la vegetariana

La vegetariana – Han Kang

Han Kang è la prima scrittrice coreana che leggo e ho scelto di partire da La vegetariana, un romanzo di cui si è parlato molto un paio di anni fa. Mi sono trovata davanti a una storia completamente diversa da quella che immaginavo e che mi ha rapito completamente. Tanto che a un certo punto ho iniziato a centellinare le pagine. È meraviglioso quando accade, vero?

Trama

«Ho fatto un sogno» dice Yeong-hye, e da quel sogno di sangue e di boschi scuri nasce il suo rifiuto radicale di mangiare, cucinare e servire carne, che la famiglia accoglie dapprima con costernazione e poi con fastidio e rabbia crescenti. È il primo stadio di un distacco in tre atti, un percorso di trascendenza distruttiva che infetta anche coloro che sono vicini alla protagonista, e dalle convenzioni si allarga al desiderio, per abbracciare infine l’ideale di un’estatica dissoluzione nell’indifferenza vegetale. 

Tre atti per un dramma

Il romanzo è composto in realtà di tre racconti, autonomi ma collegati alla vicenda principale. Il primo, La vegetariana, dà il titolo al romanzo. L’inizio mi ha proiettato subito in un’atmosfera rarefatta e inquietante, che ha accompagnato tutta la lettura. Il marito di Yeong-hye racconta di averla sposata perché insignificante e che proprio per questo la trovava adatta al tipo di vita monotona e tranquilla che voleva fare. Peccato che la moglie così ubbidiente a un certo punto del loro matrimonio si faccia trovare da lui davanti al frigorifero, intenta a buttare nell’immondizia tutta la carne surgelata. Considerate che in Corea la carne rappresenta il pasto tipico e che quella di manzo costa moltissimo, quindi immaginatevi lo sconcerto di questo coniuge così distaccato dalla povera Yeong-hye. Ben presto lo scandalo si allarga alla famiglia e ai conoscenti. Yeong-hye non solo è diventata vegetariana, ma non porta neanche il reggiseno.

Il viaggio

Questi sono i primi sintomi di un disagio ben più profondo che investe progressivamente la donna. Nel secondo tempo, La macchia mongolica, il cognato di Yeong-hye, il marito della sorella In-Yie, ritrova improvvisamente la vena artistica perduta proponendo a Yeong-hye un servizio fotografico che la fa precipitare ancora di più nell’abisso in cui sta sprofondando. Nel terzo atto, quello conclusivo, la via imboccata da Yeong-hye è senza ritorno e solo la sorella In-Yie sembra in grado di accompagnarla in questo viaggio. 

Il vegetarianismo non c’entra 

Non vi dico di più per non togliervi il gusto della lettura e consiglio caldamente di evitare il più possibile commenti e recensioni, se avete intenzione di leggerlo. Alcuni perché troppo dettagliati, altri perché vi porterebbero fuori strada. Come lontano dal tema principale ci vuole condurre l’autrice Han Kang, dando al suo lavoro un nonsenso come titolo. Il vegetarianismo non c’entra niente. O meglio, non c’entra secondo l’uso che diamo comunemente alla parola. Qui c’è una donna che rompe i tabù della società, che sembra pazza, ma forse non lo è. Una donna che semplicemente ha trovato la sua strada per la libertà. Da tutto, dai legami familiari, dalle convenzioni, dal cibo perfino.

(Ri)nascere in una forma sbagliata

Possiamo chiederci se l’autodeterminazione sia vera libertà o se, in fondo, non sia la nuova frontiera dello schiavismo. Oppure se qualcuno di noi riesce a sentire un contatto con le forze della natura che a noi sfugge. O ancora, per chi crede nella reincarnazione, se il problema di Yeong-hye non sia solo essere (ri)nata in una forma e un corpo sbagliati. 

Un gran libro

Tanti, tanti spunti di riflessione e meditazione mi ha offerto Han Kang. E anche se in patria non è considerata (almeno sembra) una scrittrice di punta, e anche se le critiche feroci non sono mancate, se riuscirete a entrare nello spirito profondamente darwiniano che invade la storia, bé, penserete come me di trovarvi di fronte a un gran libro. Di quelli che vorresti non finissero mai.  Di quelli che rimani giorni e giorni a pensarci e a rimuginarci, una volta arrivata alla parola fine. Era dai tempi di Michel Faber e della sua Isserley che non mi succedeva.

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