Emmanuel Carrère fa Yoga. Niente di eccezionale, lo fanno in tanti. Senonché lui trasforma quest’antica arte orientale in una riflessione su di sé e sul mondo che lo circonda. Dando vita a una specie di autobiografia in cui l’elemento dominante è l’equilibrio. Che a volte si trova, che più spesso si perde. Venite che vi racconto come è andata la lettura.
Trama
La vita che Emmanuel Carrère racconta, questa volta, è proprio la sua: trascorsa, in gran parte, a combattere contro quella che gli antichi chiamavano melanconia. C’è stato un momento in cui lo scrittore credeva di aver sconfitto i suoi demoni, di aver raggiunto «uno stato di meraviglia e serenità»; allora ha deciso di buttare giù un libretto «arguto e accattivante» sulle discipline che pratica da anni: lo yoga, la meditazione, il tai chi. Solo che quei demoni erano ancora in agguato, e quando meno se l’aspettava gli sono piombati addosso: e non sono bastati i farmaci, ci sono volute quattordici sedute di elettroshock per farlo uscire da quello che era stato diagnosticato come «disturbo bipolare di tipo II». Questo non è dunque il libretto «arguto e accattivante» sullo yoga che Carrère intendeva offrirci: è molto di più. Vi si parla, certo, di che cos’è lo yoga; ma anche di una relazione erotica intensissima e dei mesi terribili trascorsi al Sainte-Anne, l’ospedale psichiatrico di Parigi; del sorriso di Martha Argerich mentre suona la polacca Eroica di Chopin e di un soggiorno a Leros insieme ad alcuni ragazzi fuggiti dall’Afghanistan; di un’americana la cui sorella schizofrenica è scomparsa nel nulla e di come lui abbia smesso di battere a macchina con un solo dito – per finire, del suo lento ritorno alla vita, alla scrittura, all’amore.
Un sapore insipido
Da entusiasta praticante di yoga e avendo vissuto un’esperienza molto simile in Asia, ospite per due giorni di un tempio buddista in Corea del Sud, mi aspettavo molto da questo mio primo approccio con Emmanuel Carrère. Devo dire che alla fine mi sento come se avessi gustato un piatto prelibato con le pupille, per poi ritrovarmi con un sapore insipido nelle papille. Il paragone è forse un po’ ardito, anche perché questo è uno scrittore di primo piano, in Europa e non solo. però è così che mi sento.
Ma andiamo con ordine
Il racconto parte bene e cattura subito il mio interesse. Emmanuel Carrère decide di immergersi in un’esperienza meditativa importante, molto coinvolgente e anche difficile da sostenere. Lo seguiamo, quindi, mentre tenta di acclimatarsi e di sostenere le prove che via via il centro di meditazione offre ai partecipanti. Lui ci racconta degli altri intervenuti, delle motivazioni che probabilmente li sostengono, e anche della sua. Trovare un centro di equilibrio. Lui, che nella vita ha avuto tutto e, giustamente, si ritiene fortunato: famiglia in vista, ottime scuole, percorso netto, nessuna malattia, genitori anziani ancora vivi. Chi non proverebbe un pizzico di sana invidia? Eppure, tutto questo si scontra con la sua condizione: disturbo bipolare di tipo II. Vado a controllare cosa sia il tipo II e apprendo che è caratterizzato da uno o più episodi di depressione maggiore, accompagnati da almeno un episodio di disturbo dell’umore. Mentre lui cerca di trovare il suo equilibrio con la meditazione, la vita irrompe all’improvviso.
Charlie Hebdo
La vita, l’attentato che ha scosso la Francia, interrompe la sua partecipazione al seminario. Emmanuel Carrère deve tornare alla civiltà, anche perché la sua è una famiglia di un certo tipo e anche per motivi di sicurezza deve rientrare. Rientra, e da lì in poi secondo me la narrazione perde spessore. L’autore ci fa entrare in un labirinto di fatti apparentemente non connessi, o forse sì: la morte del suo editore storico, che ha poi causato la sua uscita come autore dalla casa editrice, il suo sprofondare nell’abisso della malattia mentale, raccontato con dovizia di particolari (ma cosa l’ha scatenato? Forse lo intuisco, ma lui non lo dice) e, alla fine, l’ultimo viaggio, a Leros, insieme ad alcuni profughi dell’Afghanistan. Quasi a simboleggiare un parziale riscatto e un ristabilimento dell’equilibrio. Che, come sa bene chi pratica yoga, si perde, si riacquista per un attimo, e poi si perde di nuovo. E il ciclo ricomincia.
Pura fiction
Da qui, metaforicamente, il titolo del romanzo. Sì, del romanzo, perché tutta la costruzione per me è indubbiamente pura fiction. Anche se il marketing vuole presentarlo come autore che affronta la verità, di verità ne ho vista poca, se non nella prima parte, quando mi sono riconosciuta in alcuni passaggi dell’esperienza meditativa. Il resto, una somma di linee diverse, che non si incontrano. Non ho visto il cerchio, né una gaussiana, che pure sarebbe andata bene. Forse, e sottolineo forse, perché in realtà questo libro è frutto di scritti elaborati in momenti diversi e poi messi insieme per farli uscire sotto lo stesso cappello? O forse, e sottolineo di nuovo forse, perché la vita è davvero entrata nella narrazione, ma non come si aspettava l’autore?
L’ex seconda moglie
La sua seconda moglie , la giornalista Hélène Devynck, ha raccontato a Vanity Fair che lo scrittore non avrebbe rispettato l’accordo di divorzio che gli impone di ottenere la sua autorizzazione prima di parlare di lei. Nella versione che ho letto io, di lei parla pochissimo e per dire che è stato lui la causa dei problemi coniugali. Forse per non bloccare l’uscita del libro? Altro elemento che mi fa sospettare la non verità dell’operazione. Secondo la donna, Carrère avrebbe messo su carta un “ritratto compiaciuto della sua malattia mentale e del suo trattamento”, ma soprattutto ha dilatato la sua esperienza di volontariato a Lesbo, durata secondo lei appena pochi giorni. Hélène Devynck ci va giù pesante: “Yoga è un successo commerciale salutato da critici entusiasti che prendono per oro colato la favoletta dell’uomo che si mette a nudo, onesto e sofferente, che risale zoppicando la china, e che vorrebbe diventare un essere umano migliore. I lettori sono liberi di credere, come di dubitare”.
Io dubito: e voi?
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