere la storia di Elena Greco e Lila Cerullo de L’amica geniale. Un po’ tanto, in effetti. Forse troppo. Lisa See sarà per caso una fan di Elena Ferrante? La storia delle due amiche, la loro sorellanza, viene ben presto fagocitata dai fatti reali che accompagnano tutta la narrazione. E che, per quanto mi riguarda, sono l’elemento più interessante e il motivo per leggere questo romanzo-saggio. 

Il romanzo-saggio

Questa modalità di narrazione va ora di moda. Il saggio romanzato ha lasciato posto a una storia romanzata poco approfondita, a tutto vantaggio dei particolari storici che non fanno più da contorno o ambientazione, ma prendono il sopravvento e il largo, visto che in questo caso parliamo di mare.  Lisa See descrive i fatti storici realmente accaduti a Jeju dal 1938 ai giorni nostri, come l’occupazione giapponese della seconda guerra mondiale, la guerra tra Cina e Giappone e la guerra fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica, in maniera minuziosa.Così, spiega molto dell’attuale assetto di quest’isola, nonché le ricadute nefaste che hanno avuto su popoli incolpevoli, che avevano come loro unico obiettivo lavorare e sfamare la famiglia. Il clima di terrore e sospetto innescato dagli occupanti, qualunque fosse la loro nazionalità, ha portato prima miseria e poi morte.

Il 3 aprile 1948

Non dobbiamo pensare che siano fatti confinati nel passato. La fossa comune di quello conosciuto come “Incidente del 3 aprile 1948“, che poi andrebbe chiamato col suo nome, cioè massacro, è stata scoperta solo nel 2008, meno di vent’anni fa. E se penso che i corpi sono seppelliti a pochi metri dalla pista dell’aeroporto in cui anch’io sono atterrata sull’isola di Jeju, mi vengono i brividi. Questa è una parte di storia recente che per noi occidentali è sconosciuta o quasi. Lisa Lee è preparatissima, ha condotto studi minuziosi, si è fatta raccontare le storie di famiglia dagli abitanti e quelle documentate dai professionisti. Ha svolto un lavoro eccellente, a mio parere, molto approfondito, crudo, realistico.
Società matrifocale 
Come super interessante è la storia delle haenyeo e dell’organizzazione sociale matrifocale che fa di quest’isola quasi un unicum. A Jeju gli uomini sono casalinghi, cuochi e babysitter…vi dice niente? Le donne, invece, sono capofamiglia e procacciano cibo e sostentamento per tutti. Nonostante sia riuscite a vederle in azione coi miei occhi e abbia visitato il museo a loro dedicato, penso di aver appreso almeno il 90% di quello che ha raccontato Lisa See su di loro. 
Cadi otto volte, rialzati nove. Per me, questo detto non riguarda tanto i morti che preparano la strada alle generazioni future quanto le donne di Jeju. Soffriamo di continuo ma, a ogni nuova sofferenza, ci rimettiamo in piedi e continuiamo a vivere“. 
A terra, sarai una madre. In mare, le tue lacrime si aggiungeranno agli oceani di lacrime salate che spazzano il pianeta con le loro onde. Di questo sono sicura: se ti impegni a vivere, allora puoi vivere bene“. 
“Ogni donna che entra in mare porta una bara sulla schiena. In questo mondo, il mondo degli abissi, trasportiamo i fardelli di una vita dura”. 

Storia seppellita dai particolari

Sulla parte più strettamente romanzata, invece, Lisa See non è così efficace. Il finale è convincente, le figure di Mi-Ja e Young-Sook anche, due bambine prima, e due adulte poi, che si completano. Io ero come le rocce della nostra isola: frastagliata, ruvida, tutta spigoli ma desiderosa di aiutare e molto concreta. Lei (Mi-Ja) era come le nuvole: in continuo movimento, in continuo cambiamento, impossibile da afferrare o da comprendere appieno. Ma la loro storia finisce per essere seppellita dai particolari più insignificanti. Lisa See sa molto e vuole farlo vedere. Quello che, però, è un pregio per un racconto di storia, non sempre lo è per un racconto di fantasia. Allora non sarebbe stato meglio scrivere direttamente un sagggio?
“L’ho deluso…Non tengo la casa in ordine come faceva sua madre”.
“Non difenderlo e non giustificare le sue azioni come se le compiesse per colpa tua”. 
“Ma forse è davvero colpa mia”.
“Nessuna moglie chiede di essere picchiata”. 
“Secondo te che sapore ha il pane?” chiese Wan-soon un pomeriggio. 
“E il latte di capra?”, mi chiese Min-lee. “L’hai bevuto quando eri all’estero?”
“No, ma una volta ho assaggiato il gelato”. 
“Vuoi diventare una scienziata o una ciclista?” chiesi.
“Voglio fare entrambe le cose. Voglio…”
“Tu vuoi?”dissi, interrompendola. Tutti vogliamo. Ti lamenti quando per il pranzo a scuola ti do una patata dolce, ma io ho vissuto anni interi con una sola patata dolce come unico pasto della giornata”. 
“Puoi fare tutto per tua figlia. Puoi incoraggiarla a leggere e a fare i compiti di matematica. Puoi proibirle di andare in bicicletta, di sghignazzare troppo o di vedere un ragazzo. A volte, tutto quello che fai è inutile e senza senso come gridare al vento”. 
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Obsidian di Jennifer L. Armentrout, serie Lux

Jennifer L. Armentrout, inizia da Obsidian e dalla serie Lux la mia conoscenza dell’autrice. In colpevole ritardo, direi. Perché pur non trovando grande originalità nella storia che racconta, Obsidian mi ha convinto. Venite che vi racconto.

Trama

Kathy è una blogger diciassettenne che si è appena trasferita in un paesino del West Virginia, rassegnandosi a una noiosa vita di provincia. Noiosa finché non incrocia gli occhi verdissimi e il fisico da urlo del suo giovane vicino di casa, Daemon Black. Poi quell’incredibile visione apre bocca: arrogante, insopportabile, testardo e antipatico. Fra i due è odio a prima vista. Ma mentre subiscono un’inspiegabile aggressione, Daemon difende Kathy bloccando il tempo con un flusso sprigionato dalle sue mani. Sì, il ragazzo della porta accanto è un alieno. Un alieno bellissimo invischiato in una faida galattica, e ora anche Kathy, senza volerlo, c’è dentro fino al collo. Salvandola, l’ha marchiata con un’aura di energia riconoscibile dai nemici che li hanno aggrediti. L’unico modo per limitare il pericolo è che Kathy stia più vicina possibile a Daemon…

Una scrittrice sicura di sé

Come vi dicevo all’inizio, niente che faccia gridare al miracolo. Ci sono gli alieni, le battaglie tra due mondi, un’ingenua studentessa americana che finisce in mezzo. Più o meno una storia già vista o letta. Scritta bene, però. Nessun calo di ritmo, due protagonisti simpatici, la parte romance ben strutturata e quella fantasy che regge. Ovviamente, essendo il primo libro di una serie di otto, Jennifer L. Armentrout lascia molti aspetti senza luce, è il caso di dire, e per sapere tutto non resta che andare avanti con le altre uscite. Non so se ho voglia di proseguire, potrei anche fermarmi qui perché la storia ha una sua conclusione. Finalmente una scrittrice sicura di sé, che non lascia portoni spalancati per costringere il lettore a comprare il seguito.

Luce tenue

Le uniche perplessità sono su alcuni aspetti di contorno. Uno mi ha fatto sorridere: come fa un alieno a fondere un pc ma a lasciare lo smartphone perfettamente funzionante? 🙂 Quello che un po’ mi è mancato, invece, è il resto della cittadina, che rimane sullo sfondo, qualche volta nominato da Kathy, ma rimane evanescente, potrebbero di fatto essere ovunque.

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Clan Delon, tra cane e lupo non mettere il dito

Il clan Delon messo a nudo da Anthony, che con l’autobiografia Dolce e crudele, questo il titolo italiano, decide di raccontarci la sua famiglia partendo dalle ombre che l’hanno sempre caratterizzata. Operazione riuscita? Venite che vi racconto.

Trama

Figlio di un mostro sacro del cinema e di un’attrice amante della libertà, Anthony Delon squarcia il velo sulla sua famiglia e sulla sua vita, offrendo un ritratto della sua infanzia, degli anni della giovinezza, della malattia della madre, alla quale è rimasto vicino fino all’ultimo giorno. Al centro del racconto il rapporto tormentato con il padre, la violenza psicologica, la difficoltà di vivere nella sua ombra, il senso di abbandono, ma anche l’amore della tata e del padrino Georges Beaume, che l’ha salvato. In questo libro pone a se stesso e ai lettori una domanda universale. Come superare le paure, le ferite, le delusioni? Come non riprodurre il modello imposto dalla famiglia, dove l’amore è stato la prima vittima di una maledizione che si tramanda di generazione in generazione? 

Tra il giorno e la notte

Il titolo originale di questa autobiografia è Tra cane e lupo, un’espressione francese che significa “all’imbrunire, al calar della notte”. Quell’ora del giorno, cioè, in cui la luce è incerta, l’ora in cui il cielo a volte è blu scuro, momento in cui è difficile distinguere oggetti o esseri. Come distinguere un cane da un lupo? Il cane simboleggia il giorno e la luce, protettiva, mentre il lupo rappresenta la notte dove sorgono paure, ansie e incubi. Prima di queste paure, tra cane e lupo appunto, vengono il dubbio e la preoccupazione del crepuscolo. Come quasi sempre, il titolo originale è più calzante e allude all’ambiguità di fondo che domina i rapporti in questa famiglia, come se fossero sempre in bilico tra la distruzione totale e la rinascita improvvisamente. Anthony Delon si riferisce alla sua famiglia chiamandola “Clan Delon” e le dinamiche sembrano proprio quelle di un clan. Un clan in cui le regole vengono scritte e stracciate continuamente dal capoclan. 

Alla ricerca di un’identità 

Anthony descrive se stesso come un bambino solo e indifeso, lasciato da entrambi i genitori, giovani quando è nato, alla cura di altri, le vere rocce salde della sua vita. Il racconto, quindi, si dipana tra un’infanzia e un’adolescenza essenziamente infelici, sempre a cercare di schivare i colpi di un padre pronto a diventare lupo nei momenti più impensati e una madre che vive la sua vita lontano dal figlio, e una vita adulta in cui il figlio di è alla costante ricerca di una sua identità. Identità che, dice, ha trovato grazie alle sue figlie e al suo voler essere un padre presente, laddove le sue figlie sono alle prese (come lui) con una madre lontana. Una madre che comunque lui adora, mentre fatica ad accettare il padre che gli è capitato in sorte. 

Non squarcia il velo

C’è un grande mah in questa autobiografia, che avrebbe invece potuto “squarciare un velo” (come recita la sinossi). Anthony Delon decide di lasciare le ombre al loro posto, forse per non svegliare il can e il lupo che dorme. O forse per non tradire quel clan di cui lui fa parte a pieno titolo, soffrendo delle stesse pulsioni violente e autodistruttive. Perché, andando a leggere tra le righe, gli affari poco chiari non sono solo quelli del genitore. E anche Anthony, come padre, ha recuperato solo in vecchiaia il rapporto con la prima figlia Alyson Le Borges, illegittima, che oggi fa l’attrice. Rapporto di cui nel libro non fa cenno, riferendosi solo ed esclusivamente alle due figlie avute dal matrimonio. Perché? Mi piacerebbe chiederglielo. Eppure l’ha riconosciuta, mentre il presunto figlio illegittino di Alain Delon, Christian Aaron Boulogne, è deceduto senza essere mai stato riconosciuto. In definitiva, trovo che il lavoro sia interessante perché comunque descrive un rapporto genitori-figli che avvicina persone famose a tutti noi; al netto di ville, scuole e vacanze esclusive, in fondo, quello che tutti vogliamo e cerchiamo è solo amore.

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La torta margherita della libreria sulla collina

Ho scelto un nome poetico per questa torta margherita, che ho trovato dentro il libro La libreria sulla collina, di Alba Donati. Da qui, il nome. In realtà, da margherita è diventata svuotafrigo, perché io invidio sul serio quelli che “a occhio” tirano fuori capolavori. Io me la cavo meglio con tre avanzi e vediamo cosa esce. Ora vi farò vedere cos’è uscito stavolta.

La torta margherita della libreria sulla collina

Ieri sera dando un’occhiata al frigorifero e notando un eccesso di uova e burro mi sono lanciata in una torta margherita senza bilancia. Ho detto: se ce la faceva Colette posso farcela anch’io. E così tre uova, un po’ di zucchero, un po’ di farina, una bustina di lievito, un po’ di latte caldo con un po’ di burro fuso. Et voilà. Trenta minuti di forno ed è uscita una favola. E io e felice di aver saputo di cosa fosse fatto quell’”un po’”. L’un po’ di chi pesa senza bilancia è ciò che fa impazzire i critici, i filologi perché è pura invenzione, è una sillabazione innata che non puoi insegnare, catalogare, regolare. Un filo d’olio q.b. è la sconfitta accademica. E allora ben vengano i George Steiner, i Cesare Garboli, le Colette e le Virginia Woolf, le Elsa Morante e tutti quelli e quelle che sapevano che col filo d’olio si fa la letteratura.

Ingredienti

  1. uova, 2 medie
  2. zucchero, un po’ 
  3. farina, un po’
  4. lievito, una bustina 
  5. acqua calda, un po’ 
  6. yogurt alla fragola, 1 vasetto.

Procedimento

Ed eccomi qui, con gli ingredienti che ho a disposizione. Ho seri dubbi che se ce la faceva Colette possa farcela anch’io, ma ormai sono in ballo e ballerò. Ho mescolato le uova con lo zucchero fino a ridurle in crema, ho setacciato la farina insieme al lievito e le ho aggiunte al composto. Infine, il vasetto di yogurt e acqua calda, solo se necessaria a rendere il composto della giusta densità se vi sembra troppo compatto. La giusta densità, sempre a occhio, dovrebbe essere quando tirandolo su con il cucchiaio, la crema scende a nastro. Quindi, se non scende, acqua, se scende troppo velocemente, poca farina. Et voilà. Nella tortiera, che non ho potuto imburrare perché non avevo il burro ed era troppo grande per l’impasto, e subito in forno, scaldato in precedenza a 180°. Più o meno dopo 20 minuti potete aprire e fare la prova stcchino. Se esce asciutto, sfornate immediatamente.

Vi dirò: Colette la sapeva lunga. E’ venuta molto buona, molto morbida, molto profumosa di fragola, con una forma quasi tonda. Molto adatta a una bella merenda con libro in mano. Nel mio caso, due, vi dirò presto. Da rifare quando la vita stanca.

E voi, che tipi siete? Pesate tutti gli ingredienti col bilancino o, a volte, vi lasciate tentare dall’estro culinario? Scrivetemi nei commenti!

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